La spina aggiunta alla corona imposta sul capo di Cristo. Una conseguenza pregressa della legge Cirinnà sulle coppie di fatto
Col varo definitivo della legge Cirinnà il Parlamento italiano ha ripetuto il grido emesso duemila anni fa dalla Sinagoga ribelle, proclamando “non abbiamo altro Re che Cesare!” (Mt. 27, 15), ossia – tradotto in termini moderni – non riconosciamo altro sovrano e legislatore che il “popolo”, o meglio chi lo seduce, inganna e manovra contro Dio.
di Guido Vignelli
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Mercoledì 11 maggio 2016, il Parlamento italiano ha definitivamente varato la legge Cirinnà: ossia una legge che, elevando le convivenze (anche omosessuali) alla dignità di “famiglie”, in realtà abbassa la famiglia al livello delle convivenze; una legge che, rovesciando dalla base il diritto di famiglia, “cambierà il volto della società”, come hanno ammesso anche alcuni ministri in carica. Ora molti, con giusta preoccupazione, si chiedono quali ne saranno le conseguenze nel prossimo futuro. Comunque sia, quella legge ha già prodotto una conseguenza nel lontano passato: una conseguenza che ha aggravato la Passione del nostro Signore e Redentore.
Secondo un’antica tradizione, i tipi di sofferenza inflitti a Gesù Cristo corrispondono a relativi tipi di peccati, commessi dall’umanità ribelle ed espiati dal Redentore subendo al suo posto quegli specifici patimenti. Ad esempio, la flagellazione ha espiato i peccati di lussuria, mentre i peccati di superbia sono stati espiati dall’imposizione della corona di spine – corona che cinse non solo le tempie ma anche l’intero capo del Redentore, come conferma il reperto della Sindone (Mc. 15, 17-19; Mt. 27, 29-30).
Poiché oggi il mondo cattolico tende a ridurre tutto all’aspetto strettamente individuale e privato, ci si dimentica che i peccati possono essere commessi anche da una classe, da una istituzione o da una nazione; in tali casi si tratta di peccati collettivi, sociali, pubblici. Ad esempio, un peccato di superbia, che eleva l’uomo ponendolo al di sopra di Dio, può essere commesso da una nazione intera nella persona dei suoi pubblici rappresentanti. Ciò accade soprattutto quando questa nazione si rifiuta di riconoscere che il Creatore, Legislatore e Redentore dell’umanità (e quindi anche della società) ha pieno e assoluto diritto ad essere ufficialmente riconosciuto come Re, o almeno rispettato nelle Sue leggi fondamentali, promulgate innanzitutto dal Decalogo e insegnate dal tradizionale Magistero ecclesiastico. Se poi questa nazione era un tempo cristiana, o addirittura è nata come tale per influenza della Chiesa stessa, allora questa nazione commette un peccato di pubblica apostasia dalla Fede ricevuta.
Orbene, l’11 maggio 2016 è stato commesso appunto un peccato sociale e istituzionale. Nella persona dei suoi rappresentanti parlamentari “democraticamente eletti”, non sotto costrizione di una minaccia esterna ma per libera e sovrana volontà, il popolo italiano ha sancito che il sapiente ordinamento divino, riguardante la famiglia come cellula e modello della società, non deve più valere nel diritto pubblico e nella organizzazione statale. In tal modo, la nazione italiana ha nuovamente violato almeno due dei divini Comandamenti e ha aggiunto una nuova offesa alla divina bontà e provvidenza, dopo quelle costituite dalla passate leggi sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto, la fecondazione artificiale, etc. Del resto, il decreto Cirinnà è logica conseguenza della offensiva antifamiliare iniziata appunto con la legge divorzista (1970).
Così facendo, il Parlamento italiano ha ripetuto il grido emesso duemila anni fa dalla Sinagoga ribelle, proclamando “non abbiamo altro Re che Cesare!” (Mt. 27, 15), ossia – tradotto in termini moderni – non riconosciamo altro sovrano e legislatore che il “popolo”, o meglio chi lo seduce, inganna e manovra contro Dio. Il Parlamento ha anche proclamato “non vogliamo che Costui regni su di noi!”, perché il Cristo “si è fatto chiamare Figlio di Dio” (Mt. 27, 7) al posto del Popolo (democraticamente) Eletto, ponendosi quindi sopra la sovranità popolare, pretendendo di reprimere le passioni sociali liberate dopo due millenni di “superstizione e tirannia”. Con una differenza, rispetto a quanto avvenuto durante il processo: mentre allora Pilato cedette per paura ammettendo che in tal modo permetteva un delitto, oggi i parlamentari sedicenti cristiani hanno osato votare liberamente una legge iniqua presentandocela come “parzialmente giusta” o “preventivamente migliore” rispetto a un’altra peggiore che rischiava di passare. Il povero Pilato non avrebbe potuto neanche immaginare simili sofismi per giustificare un tradimento della giustizia!
Con il proclama e con il rinnegamento che ripetono quelli della ribelle Sinagoga di allora, i rappresentanti ufficiali del popolo italiano hanno aggiunto una nuova spina alla derisoria e crudele corona già imposta sul capo del Redentore: una spina che Gli sarà concretamente inflitta dalla pubblica amministrazione quando dovrà applicare la legge Cirinnà. Questa ennesima spina non solo porta al culmine l’offesa osata, ma anche rischia di esaurire la pazienza di un Dio finora propenso a sopportare il ripudio e a rinviare la giusta punizione di un popolo ingrato, ribelle e apostata. E’ infatti certo che una colpa collettiva esige una punizione altrettanto collettiva di quel popolo che l’ha commessa, o che non ha saputo né voluto opporsi a quei suoi rappresentanti che l’hanno commessa.
Di questa nuova spina, anche la Conferenza Episcopale Italiana ne porta la responsabilità oggettiva. Invece d’impedire il varo di una legge iniqua come quella appena approvata, essa ha impegnato tempo, parole e scritti in battaglie secondarie o superflue o addirittura dannose. Non c’è da sperare che ora l’episcopato organizzi pubbliche preghiere e penitenze per riparare all’iniquità anticristiana e alla ignavia cristiana, visto che non ha fatto nulla per impedirla, anzi ha tentato di delegittimare quei movimenti cattolici che hanno almeno provato ad opporvisi. Su una Gerarchia come questa, che reputa la difesa della “biosfera” ben più importante di quella della sanità naturale e soprannaturale della famiglia, rischia di piombare la punizione preannunciata dalla Madonna nel “terzo segreto” di Fatima: una punizione forse poco misericordiosa, ma molto salutare.
– di Guido Vignelli
http://www.riscossacristiana.it/la-spina-aggiunta-alla-corona-imposta-sul-capo-di-cristo-una-conseguenza-pregressa-della-legge-cirinna-sulle-coppie-di-fatto-di-guido-vignelli/
I martiri della legge naturale
I martiri della legge naturale
(di Cristiana de Magistris) NellaSomma teologica san Tommaso afferma che la «legge naturale» è «la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale». Secondo l’Aquinate, grazie ad una disposizione innata, la «sinderesi», l’uomo possiede la «cognizione abituale» dei principi primi della legge naturale, iscritti da Dio nella sua anima. In quest’ottica la difesa della legge naturale, la quale altro non è che la partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole, equivale in qualche modo alla difesa dei diritti di Dio, e infine di Dio stesso.
Da ciò si comprende la gravità dei peccati contro la legge naturale, e da ciò parimenti si spiega perché la Chiesa annoveri tra i suoi martiri non solo coloro che hanno versato il proprio sangue per la difesa della Fede, ma anche per la legge divina (ad esempio, san Giovanni Battista, san Tommaso Moro, san Giovanni Fisher che hanno difeso l’indissolubilità del matrimonio) e per la legge naturale. Due santi che la Chiesa ha appena commemorato (il 5 e il 7 maggio) portano questa gloriosa aureola: sant’Angelo di Gerusalemme e san Stanislao, vescovo di Cracovia.
Sant’Angelo nacque a Gerusalemme nel 1185 da genitori ebrei convertiti al cristianesimo. All’età di 18 anni entrò fra i Carmelitani e visse nel convento sul monte Carmelo in duro ascetismo, in digiuni, preghiere e penitenze. Ordinato sacerdote all’età di 25 anni, presto cominciò a predicare e ad imitare la potenza taumaturgica dei suoi padri Elia e Eliseo compiendo i primi miracoli. Nel 1214 Alberto di Gerusalemme compose una nuova regola per l’Ordine dei Carmelitani e, 4 anni dopo, nel 1218, Angelo ebbe la missione di recarsi a Roma per sottoporre la nuova regola all’approvazione di papa Onorio III.
A Roma, Angelo incontrò san Domenico Guzman e san Francesco d’Assisi, che gli profetizzò il suo martirio. Dopo una breve permanenza nella Città eterna, Angelo fu inviato in Sicilia, dove predicò in diversi paesi ed infine, giunse a Licata. Qui, nel corso delle sue predicazioni, conobbe Berengario La Pulcella, un signorotto del luogo, di origine normanna che, oltre ad essere un caparbio cataro, da dodici anni, con indicibile scandalo del popolo, viveva una relazione incestuosa con la sorella Margherita dalla quale aveva avuto tre figli. Angelo tentò molte volte di riportare paternamente Berengario sulla retta via, ma invano.
Tuttavia, con le sue prediche sul peccato, convinse almeno la donna a ravvedersi e a fare pubblica penitenza. Margherita gridò il suo pentimento davanti al santo predicatore e alla moltitudine di persone presenti in chiesa. Fu allora che Berengario, irato oltremisura, progettò la sua vendetta. Un giorno, mentre Angelo predicava al popolo, Berengario, passando in mezzo alla folla, salì sul pulpito, e lo pugnalò con cinque colpi mortali sotto lo sguardo impietrito degli astanti. Era il 5 maggio del 1220. Prima di morire, Angelo chiese a Dio e ai fedeli di Licata di perdonare il suo assassino. Berengario pose fine alle sue scelleratezze e ai suoi infelici giorni impiccandosi nella sua stessa casa. L’Ordine Carmelitano venera sant’Angelo almeno dal 1456, e papa Pio II ne approvò il culto. Nell’arte è raffigurato con la palma del martirio in mano, tre corone (verginità, predicazione, martirio) e con una spada che gli trapassa il petto, segno del suo martirio. La sua festa si celebra il 5 maggio.
San Stanislao, nato in Polonia nel 1030 da pii e devoti genitori, si distinse fin dall’infanzia per le sue virtù. Ordinato sacerdote e fatto canonico della cattedrale, fu il modello del capitolo per l’intensità della sua vita ascetica e il lume dei suoi consigli. Dopo la morte del Vescovo Lamberto, Stanislao fu eletto suo successore. In quel tempo regnava in Polonia il re Boleslao II, uomo dai costumi quanto mai dissoluti. Nessuno tuttavia osava redarguirlo. Solo Stanislao tentava di indurlo a cambiar vita e Boleslao II, in principio, parve dar segni di pentimento. Ma le buone risoluzioni del re non durarono a lungo.
Un giorno Boleslao, nella provincia di Siradia, fece rapire a viva forza Cristina, la moglie del signore Miecislao, famosa per la sua bellezza. Quest’atto tirannico e immorale provocò l’indignazione dell’intera Polonia. Il Primate del regno e gli altri vescovi, che avrebbero dovuto intervenire, non volendo dispiacere al sovrano tacquero miseramente. Soltanto Stanislao ebbe la fermezza di affrontare il re, minacciando di colpirlo con le censure ecclesiastiche se non avesse posto fine alla sua vita dissoluta. Alla minaccia di scomunica, Boleslao lo ingiuriò vergognosamente dicendo: «Quando uno osa parlare con tanto poco rispetto ad un monarca, converrebbe che facesse il porcaio, non il vescovo». Il Santo, senza alterarsi, rispose: «Non stabilite nessun paragone tra la dignità regale e quella episcopale perché la prima sta alla seconda come la luna al sole o il piombo all’oro».
Boleslao II risolvette di vendicarsi ricorrendo alla calunnia e, durante un’assemblea generale, accusò il Santo di essere il possessore illegittimo di un terreno, che egli invece aveva legalmente acquistato, senza però poterlo provare con documenti. Poiché i veri testimoni tacevano, temendo di dire la verità, Stanislao promise di far comparire in giudizio, entro 3 giorni, Pietro, il venditore del terreno, morto da tre anni. La proposta fu accolta con risa scroscianti e vile sarcasmo, ma dopo tre giorni, trascorsi in preghiere e digiuni, Stanislao si recò al luogo in cui Pietro era stato seppellito, fece aprire la tomba e, toccandone con il pastorale la salma, gli ordinò di alzarsi «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Il defunto ubbidì e il Santo lo condusse con sé al tribunale dove l’attendeva il re. «Ecco – disse Stanislao ai giudici entrando con Pietro nella sala – colui che mi ha venduto la terra di Piotrawin; egli è risuscitato per rendervene testimonianza. Domandategli se non è vero che gli ho pagato il prezzo di quella terra. Lo conoscete e la sua tomba è aperta». I presenti rimasero ammutoliti. Il risorto dichiarò senza reticenze che il santo Vescovo gli aveva pagato quella terra davanti ai due testimoni che qualche giorno prima avevano omesso di dire la verità. Quindi tornò nella tomba, non senza aver prima chiesto a san Stanislao di pregare il Signore perché gli abbreviasse le pene del Purgatorio.
Quel miracolo strepitoso sembrò colpire il cuore di Boleslao II che per un certo tempo parve moderare i suoi misfatti. Ma si trattò di una breve tregua seguita da peggior sorte, visto che finì poi coll’abbandonarsi anche alle abominazioni della sodomia. Stanislao, intanto, continuava a supplicare il Cielo per ottenere la conversione del re. Ma tutto fu inutile: il sovrano continuava a ingiuriarlo e minacciarlo di morte qualora avesse continuato a riprendere la sua condotta. Stanislao, allora, dopo avere chiesto il parere di altri vescovi, volendo por rimedio alla gravissima offesa fatta a Dio, scomunicò pubblicamente Boleslao II e gl’interdisse l’ingresso in chiesa.
Il re, a questo punto, decise la vendetta ed ordinò alle sue guardie di uccidere Stanislao. Esse ubbidirono, ma mentre stavano per mettere le mani addosso al Santo che celebrava la Messa, stramazzarono a terra per una forza misteriosa. Il re allora si avvicinò in persona a Stanislao e, con la spada sguainata, gli fracassò la testa con tale violenza da farne schizzare il cervello contro la parete. Era l’11 aprile del 1079. Non ancora soddisfatto, il re tagliò il naso e le labbra al martire, e quindi diede ordine che il cadavere fosse trascinato fuori della chiesa, fatto a pezzi e disperso per i campi affinché servisse di cibo agli uccelli e alle bestie selvagge. Ma alcuni sacerdoti e pii fedeli, raccolsero quelle membra sparse, che rifulgevano di un arcano splendore ed emanavano un soavissimo profumo. San Gregorio VII (+1085) lanciò l’interdetto sul regno di Polonia, scomunicò Boleslao II e lo dichiarò decaduto dalla dignità regale.
Boleslao si pentì dei crimini commessi e terminò la sua vita in un monastero di benedettini ove, come fratello laico, rimase sconosciuto fino alla morte dedito alla penitenza e ai lavori più umili. San Stanislao di Cracovia fu canonizzato da Innocenzo IV nel 1253. Sulla sua tomba avvennero dei prodigi, tra cui la risurrezione di tre morti. La sua festa si celebra il 7 maggio, nel calendario tradizionale.
Sant’Angelo di Gerusalemme e san Stanislao non furono uccisi in odium fidei. Il primo fu pugnalato dal signorotto incestuoso al quale il Santo rimproverava l’orribile misfatto e san Stanislao fu trucidato dal re che ammoniva per il suo libertinaggio e la sua sodomia. Si trattava dunque di peccati contro la legge naturale. Anch’essa ha i suoi diritti, che vanno difesi, e perciò ha i suoi martiri in chi muore per difenderli. Difendere la legge morale naturale, iscritta da Dio nel cuore di ogni uomo, equivale a difendere Dio stesso.
Non vi è un secolo che non abbia avuto i suoi martiri, gli uni per la fede, gli altri per l’unità della Chiesa, altri ancora per la sua libertà. Il XXI si è aperto con un macabro attacco alla legge naturale. Ed ha bisogno di testimoni, cioè di martiri. Ma, come scriveva profeticamente dom Guéranger, «qualunque cosa avvenga, siamo pur certi che lo Spirito di forza non mancherà agli atleti della Verità. Il martirio è uno dei caratteri della Chiesa, e non le è mancato in nessuna epoca». Questi atleti, gloria della Chiesa, con la loro vita ˗ e talvolta anche con la morte ˗ proclamano che l’amoris laetitia non consiste nell’evadere la legge, ma nell’amare Colui che dà la legge per la nostra eterna “laetitia”. (Cristiana de Magistris)
“La UE non vi fa’ uscire dalla crisi. Uscite dalla UE!”
Dopo sette anni di (relativa) espansione globale, solo l’Italia resta intrappolata nella trappola debito-deflazione e in una crisi bancaria “che non può combattere dentro le stretture paralizzanti dell’unione monetaria”. Ora “sta finendo il tempo concessole”: l’artificiale ripresa mondiale gonfiata dalla Federal Reserve e dal boom creditizio cinese è alla fine. E anche l’effetto del triplice stimolo dovuto al petrolio incredibilmente a buon prezzo, l’euro debole e la polverina magica di Draghi (che compra i titoli di debito col denaro creato dal nulla) sta svanendo prima che il paese sia sfuggito dalla trappola della stagnazione.
Le stupide norme europee – che i nostri governi hanno firmato, pensando con furbizia italiota di aggirarle, e i tedeschi avrebbero chiuso un occhio – ci impongono di “rientrare” dal nostro debito pubblico, ridurlo dal 120% al 60 per cento del Pil, al ritmo di tagli del 3,6% de debito sul Pil. Il che si può fare – eccome no? – a patto di mantenere per vent’anni un bilancio in attivo, da dedicare al ri-pagamento del debito, e un attivo tanto grande da coprire quel 3,6.
Un surplus che la recessione divenuta depressione e adesso deflazione, rende matematicamente impossibile. Infatti solo un po’ d’inflazione (con un po’ di crescita) può ridurre non la misura assoluta del debito (che resterà colossale), bensì il “rapporto debito-Pil”; facendo aumentare in termini monetari il Pil, rispetto al quale il debito sembra minore. Tutti gli anni i governi italioti hanno scritto nei loro bilanci di previsione una ottimistica riduzione del rapporto. Ogni anno hanno fallito. “Il debito è stato il 121% del Pil nel 2011, 123 nel 2012, 129% nel 2013. Nel 2014, 132,7%”. Per effetto meccanico della deflazione e per le austerità imposte dall’Europa.
Questi dati, in un paese serio, avrebbero portato da tempo al cambio di classe dirigente. Invece la nostra celebra il suo trionfo dei “diritti civili”, con le facce della Cirinnà e Boldrini. Tagli dopo tagli (dei servizi pubblici, non dei loro stipendi), austerità dopo austerità (non per lorsignori), supertassazione dopo supertassazione (a carico dei produttori) non sono servite nemmeno a fa declinare questo rapporto. Il Fmi prevede per noi una crescita dell’1 per cento, già ottimistica. Lontanissima dal 3,6 necessario.
Ed ora, sta arrivando un’altra recessione globale. In che condizione ci arriviamo? Il giornalista cita il governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco : “Abbiamo perso 9 punti percentuali di Pil e un quarto della nostra produzione industriale”. Lui, Visco, ha presieduto la banca centrale con uno stipendio colossale, assistendo a questa distruzione, e solo adesso se ne accorge? In un paese normale, sarebbe stato da tempo fucilato alla schiena.
Entriamo nella recessione 2.0 con le risorse produttive crollate, un sistema bancario fallito governato da ladri e truffatori, e senza aver fatto “le riforme”, le sole che contano: quelle razionalizzazioni e snellimenti che obbligano il settore pubblico a lavorare per la nazione, non contro di essa, come parassiti succhia-sangue. “L’Italia è enormemente vulnerabile”, dice Simon Tilford del Centre for European Reform. “E il governo non ha munizioni per scongiurare la recessione” , o il nuovo collasso. In questo tempo l’Italia ha perso il 30 per cento di competitività sul costo del lavoro contro la Germania, e la sua produttività è collassata del 5.9 per cento dal 2000. Perché? Logico: perché abbiamo adottato la moneta tedesca senza diventare noi stessi antropologicamente dei tedeschi. Specie la “classe dirigente” e l’apparato di pubblico parassitismo ha sgavazzato nelle sue inefficienze, senza il minimo sforzo di ridurle.
Mettiamo qui i puntini sulle i:
La produttività del lavoro è rimasta altissima, persino superiore a quella tedesca, in certi settori produttivi (del Nord). Benissimo, sono quelli che la sanguisuga pubblica ha più penalizzato ipertassandoli, facendogli mancare le infrastrutture, trattandoli da “evasori” e quindi assoggettandoli a un controllo asfissiante e sospettoso, da potenza occupante straniera – tutte cose che si sono tradotte in costi inutili e dunque “perdita di competitività del lavoro”.
Non basta: questi signori hanno accettato senza discutere (forse senza capire) la “ricetta” impostaci da Berlino e Bruxelles: la “svalutazione interna”. Capite cosa significa? Invece della svalutazione esterna (della moneta) hanno svalutato i nostri lavoratori del settore privato (ossia produttivo) , costretti a tagli dei salari, ormai da fame. Loro, tagli dei salari, nessuno…
“Cercare di guadagnare competitività con la svalutazione interna [tagli salariali ai privati] non fa’ che invelenire la dinamica del debito e perpetuare la depressione. Il risultato è l’implosione industriale”, che in Italia “è sotto i nostri occhi”.
Uno degli effetti è che le banche italiani sono strapiene di crediti andati a male, su cui i debitori non pagano più gli interessi. 360 miliardi, il 19 per cento del bilancio del sistema bancario. Il peggiore dei G-20, forse più di quello della Cina (che però è la prima manifattura mondiale, mentre noi abbiamo de-industrializzato). Attenzione: parte di questo orrore è dovuto ai furbastri come topi nel formaggio siedono nei cda delle banche, che davano prestiti agli amici o a sé stessi. Ma se pensate, come strillano i media e le sinistre più a sinistra, che è stato “il papà della Boschi” e quindi tutto si risolve chiedendo “le dimissioni della Boschi”, siete ancora prigionieri della demenza italiota, nella sua eterna lite di condominio sragionante.
Il problema è alquanto più grave. “E’ normale avere nel sistema bancario un’alta quota di crediti andati a male, dopo tanti anni di una recessione così profonda”, dice infatti Lorenzo Codogno, già economista al Tesoro ed oggi alla London School of Economics. La Banca Centrale Europea peggiora la situazione, “insistendo ad esigere” dalle banche malandate che accantonino sempre maggiori riserve. “Non dovrebbe farlo, perché non fa che aggravare la instabilità”.
Ma lo ordinano le regole europee. Come le norme europee sul bail-in (che pure il nostro governo e il nostro Visco hanno firmato!) son quelle che impediscono alle banche di cancellare dai loro libri contabili i crediti peggiori, quelli cadaverici, che ammontano a 83,6 miliardi: perché se lo fanno sono forzate dall’Europa a ricapitalizzazioni forzate – in tempi dove i capitali sono scomparsi – e tagliare i creditori , come hanno visto i depositanti di Banca Etruria e Montepaschi.
“Le norme sul bail-in sono fonte di gravi rischi di liquidità e di instabilità finanziaria” ha dichiarato Visco, quasi non fosse stato lui ad accettarle, e dovrebbero essere riviste prima di innescare una corsa agli sportelli del sistema bancario italiota (corsa che pare già avvenuta, con emorragie di capitali fuggenti all’estero). E questo per quanto riguarda le colpe dei nostri cosiddetti dirigenti, la cui incompetenza dovrebbe essere punita.
Ma le colpe europee sono ancor peggiori. In questo frangente, invece di dare una mano, Bruxelles, Francoforte e Berlino si intromettono e ostacolano tutte le soluzioni che il governo renzicchio (o il governicchio Renzi) prova per uscirne. La soluzione anglosassone, la bad bank in cui accumulare i crediti andati a male è stata bocciata perché contro le regole europee; la BCE insiste chiedere le ricapitalizzazioni, che impediscono alle banche di alleggerirsi dei crediti defunti; han consentito al fondo Atlante, un ibrido quasi bad-bank, forzando le banche relativamente sane e le assicurazioni a cacciare 4,25 miliardi per “salvare” le banche fallite. Salvataggio, va’ dal saccheggio dei fondi-avvoltoio che già fanno i giri attorno a Unicredit e alle altre, e comprerebbero per un euro il monte-risparmi degli italiani, le centinaia di miliardi che tanto da sempre fa’ gola alla finanza globale. La “soluzione” Atlante, permessa dall’Europa, non farà che trascinare nel pantano le banche relativamente più sane, aggravando la crisi sistemica. E qui “il papà della Boschi” non è il problema.
Il problema è il sistema monetario europeo. Che funziona a senso unico (come vuole Berlino): “I paesi devono obbedire ad una plétora di regole e regolazioni – ma quando la crisi colpisce uno dei paesi, non gli arriva alcuna solidarietà, alcun aiuto”. Non c’è alcun vantaggio né beneficio ad attenersi alle regole. Allora perché restare nell’euro? Se ad obbedire ci si perde, e non si ottiene nessun soccorso dalla solidarietà monetaria europea (inesistente).
Evans- Pritchard dice che alcuni industriali italiani (“poteri forti”, in italiano nel testo) gli hanno sussurrato che il ritorno alla lira non sarebbe poi un gran male. Meglio tardi che mi, “poteri forti” dei miei stivali. Il 48 per cento degli italiani c’è arrivato prima di voi, è già disposto ad uscire dal modo scorsoio chiamato euro. Il punto è che forse è tardi. Salvini e Grillo ci sono arrivati, ed hanno dietro due grossi partiti. Forse perfino il governo Renzi e il PD può decidere, alla fine, per salvare se stesso, di uscire dall’euro, spera il giornalista britannico.
Ma forse è troppo tardi. Abbiamo aspettato troppo, addormentati da Monti, dai Bersani, dai Visco e da Padoan.
Svalutare farà bene, se poi l’industria lavora a pieno ritmo; ma quale industria? È stata stroncata al 25%. E le competenze dei lavoratori da rimettere al lavoro con salari in lire, ci sono ancora, dopo dieci anni di desertificazione?
Il tasso di disoccupazione uficiale,11,4 per cento, non inganni: bisogna aggiungerci l’altro 12 per cento degli scoraggiati che non cercano più lavoro,” Il triplo della media UE. Vogliamo quindi dire la verità? Un buon 23 per cento sono fuori dal lavoro da troppi anni per riprendere in pieno.
E i giovani? La disoccupazione giovanile è 65% in Calabria, 56% in Sicilia, and 53% in Campania” – queste regioni modello, dove i governi locali si pagano così tanto e sprecano così bene in combutta con la rispettive camorre – , “nonostante centomila all’anno se ne vadano dal Mezzogiorno, e il tasso di natalità nei territori che furono dei Borboni è il più basso dal 1862, da quando il Regno delle Due Sicilie ha cominciato a raccogliere le statistiche. La pauperizzazione è al livello della Grecia, la produzione industriale è crollata del 35 per cento e gli investimenti del 59% rispetto al 2008”. Insomma il Sud è già probabilmente avvitato in quel giro della morte che porta da una crisi ciclica ad uno stato di sottosviluppo permanente. L’Africa è il vostro traguardo, meridionali. E temo che la cosa nemmeno vi dispiaccia. Gli studenti (chiamiamoli così) della scuola pubblica italiana (chiamiamola scuola) si stanno rifiutando di sottoporsi ai test INVALSI: naturalmente istigati dai loro insegnanti, perché i test INVALSI provano laloro incompetenza come docenti. Ovviamente sono “de sinistra” gli insegnanti anti-INVALSI, gli studenti, e la stampa che li sostiene, in prima linea Il Manifesto. E’ la protesta dei fancazzisti che si vogliono far mantenere. E la chiamano la Sinistra.
POST SCRIPTUM. ( Però in compenso la sinistra vi ha dato di sposare il vostro drudo e lasciargli la pensione di reversibilità, se vi piace a tal punto prenderlo nel kulo. Ma non vi basta ancora?)
Unioni civili: l’apprezzamento di valdesi e metodisti. Bernardini (Tavola Valdese), “finalmente più diritti”
“La nuova legge sulle unioni civili non è una minaccia alla famiglia ma, al contrario, riconosce e tutela famiglie diverse alle quali vanno riconosciuti uguali diritti”. Così il moderatore della Tavola valdese, pastore Eugenio Bernardini, commenta l’approvazione della legge sulle “unioni civili”. “Valdesi e metodisti auspicavano da tempo questo provvedimento che, riconoscendo la varietà dei legami affettivi stabili e duraturi, sana una discriminazione e allinea l’Italia a Paesi con una solida tradizione in materia di diritti civili. La nostra Chiesa – prosegue Bernardini – è contenta di avere contribuito a tenere alta l’attenzione su questo tema approvando, già nel 2010, la possibilità di benedire coppie dello stesso sesso appartenenti alle nostre Chiese e intenzionate a realizzare un amore profondo e responsabile. Il nostro impegno pastorale prosegue oggi in un nuovo contesto giuridico per sostenere tutte le relazioni familiari e combattere ogni forma di omofobia”.
http://agensir.it/quotidiano/2016/5/12/unioni-civili-lapprezzamento-di-valdesi-e-metodisti-bernardini-tavola-valdese-finalmente-piu-diritti-a-tutte-le-famiglie/
di Giuliano Guzzo
Quello che maggiormente rattrista, in tutta la vicenda italiana legata al matrimonio omosessuale – ieri approvato alla Camera sotto forma di unioni civili –, non è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’arroganza dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi, l’amore smisurato e senza pudore di Angelino Alfano per la poltrona e neppure la finta opposizione della Chiesa italiana, i cui più autorevoli rappresentanti, eccettuati alcuni momenti di lucidità, non hanno saputo fare altro, neanche a poche ore dalla conclusione dei giochi, che rimproverare al Governo il ricorso alla fiducia, come se il problema fosse procedurale.
Quello che maggiormente rattrista è che purtroppo manca, in quasi tutti coloro che dovrebbero averne, la consapevolezza di che cosa da domani implicherà, per la società italiana, l’introduzione delle nozze fra persone dello stesso sesso, vale a dire uno stravolgimento antropologico di proporzioni enormi. Per capirlo è però opportuna anzi doverosa, prima, una premessa che è anche una precisazione: la portata culturale di leggi del genere è immensa, ma la cultura di una società, tanto più quella italiana, che è più conservatrice di molte altre, non si trasforma dall’oggi al domani, e neppure nel giro di quattro o cinque anni.
Nessuno cioè è dell’idea che sulla penisola italiana, da domani, le famiglie composte da padre, madre e figli verranno selvaggiamente aggredite per strade, fermate ai posti di blocco, arrestate e deportate in appositi campi di concentramento. Ora, a qualcuno sembrerà una sottolineatura ridicola – in effetti lo è -, ma è doveroso effettuarla per evitare che, fra un anno, sulle nozze gay ci si lasci dire quanto incautamente alcuni oggi osservano sul “divorzio breve”, vale a che, diversamente da quanto temuto dai critici, non avrebbe determinato alcuna «strage di matrimoni», come leggevo giusto ieri su un quotidiano locale.
Grazie tante: nessuno lo aveva sostenuto e non sarà così neppure per le unioni civili. Prima infatti che rilevabile statisticamente – cosa possibile ma che, come per il divorzio, richiederà un arco temporale di qualche decennio -, lo stravolgimento che il matrimonio omosessuale determinerà nella società italiana lo sarà a livello antropologico. Su almeno tre versanti. Il primo riguarda la definizione stessa di famiglia. Fino a ieri si era liberi di ritenere la famiglia cosiddetta tradizionale come la vera famiglia e da domani si sarà liberi di continuare a farlo, ovviamente, ma da oggi lo Stato afferma l’opposto. Che significa?
Significa che se l’esistenza della cosiddetta famiglia omosessuale, fino a ieri, non era poco più dell’opinione di chi intendeva chiamare così le unioni fra persone dello stesso sesso, da domani sarà la scelta di considerare la famiglia tradizionale come la vera famiglia a divenire – ufficialmente – null’altro che opinione: il che sul piano educativo – si pensi a dei genitori intenti a trasmettere ai loro figli le proprie convinzioni cristiane – rappresenta uno tsunami. Ma è solo l’inizio. Esiste infatti anche un seconda criticità dovuta all’approvazione delle unioni civili, vale a dire la sostanziale entrata in vigore della legge contro l’omofobia.
Il disegno di legge Scalfarotto, lo sappiamo, non è (ancora) stato approvato, ma nel momento in cui lo Stato italiano – come sta facendo – inizia a riconoscere come matrimoniale l’unione gay, sarà ancora lecita la disapprovazione della condotta omosessuale? Formalmente sì, praticamente no; e a coloro che condividono questa posizione che già oggi non gode di buona fama toccheranno sempre più diffidenza, scherno, isolamento. Il che, oltre che preoccupante, è anche paradossale. Infatti l’introduzione matrimonio omosessuale – come mostrano i casi di tanti Stati europei – non risulta aver eliminato e forse neppure ridotto gli episodi di discriminazione cosiddetta omofoba.
Eppure la discriminazione, con le unioni civili, inizierà invece ad intensificarsi nei confronti di coloro che non esprimeranno convinto entusiasmo non tanto verso le persone attratte da soggetti dello stesso sesso (persone che, in quanto tali, vanno sempre accolte ed amate), bensì verso gli atti omosessuali. E poco importa che a riservare parole non tenere ai rapporti omosessuali siano stati, nei secoli, pensatori del calibro di Platone (Leggi, 836 B), Aristotele (Etica Nicomachea, 1148b 24-30), e Kant (Metafisica dei costumi § Dottrina del diritto): si sarà tutti, indistintamente, bollati come fondamentalisti cristiani e trattati di conseguenza.
La terza – e più grave – implicazione antropologica delle unioni civili sta però nel fatto che, con messa al bando la concezione di famiglia come unione fondata sul matrimonio fra uomo e donna – unione che diverrà solo una delle tante possibili varianti di famiglie -, sarà presto il turno delle adozioni omosessuali, il che non determinerà soltanto la crescita di bambini senza un padre o senza una madre, aspetto già avvilente, ma addirittura di bambini che non sapranno mai, poiché ne saranno privati ab origine, che cosa sia avere una madre o che cosa avere un padre; nella sbornia dei diritti, i loro – che pure sono i soggetti più deboli – verranno così dimenticati.
Senza trascurare, infine, il concretissimo rischio di sdoganamento dell’utero in affitto. Quello insomma che davvero più rattrista, nella vicenda legata al matrimonio omosessuale, è che si sia – di fatto – dichiarata fuorilegge la famiglia; che il delitto si sia consumato con gioia (Renzi ha parlato di «giorno di festa»), esibendo fieri la spilla arcobaleno d’ordinanza (come Maria Elena Boschi) e fingendo un dispiacere davvero poco credibile (come quello di qualche alto prelato), non fa che confermare l’assurdità dei nostri tempi. In tutto ciò esiste però una consolazione, se così possiamo chiamarla, non politica e neppure religiosa.
La consolazione è demografica: l’Italia con sempre meno matrimoni, col minimo storico di nascite e che pur avendo accolto nei decenni un notevole numero di famiglie immigrate non si schioda da tassi di natalità cimiteriali, è un Paese che sta giocando col fuoco e, soprattutto, col proprio futuro. L’approvazione delle unioni civili, che certo non inventa, ma indiscutibilmente aggrava la situazione della famiglia cosiddetta tradizionale, assume così il sapore di un ulteriore e disperato scatto verso il baratro, «cosicché – per dirla con lo statistico Roberto Volpi – mentre la famiglia tradizionale sembra avviarsi al tramonto, già s’intravede la sua micidiale vendetta».
https://giulianoguzzo.com/2016/05/12/la-famiglia-fuorilegge/
di Giuliano Guzzo
Quello che maggiormente rattrista, in tutta la vicenda italiana legata al matrimonio omosessuale – ieri approvato alla Camera sotto forma di unioni civili –, non è, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’arroganza dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi, l’amore smisurato e senza pudore di Angelino Alfano per la poltrona e neppure la finta opposizione della Chiesa italiana, i cui più autorevoli rappresentanti, eccettuati alcuni momenti di lucidità, non hanno saputo fare altro, neanche a poche ore dalla conclusione dei giochi, che rimproverare al Governo il ricorso alla fiducia, come se il problema fosse procedurale.
Quello che maggiormente rattrista è che purtroppo manca, in quasi tutti coloro che dovrebbero averne, la consapevolezza di che cosa da domani implicherà, per la società italiana, l’introduzione delle nozze fra persone dello stesso sesso, vale a dire uno stravolgimento antropologico di proporzioni enormi. Per capirlo è però opportuna anzi doverosa, prima, una premessa che è anche una precisazione: la portata culturale di leggi del genere è immensa, ma la cultura di una società, tanto più quella italiana, che è più conservatrice di molte altre, non si trasforma dall’oggi al domani, e neppure nel giro di quattro o cinque anni.
Nessuno cioè è dell’idea che sulla penisola italiana, da domani, le famiglie composte da padre, madre e figli verranno selvaggiamente aggredite per strade, fermate ai posti di blocco, arrestate e deportate in appositi campi di concentramento. Ora, a qualcuno sembrerà una sottolineatura ridicola – in effetti lo è -, ma è doveroso effettuarla per evitare che, fra un anno, sulle nozze gay ci si lasci dire quanto incautamente alcuni oggi osservano sul “divorzio breve”, vale a che, diversamente da quanto temuto dai critici, non avrebbe determinato alcuna «strage di matrimoni», come leggevo giusto ieri su un quotidiano locale.
Grazie tante: nessuno lo aveva sostenuto e non sarà così neppure per le unioni civili. Prima infatti che rilevabile statisticamente – cosa possibile ma che, come per il divorzio, richiederà un arco temporale di qualche decennio -, lo stravolgimento che il matrimonio omosessuale determinerà nella società italiana lo sarà a livello antropologico. Su almeno tre versanti. Il primo riguarda la definizione stessa di famiglia. Fino a ieri si era liberi di ritenere la famiglia cosiddetta tradizionale come la vera famiglia e da domani si sarà liberi di continuare a farlo, ovviamente, ma da oggi lo Stato afferma l’opposto. Che significa?
Significa che se l’esistenza della cosiddetta famiglia omosessuale, fino a ieri, non era poco più dell’opinione di chi intendeva chiamare così le unioni fra persone dello stesso sesso, da domani sarà la scelta di considerare la famiglia tradizionale come la vera famiglia a divenire – ufficialmente – null’altro che opinione: il che sul piano educativo – si pensi a dei genitori intenti a trasmettere ai loro figli le proprie convinzioni cristiane – rappresenta uno tsunami. Ma è solo l’inizio. Esiste infatti anche un seconda criticità dovuta all’approvazione delle unioni civili, vale a dire la sostanziale entrata in vigore della legge contro l’omofobia.
Il disegno di legge Scalfarotto, lo sappiamo, non è (ancora) stato approvato, ma nel momento in cui lo Stato italiano – come sta facendo – inizia a riconoscere come matrimoniale l’unione gay, sarà ancora lecita la disapprovazione della condotta omosessuale? Formalmente sì, praticamente no; e a coloro che condividono questa posizione che già oggi non gode di buona fama toccheranno sempre più diffidenza, scherno, isolamento. Il che, oltre che preoccupante, è anche paradossale. Infatti l’introduzione matrimonio omosessuale – come mostrano i casi di tanti Stati europei – non risulta aver eliminato e forse neppure ridotto gli episodi di discriminazione cosiddetta omofoba.
Eppure la discriminazione, con le unioni civili, inizierà invece ad intensificarsi nei confronti di coloro che non esprimeranno convinto entusiasmo non tanto verso le persone attratte da soggetti dello stesso sesso (persone che, in quanto tali, vanno sempre accolte ed amate), bensì verso gli atti omosessuali. E poco importa che a riservare parole non tenere ai rapporti omosessuali siano stati, nei secoli, pensatori del calibro di Platone (Leggi, 836 B), Aristotele (Etica Nicomachea, 1148b 24-30), e Kant (Metafisica dei costumi § Dottrina del diritto): si sarà tutti, indistintamente, bollati come fondamentalisti cristiani e trattati di conseguenza.
La terza – e più grave – implicazione antropologica delle unioni civili sta però nel fatto che, con messa al bando la concezione di famiglia come unione fondata sul matrimonio fra uomo e donna – unione che diverrà solo una delle tante possibili varianti di famiglie -, sarà presto il turno delle adozioni omosessuali, il che non determinerà soltanto la crescita di bambini senza un padre o senza una madre, aspetto già avvilente, ma addirittura di bambini che non sapranno mai, poiché ne saranno privati ab origine, che cosa sia avere una madre o che cosa avere un padre; nella sbornia dei diritti, i loro – che pure sono i soggetti più deboli – verranno così dimenticati.
Senza trascurare, infine, il concretissimo rischio di sdoganamento dell’utero in affitto. Quello insomma che davvero più rattrista, nella vicenda legata al matrimonio omosessuale, è che si sia – di fatto – dichiarata fuorilegge la famiglia; che il delitto si sia consumato con gioia (Renzi ha parlato di «giorno di festa»), esibendo fieri la spilla arcobaleno d’ordinanza (come Maria Elena Boschi) e fingendo un dispiacere davvero poco credibile (come quello di qualche alto prelato), non fa che confermare l’assurdità dei nostri tempi. In tutto ciò esiste però una consolazione, se così possiamo chiamarla, non politica e neppure religiosa.
La consolazione è demografica: l’Italia con sempre meno matrimoni, col minimo storico di nascite e che pur avendo accolto nei decenni un notevole numero di famiglie immigrate non si schioda da tassi di natalità cimiteriali, è un Paese che sta giocando col fuoco e, soprattutto, col proprio futuro. L’approvazione delle unioni civili, che certo non inventa, ma indiscutibilmente aggrava la situazione della famiglia cosiddetta tradizionale, assume così il sapore di un ulteriore e disperato scatto verso il baratro, «cosicché – per dirla con lo statistico Roberto Volpi – mentre la famiglia tradizionale sembra avviarsi al tramonto, già s’intravede la sua micidiale vendetta».
https://giulianoguzzo.com/2016/05/12/la-famiglia-fuorilegge/
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