L'INFERNO E' NON PERDONARE
di F. Lmendola
Gesù ci ha comandato di perdonare; lo rammentiamo a noi stessi ogni volta che recitiamo il Padre nostro, la preghiera che Lui ci ha insegnato; e questo comandamento, che è, per alcuni, forse il più difficile da applicare, non è solo il naturale completamento del comandamento dell’amore, esteso a tutti gli uomini e anche ai nemici, ma anche una raccomandazione che riguarda l’auto-protezione e l’auto-conservazione. Chi non riesce a perdonare, fa del male anche e soprattutto a se stesso; e, nei casi più gravi, quando l’incapacità di perdonare si alimenta della spirale dell’odio e del rancore, finisce per aprire le porte a delle forze malefiche, che penetrano nelle pieghe dell’anima e possono impossessarsi di tutta la vita interiore della persona.
Vediamo perché.
Colui che è stato offeso, ferito, tradito, prova un naturale risentimento nei confronti di coloro che lo hanno fatto soffrire. Può darsi che la sua sofferenza sia stata dovuta più a una sua colpa, che alla malvagità altrui: il confine tra una reale ingiustizia subita e una ingiustizia immaginaria può essere esile e aleatorio, molto più difficile da riconoscere di quel che non si creda. Sta di fatto che vi sono persone le quali, dopo aver fatto del bene, vengono ricambiate col male, e, nondimeno, riescono a ritrovare la pace dell’anima, appunto perdonando; e altre che, pur avendo subito solamente dei torti immaginari, cioè fabbricati dalla loro fantasia, non perdonano affatto, anzi, fanno del rifiuto di perdonare quasi una ragione di vita. Si aggrappano al loro risentimento, si trincerano dentro la cittadella del loro amor proprio offeso, e decidono di non uscirne mai più, qualunque cosa accada.Alcuni individui, poi, non si limitano a questo, ma decidono di vendicarsi, sia perseguitando in ogni modo la persona “colpevole” (che questa colpa sia reale o immaginaria, ripetiamo, non sempre è possibile stabilirlo in maniera oggettiva), sia, addirittura, rivolgendosi a maghi o fattucchiere, per mandargli un malefizio e pregustando la soddisfazione di vedere il loro nemico dibattersi negli spasimi di un inesplicabile tormento.
C’è poi un altro caso, ancora più grave: quando colui verso il quale si indirizza il proprio rancore e la propria sete di vendetta non è un essere umano, ma Dio stesso. Ciò accade, più frequentemente di quel che non si creda, a un genitore, specialmente una mamma, il quale abbia perso suo figlio, o a un figlio che abbia perso il genitore, o a un marito che abbia perso la moglie (e viceversa): il dolore, se non trova modo di essere trasformato e sublimato in una offerta a Dio, rimane come un cadavere in putrefazione, a ingombrare la vita dell’anima, e, poco a poco, la infetta completamente, fino a trasformare quella persona, forse inconsapevolmente, in un vero e proprio demone, schiumante malvagità e pronto a riversarla sul primo sfortunato che le capiti a tiro. In altri casi, il rifiuto di perdonare si dirige verso un defunto e, anche in questo caso, l’impossibilità di realizzare una qualsiasi vendetta provoca una specie di corto circuito, per cui l’anima di colui che odia finisce per rivolgere contro se stesa, nella maniera più crudele, i pugnali avvelenati che aveva preparato per adoperarli su quella tale persona, quando essa era ancora in vita.
Che cosa, precisamente, impedisce il perdono? In primo luogo, il dolore sofferto; in secondo luogo, il senso dell’ingiustizia subita (e qui siamo già su un piano superiore a quello della semplice offesa individuale); in terzo luogo, l’amor proprio (che è, in se stesso, una cosa buona) e l’orgoglio (che è, invece, una cosa cattiva, essendo la degenerazione di quello), il quale tende ad autoalimentarsi e a indurirsi, per cui, se il cuore non si scioglie in tempi brevi, poi, mano a mano che passano gli anni, la cosa diventa sempre più difficile, quasi impossibile. Eppure, sono tutti ostacoli superabili, almeno teoricamente, anche al lume della sola ragione naturale: il dolore, perché non ha senso accrescerlo, seguitando a tenere la ferita aperta, col rigirarvi dentro il coltello dell’ira e dello sdegno; il senso della giustizia offeso, perché nulla potrà rimuovere l’ingiustizia passata, mentre si può evitare di commetterne un’altra, stavolta contro se stessi, negandosi il raggiungimento della pace interiore; l’orgoglio, perché si trasforma in una prigione, per cui la persona che non sa perdonare finisce per punire se stessa, rinchiudendosi in un carcere fatto di dolorosi ricordi, che non si attenuano mai.
E tuttavia, se la ragione ci permette di comprendere che sarebbe nel nostro stesso interesse perdonare chi ci ha fatto soffrire, di fatto la cosa appare di una estrema difficoltà, specialmente per certi caratteri, nei quali la sensibilità esasperata si unisce a un orgoglio indomabile, ed entrambi si nutrono l’uno dell’altra. La verità è che il perdono di una grave offesa, o di un grave dolore subito, è una cosa umanamente quasi impossibile, se per perdono si intende un atto totale, incondizionato, privo di riserve mentali: per cui l’unica maniera di arrivare a tanto è quella di affidare la propria fragilità a un potere più grande, e domandare l’aiuto di Chi ha saputo perdonare al punto di pregare Dio per i propri aguzzini: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Con il Suo aiuto, sì, diventa possibile anche perdonare incondizionatamente; senza di esso, invece, ciò risulta praticamente impossibile.
Comunque, ripetiamo, perdonare è un atto di carità non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi: chi non sa perdonare, in fondo non vuole bene neanche a se stesso: perché l’anima incapace di perdono s’immerge in una tristezza e in un’amarezza sconfinate, dalle quali non sarebbe più capace di uscire neanche se lo volesse. Don Renato Tisot ha riportato questa esperienza personale nel suo libro Solidarietà oltre la morte (Camerata Picena, Ancona, Editrice Shalom, 2005, pp. 74-78):
Era il 1974 e mi trovavo negli Stati Uniti, in una casa di preghiera, coinvolto in un corso di esercizi spirituali che lasciò per vari motivi una lunga traccia nella mia vita. Ci fu anche un episodio sconvolgente che ebbe luogo a partire dal secondo giorno. Il corso era riservato a sacerdoti del Rinnovamento Carismatico provenienti da tutti il mondo, anzi era il primo e più importante di questo tipo, programmato anche per un confronto sacerdotale sul dirompente fenomeno che nella Chiesa cattolica s’era manifestato da pochi anni. Gli esercizi erano condotti da un’équipe sotto la guida di un celebre religioso carismatico, dotato anche di uno straordinario dono nel ministero della liberazione e della guarigione. Proprio per questa sua caratteristica, dopo la meditazione mattutina del secondo giorno, fu visitato da alcune persone che conducevano una giovane donna “posseduta dal demonio”. Egli si scusò con noi, per il fatto che doveva prendersi questo ritaglio di tempo per un dovere di carità pastorale che poteva essere molto importante. Devo confessare che in fatto di demonio e di possessioni ero ancora molto scettico, nutrito com’ero allora dagli studi teologici “ad alti livello” e dall’andazzo ideologico e pastorale del tempo. Ora capitò proprio a me, in quella pausa, di trovarmi sul corridoio mentre si apriva la porta dalla quale, tutto coperto di sangue e con la grande croce spezzata sul petto, usciva il prete esorcista. Era stato aggredito selvaggiamente. Mi chiese di rintracciare subito altri sacerdoti e di entrare nella stanza per un sostegno di preghiera. Per la prima volta nella mia vita mi trovai davanti a una realtà orribile. Le terribili manifestazioni, le convulsioni, i dolori e i tormenti di questa giovane donna, che era madre anche di due piccole creature, non le posso ancor oggi descrivere e, anche se lo potessi, non sarai capito se non da chi è dentro questi fenomeni. Per ben te giorni la quiete dei nostri esercizi fu messa a dura prova, ma era anche una lezione che il Signore offriva ai suoi consacrati. Tutti furono invitati a rendersi partecipi del forte combattimento spirituale e ci fu una solidarietà fantastica di tutti in preghiera d’intercessione. Fatto sta che io mi trovai quotidianamente in prima fila, entro lo stabile gruppetto che agiva direttamente su quella povera creatura, con pause necessarie per tirare un respiro.
Venivamo così a conoscere una storia. Questa donna, all’età di dodici anni, ebbe un’esperienza traumatizzante. Era legata al papà in maniera quasi ossessiva e morbosa, e proprio in quel’anno il papà fu colpito da un morbo terminale che lo portò in breve tempo alla morte. Nel cuore della figlioletta si scatenò una violenta ribellione, prima verso Dio, che lo aveva fatto morire, e poi anche verso il padre, come se questi non avesse reagito con tutti i mezzi e si fosse lasciato andare. Un perdono verso Dio e verso il papà risultava una cosa impossibile. La ragazza crebbe, incontrò un buon giovane e si sposò. Nacque la prima creatura, ahimè deformata e rattrappita. La donna non ci vide più e, arrabbiatissima, decise addirittura di fare un vero patto col diavolo. Quello che accadde da quel momento in lei, nella famiglia (intanto era nata un’altra creaturina), nella casa e nei luoghi frequentati fu la classica serie di eventi devastanti che non lasciano pace a nessuno. Per questo la donna disperata ricorse anche a questo ben noto esorcista, nella circostanza di quel ritiro tenuto in una località geograficamente abbordabile. Tengo a precisare che mentre mi trovavo, accidentalmente per me ma non per il Signore, a stare in contatto diretto con l’esorcismo, mi tenevo in un angolo, sconvolto ma con una partecipazione sofferta, con tacita preghiera e con tanto pianto. Oh! Come ero preso dal pianto, in un’intima condivisione delle prove di quella mamma. Alle volte c’era bisogno di una pausa perché la cosa sembrava ai limiti dell’umana sopportazione. E intanto tutti i sacerdoti, ben centoventi, s’erano impegnati a pregare, chi da solo, chi in piccoli gruppi. Per ben tre giorni fummo seriamente trascinati in questa imprevista avventura che sembrava quasi non trovasse quasi una soluzione, quando ci fu un’intuizione dell’esorcista, anzi, chiamiamola una mozione dello Spirito Santo. Egli fu portato a ricostruirla storia della donna e in questo contesto scoprì l’episodio della morte del papà. Ecco che allora affiorava la necessità assoluta del perdono. Ricordo che fu una battaglia all’ultimo spasimo. Come era difficile far pronunciare alla donna il nome di Gesù, così sembrava un’impresa senza successo portarla a perdonare. Il corpo stesso si scuoteva, il collo si gonfiava enormemente a ogni tentativo. Finché arrivò il momento prodigioso e commovente: la liberazione col potere divino del perdono. Fu detta la grande parola verso Dio e verso il papà. Tutto l’organismo passò come in uno spasimo atroce e di colpo fu visto come sgonfiarsi, mentre un’entità tenebrosa e viscida usciva e svaniva nel nulla. Seguiva un momento quasi di svenimento; si tramutava in un relax e alla fine in un risveglio sereno e pieno di gioia. Quale lode salì dai nostri cuori e come cominciò a correre la notizia!
Il giorno dopo ci radunammo tutti per ringraziare il Signore, ma anche per valutare l’evento e tirarne fuori tutte le indicazioni. Eravamo nel bel mezzo della riflessione e della condivisione pastorale, quando un sacerdote s’alzò e disse: “Scusate, sono presbitero da anni, ho condotto nella normalità i miei ministeri e penso di non aver mai avuto grilli per la testa. Però quello che m’è capitato ieri ve lo devo raccontare, anche se con un po’ di trepidazione. Mi trovavo a una certa ora in cappella davanti al tabernacolo, pregando per la liberazione di quella cara mamma. A un certo punto sulla parete bianca sovrastante, come in un film e con una straordinaria chiarezza, vidi la scena di un uomo anziano che si muoveva verso una bambina dodicenne. Si abbracciarono commossi piangendo”. Restammo tutti col fiato sospeso. Era l’ora esatta in cui nella stanzetta la donna finalmente perdonava il padre. E ci ricordammo che Gesù prometteva il potere di sciogliere catene vincolanti anche fra terra e cielo. Per me ci fu un seguito. Prima di partire, la donna mi si accostò domandandomi: “Perché proprio a me, che ho fatto ben poco, anche per la mia inesperienza in questo campo?”. La ragione mi fu data quando questa donna mi scrisse una lunga lettera in cui, raccontandomi diverse cose interessanti dopo la grazia ricevuta, mi esprimeva soprattutto una riconoscenza calorosa. Diceva che durante le sedute mi vedeva piangere e sentiva il calore forte di quelle lacrime versate cin amore; erano il più forte balsamo in quelle ore di spasimo, un conforto che bilanciava dolcemente il bruciore penetrante delle urla e della parole di comando. Quasi dava più forza a quell’umile partecipazione delle mie lacrime che a tutta l’azione intimidatoria nei confronti del diavolo. E compresi che la vittoria sta soprattutto nei canali semplici dell’amore e del perdono. Questo avveniva nello stato del New Jersey (USA).
Senza dubbio, quello riferito in questa pagina è un caso limite; nondimeno, è di grande interesse, perché mostra fino a dove può portare l’ostinazione nella mancanza di perdono. E appunto su ciò si fonda l’astuzia del Demonio, e la sua capacità di impadronirsi delle anime: il Male trova un appiglio là dove c’è un ego gonfio di sé, ostinato, orgoglioso e amareggiato. L’amarezza, infatti, genera la tristezza, e la tristezza fa abbassare le difese nei confronti delle tentazioni. Non per nulla i monaci medievali consideravano la tristezza come un grave peccato: perché il Diavolo, attraverso di essa, riesce a introdussi nel castello interiore di ciascuno e a espugnarlo: orgoglio, ostinazione e tristezza sono i suoi migliori alleati. Là dove l’ego è stato debellato, e l’anima si è purificata dalle passioni, il Male non trova nulla cui appigliarsi, ed è vinto. Perdonare, dunque, vuol dire amarsi e perdonarsi…
L’inferno è non riuscire a perdonare
di Francesco Lamendola
Riflessioni sull’esistenza del Purgatorio – di Carla D’Agostino Ungaretti
“ … e vederai color che son contenti / nel foco, perché speran di venire / quando che sia alle beate genti” (Inf. I, 118 – 120).
“ … e canterò di quel secondo regno, / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno” (Purg. I, 4 – 6).
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Il forestiero che a Roma percorra, a piedi o in auto, il Lungotevere Prati in direzione di S. Pietro – godendosi una delle più belle vedute della mia amata città che la politica e la pessima amministrazione che la affliggono da anni non riusciranno mai a deturpare (almeno si spera) – poco prima di arrivare a destinazione scorgerà sulla destra una strana chiesa dallo stile gotico transalpino ma palesemente moderna, e quando verrà a sapere che essa fu completata nel 1917, si stupirà che l’architetto abbia scelto uno stile così poco confacente all’atmosfera romana[1]. Ma non è solo lo stile architettonico, inusuale a Roma, a rendere curiosa questa chiesa, dedicata al S. Cuore del Suffragio, ma soprattutto il piccolo Museo delle Anime del Purgatorio, cui si accede dalla sacrestia, fondato nel 1894 dal gesuita marsigliese P. Victor Jouet il quale, avendo fondato un’Associazione per il Suffragio delle Anime del Purgatorio, aveva fatto una raccolta di documenti e cimeli attestanti l’esistenza delle anime purganti e del loro manifestarsi nel mondo terreno sotto forma di apparizioni che, in più occasioni, avevano lasciato impronte infuocate su abiti, stoffe, libri e oggetti vari. Queste reliquie, ovviamente numerate e catalogate, sono ora raccolte in vari armadi e non è tanto facile accedere ad esse perché la Chiesa non ne ha mai incoraggiato la visione allo scopo di non alimentare curiosità morbose in una materia sulla quale essa non ha mai espresso una posizione ufficiale.
E in effetti questa è stata, da parte della Chiesa, una saggia decisione, perché se è vero che oggigiorno sono pochi quelli che credono all’esistenza dell’inferno e soprattutto alla sua eternità, nonostante si tratti di un dogma della fede cristiana, figurarsi se possono essere molto più numerosi quelli che credono all’esistenza del purgatorio! Considerato, oltretutto, che questa dottrina venne teorizzata solo nel Medioevo come stato transitorio dopo la morte, durante il quale l’anima espia quella pena, relativa ai propri peccati, che ancora non è stata soddisfatta dalla penitenza terrena.
Inoltre l’esistenza del purgatorio è negata dai protestanti – che non praticano la preghiera per i defunti credendo che la morte di Cristo sia stata ampiamente sufficiente alla salvezza dell’uomo – ed è respinta anche dalle Chiese ortodosse, che pure condividono con la Chiesa cattolica la prassi della preghiera e del sacrificio per i defunti. Per di più, nel Nuovo Testamento la tradizionale fede nel purgatorio è attestata solo in modo allusivo dall’affermazione di Gesù che accenna alla possibilità del perdono nel mondo futuro ( Mt 12, 32) e dalla frase di S. Paolo che parla della possibilità di venire salvati “come attraverso il fuoco” (1 Cor 3, 15). Quindi gli spunti di discussione e di riflessione tra le Chiese possono essere innumerevoli.
Invece io, cattolica “bambina”, credo fermamente nell’esistenza del purgatorio; anzi, penso che questa dottrina sia estremamente consolante perché ci assicura che anche dopo la nostra morte potranno essere sanate quelle innumerevoli debolezze e imperfezioni che ancora ci renderebbero indegni di vedere Dio faccia a faccia, nonostante la definitiva e sincera scelta di Lui fatta in vita da noi, e sarà permesso alla nostra anima immortale di “farsi bella”, in vista dell’incontro definitivo ed eterno con il Dio Trinitario. Allora l’anima sarà anche “contenta” di purificarsi nel fuoco, come Virgilio dice a Dante nei versi che ho citato in epigrafe. Ma come mai nel Nuovo Testamento gli accenni a questo straordinario mezzo di salvezza sono così rari e la successiva evoluzione dottrinaria è stata così lenta?
A questa domanda io avrei una risposta, sempre da cattolica “bambina”, che però mi conforta e mi rafforza nell’opinione che ho appena espresso. Penso che questa dottrina, elaborata così tardi dalla coscienza cristiana, faccia parte di quel complesso di “cose” che Gesù, prima della Passione avrebbe voluto dire ai suoi discepoli, ma non disse perché essi non erano ancora“capaci di portarne il peso”, e perciò preferì affidare questa Rivelazione allo Spirito di Verità che, una volta venuto, “li avrebbe guidati alla verità tutta intera … “ (Gv 16, 12 ss). Gesù, come sempre, aveva ragione: lo Spirito Santo ha agito senza fretta, aspettando che la Parola di Dio attecchisse e germogliasse nello spirito umano, rispettando i “tempi” umani e limitandosi a guidarne la riflessione nella direzione giusta. Infatti la dottrina cattolica del purgatorio – che ha ricevuto la sua forma definitiva nei due Concili di Lione (1274) e di Firenze (1439) che intendevano promuovere l’unione con le Chiese orientali – venne ribadita ancora una volta dal Concilio di Trento in occasione delle dispute con i movimenti riformatori.
Poiché il Nuovo Testamento aveva lasciato aperta la questione dello “stadio intermedio” tra la morte e la resurrezione all’ultimo giorno, il problema si sarebbe chiarito solo gradualmente con lo sviluppo dell’antropologia cristiana e del suo rapporto con la cristologia. Del resto, sappiamo che i tempi dello Spirito non coincidono con i tempi umani: il Cristianesimo primitivo cominciò a rintracciare le prime radici della dottrina del purgatorio nell’ambito giudaico – arcaico. Il secondo Libro dei Maccabei ( 12, 32 – 46) narra infatti che sui soldati ebrei caduti in guerra erano stati trovati degli amuleti pagani, per cui la loro morte era stata interpretata come punizione per l’apostasia dalla Legge. Si ricorse perciò alla preghiera, “supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato”. Non è quello che facciamo tutti noi quando preghiamo per i nostri defunti?
La parola “purgatorio” rimanda alla metafora della “purgazione” o della “purificazione”, due concetti che in realtà sono molto diversi perché esprimono due visioni differenti della natura del purgatorio. “Purgazione” esprime un’idea di pena, di espiazione, di negatività necessaria. “Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!” (Mt 5, 25 – 26). A questo passo evangelico forse pensava il rigorista Tertulliano quando, nell’opera “De anima”, concepì il purgatorio come una specie di campo di concentramento dell’Aldilà in cui l’uomo sconta le pene irrogategli da Dio – Giudice con criterio razionale e scientifico.
Il concetto di “purificazione”, invece, è diverso e infatti Il Concilio Vaticano II usa sempre questo termine per togliere quell’elemento di sofferenza che invece è connesso a “purgazione”. Il passaggio da una concezione all’altra è durata secoli e una delle pratiche più significative che ha contribuito allo sviluppo dell’idea del purgatorio, influenzando fortemente l’immaginario collettivo è stata l’antichissima pratica dei suffragi per i defunti assunta direttamente dall’uso ebraico e di cui esistono commoventi testimonianze nelle catacombe romane.
In un’opera pubblicata per la prima volta nel 1977, che io lessi nell’edizione italiana del 2008[2], l’allora Card. Ratzinger confutò l’interpretazione “carceraria” di Tertulliano, spiegando come nel III secolo la coscienza cristiana aveva già fatto un notevole passo avanti con l’opera di S. Cipriano di Cartagine, Vescovo e martire. Cipriano, come Pastore, aveva dovuto affrontare il problema dei “lapsi”, ossia di tante sue povere pecorelle, cristiane e spiritualmente ben disposte ma deboli, che avevano rinnegato pubblicamente Cristo non avendo avuto il coraggio di affrontare il martirio sotto la persecuzione dell’Imperatore Decio che, come riferiscono gli storici, fu particolarmente crudele. A differenza di Tertulliano, il passo di Matteo 5, 26 offrì al santo Vescovo l’occasione di intuire la possibilità che la penitenza ecclesiale potesse continuare nell’Aldilà, consentendogli di accogliere nuovamente quei poveri deboli cristiani nella comunità ecclesiale, contro la disapprovazione dei rigoristi. Così come essi erano, non avrebbero potuto entrare nella comunione col Cristo a causa del loro rinnegamento e della superficialità del loro carattere, tuttavia avrebbero potuto purificarsi anche dopo la morte. La penitenza ecclesiale, quale via della purificazione, non esisterebbe quindi solo nell’aldiquà, ma anche nell’aldilà.
Quindi il Prof. Ratzinger, sviluppando il suo excursus attraverso la visione del purgatorio quale fu concepita dai Padri dei primi secoli, giungeva alla conclusione che il purgatorio consiste piuttosto in un “processo necessario alla trasformazione spirituale che pone l’uomo in grado di essere vicino a Cristo, vicino a Dio e di unirsi all’intera communio sanctorum”.
Che ne è allora del fuoco? Non si parla né di fuoco, né di spazi, né di tempi, perché “ (il purgatorio) diviene un concetto specificamente cristiano solo se lo si intende nel senso cristologico, cioè che il Signore stesso è il fuoco giudicante che trasforma l’uomo e lo rende conforme al suo Corpo glorificato (Rom 8, 29; Fil 3, 21)”. Allora, “la dottrina cristiana del purgatorio … si fonda sulla grazia cristologica della penitenza e consegue con interiore necessità dall’idea dell’espiazione, della disposizione trasformante di colui al quale è donato il perdono”. E allora che significato avranno mai le testimonianze conservate nella chiesa del S. Cuore del Suffragio che deve il suo nome proprio all’invito che la Chiesa ci rivolge sempre di pregare per le anime del purgatorio?[3] Ovviamente non so rispondere con argomentazioni logiche e tanto meno scientifiche, ma mi viene in mente invece la risposta che, nell’ “Amleto” di Shakespeare, il Principe di Danimarca rivolge al suo amico Orazio, il quale ritiene una mera allucinazione l’apparizione dell’anima purgante del Re, che era assassinato da suo fratello Claudio, usurpatore del trono: “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”. Perciò penso che Dio può servirsi anche di quelle inspiegabili reliquie per indurci a riflettere sul nostro destino dopo la morte e prepararci convenientemente ad essa.
Rileggendo dopo alcuni anni quello straordinario libro di Benedetto XVI, sono rimasta profondamente colpita e consolata, perché ho pensato a tutti quei poveri cristiani residenti nei paesi arabi e in India, ora perseguitati dall’ISIS o dagli intolleranti induisti e per i quali lo scristianizzato e colpevole Occidente non alza un dito di difesa. Quanti di loro saranno stati costretti (se non uccisi tout court) i a rinnegare Cristo per salvare non solo la propria vita,ma anche quella dei propri familiari? La vicenda dei “lapsi” – formalmente apostati, ma rimasti cristiani nel loro cuore come aveva ben capito il loro santo Vescovo Cipriano – mi ha rammentato che, se è vero che le parole di Gesù (Mc 10, 33) non si discutono, non di meno solo Dio legge nel segreto dei cuori e probabilmente quei nostri infelici fratelli, ben consapevoli della loro dolorosa apostasia, saranno purificati in purgatorio da quel “fuoco giudicante” che è lo stesso Cristo.
A questo punto ritengo di dover aprire una parentesi per chiarire meglio l’opinione che ho appena espresso, perché a causa di essa sono stata molto criticata e accusata di “doppiopesismo” nel mio “entourage”. Infatti chi mi conosce sa che, nel confuso clima ecclesiale che stiamo vivendo, alimentato dall’egoistico relativismo che caratterizza il nostro tempo, io sono fermamente contraria ad ammettere i cattolici divorziati e risposatisi civilmente alla S. Eucaristia, a meno che essi non promettano al Confessore (che nel momento sacramentale agisce “in persona Christi”) di continuare la loro convivenza, spesso necessaria per la presenza di figli, osservando la castità. Tutto ciò in totale osservanza delle chiarissime parole di Gesù al riguardo espresse nel Vangeli secondo Matteo (19, 3 ss.) e secondo Marco (10, 1 ss). In questo caso i cattolici “adulti” mi accusano di“crudeltà” e rigorismo (alcuni amici mi chiamano scherzosamente Tertulliana), mentre sarei eccessivamente indulgente nei confronti dei cristiani moderni divenuti apostati perché terrorizzati dalla persecuzione. Ma si badi bene: non perché questi miei amici, cattolici “adulti”, pensino che quei poveretti saranno dannati in eterno per aver rinnegato Cristo davanti agli uomini (Mt 10, 33) – dato che essi, buonisticamente, non solo non credono più all’eternità dell’inferno, ma credono addirittura che ci si salvi sempre e comunque, purché “si creda in Qualcosa” – ma perché ritengono il “peccato” dei divorziati risposati civilmente infinitamente meno grave di quello di apostasia, anzi addirittura un “non peccato”, perché dettato unicamente dall’amore, in nome del quale oggi si può fare tutto, e tutto è scusabile se ci si ama.
Non è questo, a mio giudizio, il nocciolo della questione. Premesso che giudicare la gravità di un peccato è di esclusiva competenza di Dio, io non ritengo calzante quel paragone perché i “lapsi” antichi e moderni furono e sono indotti all’apostasia da situazioni tragiche di terrore e persecuzione e nel loro cuore sapevano e sanno di rinnegare Cristo a causa della loro debolezza, o povertà, o disperazione, o dal terrore di vedere i propri figli torturati o uccisi, come aveva ben capito l’antico Vescovo Cipriano che, nella sua santità, aveva intuito la possibilità che la misericordia di Dio li avrebbe potuti purificare anche dopo morti.
Niente di tutto ciò per i moderni divorziati risposati. Essi fanno una scelta di vita ragionata e ponderata senza aver subito coercizioni o persecuzioni e, se si professano cattolici, sanno che questa loro scelta li pone automaticamente in contrasto con la legge di Dio, perciò a mio giudizio, pur essendo essi incontestabilmente membri della Chiesa e nostri fratelli in Cristo, non possono pretendere di accostarsi all’Eucaristia (che è un dono gratuito e non un diritto come essi credono) o svolgere funzioni comunitarie in cui il loro stile di vita possa diventare un esempio e aumentare la confusione in cui già versano tanti spiriti poco esperti di Dottrina cristiana.
Per chiudere la parentesi e tornare alla mia riflessione, trovo confortante che anche Hans Kung, teologo per molti versi“border line” e al limite dell’ortodossia cattolica sembra che la pensi allo stesso modo di Benedetto XVI: “Il morire in Dio … deve essere inteso come un compimento di tutto l’uomo, mediante il quale, con misericordia, viene giudicato, purificato, salvato e quindi illuminato e portato a perfezione da Dio stesso … il purgatorio dell’uomo non è un luogo speciale, né un tempo speciale: è Dio stesso nella Sua Grazia nascosta”[4] . Queste ultime parole di Hans Kung ricalcano una formula biblica per sottolineare che la “purificazione” è l’incontro con Dio tre volte Santo che giudica e purifica l’uomo, ma insieme lo illumina, lo salva e lo porta a perfezione. Insomma, mi vien da dire da cattolica “bambina”, “lo rimette in sesto rendendolo presentabile per il Paradiso” e questo sembra sia il punto in cui convergono tutti i teologi moderni.
Secondo la concezione antropologica che anche il Vaticano II ha recepito e sottolineato nella Gaudium et Spes, l’esistenza umana è la possibilità che ci viene offerta di realizzare la nostra identità così come Dio l’ha pensata; in termini evangelici, è la possibilità di diventare figli di Dio. Infatti i nostri nomi “sono scritti nei cieli” come disse Gesù ai settantadue discepoli che tornavano gioiosi per il successo delle loro prime esperienze apostoliche. Anche Gesù ne fu felice ed esclamò: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10, 20 – 21).
E’ consolante e rassicurante, perciò, sapere che anche i nostri nomi sono scritti nel cielo, ma nel cammino della nostra vita può capitare che non accettiamo i doni messi a nostra disposizione dallo Spirito Santo per mezzo dei quali cresciamo, diventiamo figli e raggiungiamo la nostra identità. Non è detto che sia stato un rifiuto radicale, può anche essere stata un’accettazione parziale, per cui giungiamo alla morte così come alcuni bambini nascono prematuramente, tanto da dover essere messi nell’incubatrice. Ecco allora che la fede nel purgatorio ha un senso ed esso sarà la nostra “incubatrice”, anche se le formule tramandateci dalla Scrittura e dalla Tradizione sono legate a contesti culturali che ormai ci sono estranei. Se in vita abbiamo fatto la giusta scelta di fondo, cioè la definitiva e incondizionata adesione a Dio, allora non abbiamo nulla da temere; potranno esserci stati cedimenti, debolezze, imperfezioni, ma la forza purificatrice del purgatorio cancellerà tutto per renderci totalmente figli di Dio e consegnarci a Lui per tutta l’eternità.
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[1] Infatti l’unica chiesa di Roma autenticamente gotica è S. Maria sopra Minerva – il cui nome deriva dall’essere stata edificata sopra i resti di un antico tempio di Minerva – splendido esempio di gotico italiano dalle forme addolcite, rispetto a quello d’Oltralpe, al pari del gotico fiorentino.
[2] Cfr. J. Ratzinger, ESCATOLOGIA, Assisi, Cittadella Editrice, 2008, pag. 218 e ss.
[3] Ricordo di aver visto, molti anni fa nel museo di quella chiesa, l’impronta di una mano ardente che l’anima “purgante” avrebbe lasciato, bruciandola, sulla camicia del fedele che stava pregando per lei.
[4] Cfr. Hans Kung, VITA ETERNA? Saggi Mondadori Editore, 1983.
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“ … e canterò di quel secondo regno, / dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno” (Purg. I, 4 – 6).
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Il forestiero che a Roma percorra, a piedi o in auto, il Lungotevere Prati in direzione di S. Pietro – godendosi una delle più belle vedute della mia amata città che la politica e la pessima amministrazione che la affliggono da anni non riusciranno mai a deturpare (almeno si spera) – poco prima di arrivare a destinazione scorgerà sulla destra una strana chiesa dallo stile gotico transalpino ma palesemente moderna, e quando verrà a sapere che essa fu completata nel 1917, si stupirà che l’architetto abbia scelto uno stile così poco confacente all’atmosfera romana[1]. Ma non è solo lo stile architettonico, inusuale a Roma, a rendere curiosa questa chiesa, dedicata al S. Cuore del Suffragio, ma soprattutto il piccolo Museo delle Anime del Purgatorio, cui si accede dalla sacrestia, fondato nel 1894 dal gesuita marsigliese P. Victor Jouet il quale, avendo fondato un’Associazione per il Suffragio delle Anime del Purgatorio, aveva fatto una raccolta di documenti e cimeli attestanti l’esistenza delle anime purganti e del loro manifestarsi nel mondo terreno sotto forma di apparizioni che, in più occasioni, avevano lasciato impronte infuocate su abiti, stoffe, libri e oggetti vari. Queste reliquie, ovviamente numerate e catalogate, sono ora raccolte in vari armadi e non è tanto facile accedere ad esse perché la Chiesa non ne ha mai incoraggiato la visione allo scopo di non alimentare curiosità morbose in una materia sulla quale essa non ha mai espresso una posizione ufficiale.
E in effetti questa è stata, da parte della Chiesa, una saggia decisione, perché se è vero che oggigiorno sono pochi quelli che credono all’esistenza dell’inferno e soprattutto alla sua eternità, nonostante si tratti di un dogma della fede cristiana, figurarsi se possono essere molto più numerosi quelli che credono all’esistenza del purgatorio! Considerato, oltretutto, che questa dottrina venne teorizzata solo nel Medioevo come stato transitorio dopo la morte, durante il quale l’anima espia quella pena, relativa ai propri peccati, che ancora non è stata soddisfatta dalla penitenza terrena.
Inoltre l’esistenza del purgatorio è negata dai protestanti – che non praticano la preghiera per i defunti credendo che la morte di Cristo sia stata ampiamente sufficiente alla salvezza dell’uomo – ed è respinta anche dalle Chiese ortodosse, che pure condividono con la Chiesa cattolica la prassi della preghiera e del sacrificio per i defunti. Per di più, nel Nuovo Testamento la tradizionale fede nel purgatorio è attestata solo in modo allusivo dall’affermazione di Gesù che accenna alla possibilità del perdono nel mondo futuro ( Mt 12, 32) e dalla frase di S. Paolo che parla della possibilità di venire salvati “come attraverso il fuoco” (1 Cor 3, 15). Quindi gli spunti di discussione e di riflessione tra le Chiese possono essere innumerevoli.
Invece io, cattolica “bambina”, credo fermamente nell’esistenza del purgatorio; anzi, penso che questa dottrina sia estremamente consolante perché ci assicura che anche dopo la nostra morte potranno essere sanate quelle innumerevoli debolezze e imperfezioni che ancora ci renderebbero indegni di vedere Dio faccia a faccia, nonostante la definitiva e sincera scelta di Lui fatta in vita da noi, e sarà permesso alla nostra anima immortale di “farsi bella”, in vista dell’incontro definitivo ed eterno con il Dio Trinitario. Allora l’anima sarà anche “contenta” di purificarsi nel fuoco, come Virgilio dice a Dante nei versi che ho citato in epigrafe. Ma come mai nel Nuovo Testamento gli accenni a questo straordinario mezzo di salvezza sono così rari e la successiva evoluzione dottrinaria è stata così lenta?
A questa domanda io avrei una risposta, sempre da cattolica “bambina”, che però mi conforta e mi rafforza nell’opinione che ho appena espresso. Penso che questa dottrina, elaborata così tardi dalla coscienza cristiana, faccia parte di quel complesso di “cose” che Gesù, prima della Passione avrebbe voluto dire ai suoi discepoli, ma non disse perché essi non erano ancora“capaci di portarne il peso”, e perciò preferì affidare questa Rivelazione allo Spirito di Verità che, una volta venuto, “li avrebbe guidati alla verità tutta intera … “ (Gv 16, 12 ss). Gesù, come sempre, aveva ragione: lo Spirito Santo ha agito senza fretta, aspettando che la Parola di Dio attecchisse e germogliasse nello spirito umano, rispettando i “tempi” umani e limitandosi a guidarne la riflessione nella direzione giusta. Infatti la dottrina cattolica del purgatorio – che ha ricevuto la sua forma definitiva nei due Concili di Lione (1274) e di Firenze (1439) che intendevano promuovere l’unione con le Chiese orientali – venne ribadita ancora una volta dal Concilio di Trento in occasione delle dispute con i movimenti riformatori.
Poiché il Nuovo Testamento aveva lasciato aperta la questione dello “stadio intermedio” tra la morte e la resurrezione all’ultimo giorno, il problema si sarebbe chiarito solo gradualmente con lo sviluppo dell’antropologia cristiana e del suo rapporto con la cristologia. Del resto, sappiamo che i tempi dello Spirito non coincidono con i tempi umani: il Cristianesimo primitivo cominciò a rintracciare le prime radici della dottrina del purgatorio nell’ambito giudaico – arcaico. Il secondo Libro dei Maccabei ( 12, 32 – 46) narra infatti che sui soldati ebrei caduti in guerra erano stati trovati degli amuleti pagani, per cui la loro morte era stata interpretata come punizione per l’apostasia dalla Legge. Si ricorse perciò alla preghiera, “supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato”. Non è quello che facciamo tutti noi quando preghiamo per i nostri defunti?
La parola “purgatorio” rimanda alla metafora della “purgazione” o della “purificazione”, due concetti che in realtà sono molto diversi perché esprimono due visioni differenti della natura del purgatorio. “Purgazione” esprime un’idea di pena, di espiazione, di negatività necessaria. “Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!” (Mt 5, 25 – 26). A questo passo evangelico forse pensava il rigorista Tertulliano quando, nell’opera “De anima”, concepì il purgatorio come una specie di campo di concentramento dell’Aldilà in cui l’uomo sconta le pene irrogategli da Dio – Giudice con criterio razionale e scientifico.
Il concetto di “purificazione”, invece, è diverso e infatti Il Concilio Vaticano II usa sempre questo termine per togliere quell’elemento di sofferenza che invece è connesso a “purgazione”. Il passaggio da una concezione all’altra è durata secoli e una delle pratiche più significative che ha contribuito allo sviluppo dell’idea del purgatorio, influenzando fortemente l’immaginario collettivo è stata l’antichissima pratica dei suffragi per i defunti assunta direttamente dall’uso ebraico e di cui esistono commoventi testimonianze nelle catacombe romane.
In un’opera pubblicata per la prima volta nel 1977, che io lessi nell’edizione italiana del 2008[2], l’allora Card. Ratzinger confutò l’interpretazione “carceraria” di Tertulliano, spiegando come nel III secolo la coscienza cristiana aveva già fatto un notevole passo avanti con l’opera di S. Cipriano di Cartagine, Vescovo e martire. Cipriano, come Pastore, aveva dovuto affrontare il problema dei “lapsi”, ossia di tante sue povere pecorelle, cristiane e spiritualmente ben disposte ma deboli, che avevano rinnegato pubblicamente Cristo non avendo avuto il coraggio di affrontare il martirio sotto la persecuzione dell’Imperatore Decio che, come riferiscono gli storici, fu particolarmente crudele. A differenza di Tertulliano, il passo di Matteo 5, 26 offrì al santo Vescovo l’occasione di intuire la possibilità che la penitenza ecclesiale potesse continuare nell’Aldilà, consentendogli di accogliere nuovamente quei poveri deboli cristiani nella comunità ecclesiale, contro la disapprovazione dei rigoristi. Così come essi erano, non avrebbero potuto entrare nella comunione col Cristo a causa del loro rinnegamento e della superficialità del loro carattere, tuttavia avrebbero potuto purificarsi anche dopo la morte. La penitenza ecclesiale, quale via della purificazione, non esisterebbe quindi solo nell’aldiquà, ma anche nell’aldilà.
Quindi il Prof. Ratzinger, sviluppando il suo excursus attraverso la visione del purgatorio quale fu concepita dai Padri dei primi secoli, giungeva alla conclusione che il purgatorio consiste piuttosto in un “processo necessario alla trasformazione spirituale che pone l’uomo in grado di essere vicino a Cristo, vicino a Dio e di unirsi all’intera communio sanctorum”.
Che ne è allora del fuoco? Non si parla né di fuoco, né di spazi, né di tempi, perché “ (il purgatorio) diviene un concetto specificamente cristiano solo se lo si intende nel senso cristologico, cioè che il Signore stesso è il fuoco giudicante che trasforma l’uomo e lo rende conforme al suo Corpo glorificato (Rom 8, 29; Fil 3, 21)”. Allora, “la dottrina cristiana del purgatorio … si fonda sulla grazia cristologica della penitenza e consegue con interiore necessità dall’idea dell’espiazione, della disposizione trasformante di colui al quale è donato il perdono”. E allora che significato avranno mai le testimonianze conservate nella chiesa del S. Cuore del Suffragio che deve il suo nome proprio all’invito che la Chiesa ci rivolge sempre di pregare per le anime del purgatorio?[3] Ovviamente non so rispondere con argomentazioni logiche e tanto meno scientifiche, ma mi viene in mente invece la risposta che, nell’ “Amleto” di Shakespeare, il Principe di Danimarca rivolge al suo amico Orazio, il quale ritiene una mera allucinazione l’apparizione dell’anima purgante del Re, che era assassinato da suo fratello Claudio, usurpatore del trono: “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”. Perciò penso che Dio può servirsi anche di quelle inspiegabili reliquie per indurci a riflettere sul nostro destino dopo la morte e prepararci convenientemente ad essa.
Rileggendo dopo alcuni anni quello straordinario libro di Benedetto XVI, sono rimasta profondamente colpita e consolata, perché ho pensato a tutti quei poveri cristiani residenti nei paesi arabi e in India, ora perseguitati dall’ISIS o dagli intolleranti induisti e per i quali lo scristianizzato e colpevole Occidente non alza un dito di difesa. Quanti di loro saranno stati costretti (se non uccisi tout court) i a rinnegare Cristo per salvare non solo la propria vita,ma anche quella dei propri familiari? La vicenda dei “lapsi” – formalmente apostati, ma rimasti cristiani nel loro cuore come aveva ben capito il loro santo Vescovo Cipriano – mi ha rammentato che, se è vero che le parole di Gesù (Mc 10, 33) non si discutono, non di meno solo Dio legge nel segreto dei cuori e probabilmente quei nostri infelici fratelli, ben consapevoli della loro dolorosa apostasia, saranno purificati in purgatorio da quel “fuoco giudicante” che è lo stesso Cristo.
A questo punto ritengo di dover aprire una parentesi per chiarire meglio l’opinione che ho appena espresso, perché a causa di essa sono stata molto criticata e accusata di “doppiopesismo” nel mio “entourage”. Infatti chi mi conosce sa che, nel confuso clima ecclesiale che stiamo vivendo, alimentato dall’egoistico relativismo che caratterizza il nostro tempo, io sono fermamente contraria ad ammettere i cattolici divorziati e risposatisi civilmente alla S. Eucaristia, a meno che essi non promettano al Confessore (che nel momento sacramentale agisce “in persona Christi”) di continuare la loro convivenza, spesso necessaria per la presenza di figli, osservando la castità. Tutto ciò in totale osservanza delle chiarissime parole di Gesù al riguardo espresse nel Vangeli secondo Matteo (19, 3 ss.) e secondo Marco (10, 1 ss). In questo caso i cattolici “adulti” mi accusano di“crudeltà” e rigorismo (alcuni amici mi chiamano scherzosamente Tertulliana), mentre sarei eccessivamente indulgente nei confronti dei cristiani moderni divenuti apostati perché terrorizzati dalla persecuzione. Ma si badi bene: non perché questi miei amici, cattolici “adulti”, pensino che quei poveretti saranno dannati in eterno per aver rinnegato Cristo davanti agli uomini (Mt 10, 33) – dato che essi, buonisticamente, non solo non credono più all’eternità dell’inferno, ma credono addirittura che ci si salvi sempre e comunque, purché “si creda in Qualcosa” – ma perché ritengono il “peccato” dei divorziati risposati civilmente infinitamente meno grave di quello di apostasia, anzi addirittura un “non peccato”, perché dettato unicamente dall’amore, in nome del quale oggi si può fare tutto, e tutto è scusabile se ci si ama.
Non è questo, a mio giudizio, il nocciolo della questione. Premesso che giudicare la gravità di un peccato è di esclusiva competenza di Dio, io non ritengo calzante quel paragone perché i “lapsi” antichi e moderni furono e sono indotti all’apostasia da situazioni tragiche di terrore e persecuzione e nel loro cuore sapevano e sanno di rinnegare Cristo a causa della loro debolezza, o povertà, o disperazione, o dal terrore di vedere i propri figli torturati o uccisi, come aveva ben capito l’antico Vescovo Cipriano che, nella sua santità, aveva intuito la possibilità che la misericordia di Dio li avrebbe potuti purificare anche dopo morti.
Niente di tutto ciò per i moderni divorziati risposati. Essi fanno una scelta di vita ragionata e ponderata senza aver subito coercizioni o persecuzioni e, se si professano cattolici, sanno che questa loro scelta li pone automaticamente in contrasto con la legge di Dio, perciò a mio giudizio, pur essendo essi incontestabilmente membri della Chiesa e nostri fratelli in Cristo, non possono pretendere di accostarsi all’Eucaristia (che è un dono gratuito e non un diritto come essi credono) o svolgere funzioni comunitarie in cui il loro stile di vita possa diventare un esempio e aumentare la confusione in cui già versano tanti spiriti poco esperti di Dottrina cristiana.
Per chiudere la parentesi e tornare alla mia riflessione, trovo confortante che anche Hans Kung, teologo per molti versi“border line” e al limite dell’ortodossia cattolica sembra che la pensi allo stesso modo di Benedetto XVI: “Il morire in Dio … deve essere inteso come un compimento di tutto l’uomo, mediante il quale, con misericordia, viene giudicato, purificato, salvato e quindi illuminato e portato a perfezione da Dio stesso … il purgatorio dell’uomo non è un luogo speciale, né un tempo speciale: è Dio stesso nella Sua Grazia nascosta”[4] . Queste ultime parole di Hans Kung ricalcano una formula biblica per sottolineare che la “purificazione” è l’incontro con Dio tre volte Santo che giudica e purifica l’uomo, ma insieme lo illumina, lo salva e lo porta a perfezione. Insomma, mi vien da dire da cattolica “bambina”, “lo rimette in sesto rendendolo presentabile per il Paradiso” e questo sembra sia il punto in cui convergono tutti i teologi moderni.
Secondo la concezione antropologica che anche il Vaticano II ha recepito e sottolineato nella Gaudium et Spes, l’esistenza umana è la possibilità che ci viene offerta di realizzare la nostra identità così come Dio l’ha pensata; in termini evangelici, è la possibilità di diventare figli di Dio. Infatti i nostri nomi “sono scritti nei cieli” come disse Gesù ai settantadue discepoli che tornavano gioiosi per il successo delle loro prime esperienze apostoliche. Anche Gesù ne fu felice ed esclamò: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10, 20 – 21).
E’ consolante e rassicurante, perciò, sapere che anche i nostri nomi sono scritti nel cielo, ma nel cammino della nostra vita può capitare che non accettiamo i doni messi a nostra disposizione dallo Spirito Santo per mezzo dei quali cresciamo, diventiamo figli e raggiungiamo la nostra identità. Non è detto che sia stato un rifiuto radicale, può anche essere stata un’accettazione parziale, per cui giungiamo alla morte così come alcuni bambini nascono prematuramente, tanto da dover essere messi nell’incubatrice. Ecco allora che la fede nel purgatorio ha un senso ed esso sarà la nostra “incubatrice”, anche se le formule tramandateci dalla Scrittura e dalla Tradizione sono legate a contesti culturali che ormai ci sono estranei. Se in vita abbiamo fatto la giusta scelta di fondo, cioè la definitiva e incondizionata adesione a Dio, allora non abbiamo nulla da temere; potranno esserci stati cedimenti, debolezze, imperfezioni, ma la forza purificatrice del purgatorio cancellerà tutto per renderci totalmente figli di Dio e consegnarci a Lui per tutta l’eternità.
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[1] Infatti l’unica chiesa di Roma autenticamente gotica è S. Maria sopra Minerva – il cui nome deriva dall’essere stata edificata sopra i resti di un antico tempio di Minerva – splendido esempio di gotico italiano dalle forme addolcite, rispetto a quello d’Oltralpe, al pari del gotico fiorentino.
[2] Cfr. J. Ratzinger, ESCATOLOGIA, Assisi, Cittadella Editrice, 2008, pag. 218 e ss.
[3] Ricordo di aver visto, molti anni fa nel museo di quella chiesa, l’impronta di una mano ardente che l’anima “purgante” avrebbe lasciato, bruciandola, sulla camicia del fedele che stava pregando per lei.
[4] Cfr. Hans Kung, VITA ETERNA? Saggi Mondadori Editore, 1983.
riscossacristiana.it/riflessioni-sullesistenza-del-purgatorio-di-carla-dagostino-ungaretti/
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