ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 5 luglio 2016

Obbedire “a tutto ciò che egli dirà”. Però...

La rivolta di un cardinale cinese contro il Papa apre un’altra ferita nella chiesa


L’ex arcivescovo di Hong Kong: “Se il Vaticano si accorderà con Pechino, dovremo seguire la nostra coscienza”

"Dovremo seguire la nostra coscienza", ha scritto sul suo blog il cardinale Zen
Roma. Il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo emerito di Hong Kong, si appella ai cattolici cinesi affinché contemplino l’idea di non considerare valido l’eventuale accordo che la Santa Sede potrebbe raggiungere con le autorità di Pechino, se riterranno che l’agreement “sia contrario al principio di fede”. Il porporato salesiano lo scrive sul suo blog personale, attaccando “i filogovernativi” e “gli opportunisti della chiesa” auspicanti che Roma firmi al più presto “un accordo per legittimare l’attuale situazione anomala”. Zen parte dal presupposto che ogni intesa possibile – che appare probabile, se si leggono le pur prudenti dichiarazioni degli ultimi mesi rese dai principali tessitori del negoziato vaticani – porterà la firma del Papa. Se pace sarà, insomma, lo si dovrà al via libera di Francesco. Di conseguenza, prosegue il cardinale cinese, bisognerà obbedire “a tutto ciò che egli dirà”. Però, aggiungeva, “il criterio ultimo per giudicare come comportarci è la coscienza” e quindi “se secondo la coscienza il contenuto di un accordo è contrario al principio di fede, non va seguito”.

 Zen è sempre stato contrario a ogni intesa con Pechino, perché a suo giudizio significherebbe una capitolazione dinanzi ai desiderata dei vertici comunisti che hanno costretto per decenni i cattolici del paese alla clandestinità. Il lavorIo diplomatico procede, lo scorso ottobre il segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin – conoscitore come pochi altri del dossier cinese, avendo avuto un ruolo non indifferente nella preparazione della Lettera ai cattolici cinesi promulgata da Benedetto XVI nel 2007 – ammetteva che “non è la prima volta che una delegazione del Papa si reca a Pechino, fa parte di un certo percorso in vista di una normalizzazione dei rapporti e il solo fatto di poterci parlare è significativo”. Zen, solo pochi mesi prima, aveva detto che “avevo sempre avuto fiducia in Parolin, fino a quando non ho saputo che anche lui era a favore di un accordo che in questa fase sarebbe stato solo una resa incondizionata”. A Pechino, proseguiva, “non c’è volontà di dialogo. Vogliamo sacrificare la nomina e la consacrazione dei vescovi per un dialogo fasullo?”. Il punto dolente è proprio la nomina dei vertici episcopali, che la Santa Sede considera propria prerogativa mentre il governo ritiene essere affare di politica interna. La Lettera firmata da Joseph Ratzinger, a tal proposito, era chiara nell’indicare la linea da seguire: “La dichiarata finalità di attuare i princìpi di indipendenza e autonomia, autogestione e amministrazione democratica della chiesa è inconciliabile con la dottrina cattolica, che fin dagli antichi Simboli di fede professa la chiesa una, santa, cattolica e apostolica”.

ARTICOLI CORRELATI Altro che Papa pastorale, il diplomatico Francesco ridisegna il mappamondo Il calvario di Cristo in Cina Se anche la chiesa cinese di regime alza la testa contro PechinoChe la questione sia delicata e quanto mai attuale lo dimostra quanto accaduto nelle ultime settimane a Shanghai, con il vescovo ausiliare Taddeo Ma Daqin che, dopo quattro anni di arresti domiciliari per essersi pubblicamente dimesso dall’Associazione patriottica nel momento – fu arrestato il giorno stesso dell’ordinazione – in cui ha pubblicato un articolo confessando i suoi errori ed elogiando “il ruolo insostituibile nello sviluppo della chiesa in Cina” rivestito dall’Associazione, emanazione diretta del Partito comunista. Vi sono dubbi, anche tra chi conosce mons. Ma Daqin, sul fatto che il ravvedimento sia genuino e non, piuttosto, indotto dalle autorità. C’è chi, ad esempio, sostiene che il presule abbia deciso di “umiliarsi” per il bene della diocesi, così da poter tornare a occuparsene in modo attivo e da uomo libero. Conservando nell’intimità la propria indiscussa fedeltà al Papa e manifestando in modo pubblico e visibile il sostegno all’organismo di controllo governativo.
A ogni modo, ha scritto Bernardo Cervellera, direttore di Asia News (portale del Pontificio istituto per le missioni estere), la vicenda pone ulteriori interrogativi: “L’articolo (del vescovo Ma Daqin, ndr) pieno di elogi sperticati verso l’Associazione patriottica, vanifica quanto Benedetto XVI aveva stabilito nella sua Lettera ai cattolici cinesi”.

Lo stupore più grande in molti cinesi, aggiunge Cervellera, “è dovuto al silenzio del Vaticano”, al punto che da più parti se ne chiede un intervento. Il  voltafaccia di mons. Ma Daqin, poi, rappresenterebbe “un fallimento della politica vaticana verso la Cina, secondo quanto osserva Cervellera riportando le dichiarazioni rese ad Asia News da un “professionista di Pechino”. In sostanza, “se l’articolo pubblicato è di mons. Ma Daqin, dobbiamo dire che il Vaticano ha fallito nella sua politica, che cercava il rapporto con il governo ma affermava che l’Associazione patriottica è inconciliabile con la dottrina cattolica. Se non è stato lui a scriverlo, allora è un gesto forzato e di persecuzione, che però nessuno denuncia, nemmeno la Santa Sede”.
di Matteo Matzuzzi | 02 Luglio 2016


Cina-Vaticano, cosa succede tra il cardinale Zen, Parolin e Papa Francesco
La sua epoca d’oro è stata il pontificato di Benedetto XVI, nel corso del quale si è messo in luce come uno dei falchi vaticani convinti del fatto che col governo di Pechino si dovesse giocare in modo duro e pesante. Poi, salito al SoglioFrancesco – e soprattutto uno che non sembra averlo nelle sue grazie, ossia il Segretario di Stato Pietro Parolin, fautore di una realpolitik verso la Cina – è finito in un angolo. Dal quale, però, continua ogni tanto a sortire essendo anche gradito ad un certo mondo conservatore. Parliamo del cardinale Joseph Zen Ze-kiun, salesiano di ferro classe 1932 ed intimo amico di Joseph Ratzinger nonché vescovo emerito di Hong Kong. Che ultimamente ha preso carta e penna e, sul suo blog, è intervenuto attaccando duramente l’eventuale accordo che permettere di ristabilire i rapporti diplomatici tra Santa Sede e Cina. Bisogna sapere, infatti, che dal 1951 Roma e Pechino si guardano in cagnesco e non si risparmiano le ditate negli occhi: in quell’anno, infatti, Mao Tze Tung espulse gli ultimi missionari cattolici dall’ex Celeste Impero accusandoli di essere in fondo esponenti malsani di un potere politico nemico della Cina, e cioè del Papa. In realtà il discorso era molto più profondo, essendo il Cristianesimo – e malgrado l’impegno del gesuita Matteo Ricci nel ‘500 per evangelizzare la Cina – visto come un retaggio dell’oppressione colonizzatrice occidentale. Un simbolo di conquista, insomma: che agli occhi di Mao doveva saltare.
Da dove nasce la separazione tra Roma e Pechino
E infatti, espulsi i missionari, nel 1957 i cattolici cinesi dovettero scegliere: Pechino creò una “chiesa” acefala, cioè senza un capo e men che meno fedele al Papa, ossia l’Associazione Cattolica Patriottica. Che si occupa di “lavorare” alle dipendenze dell’Amministrazione Statale degli Affari Religiosi, il “ministero” del governo di Pechino che gestisce i culti nel Paese. Inutile dire che il “cattolicesimo patriottico” declina la fede in modo diverso rispetto a quella di Roma; e da allora una parte dei cattolici è “patriottica”, quindi fedele alla “chiesa” ufficiale: mentre oltre otto milioni di cinesi sono cattolici clandestini, sottoposti ad un rigido controllo dello Stato e spesso perseguitati. Essere cattolici clandestini significa pregare in mezzo ai campi, nei garage e di nascosto. Significa essere ordinati sacerdoti in modo clandestino ed essere arrestati e sparire per anni dopo un blitz di polizia. Significa cioè essere considerati cittadini parzialmente infedeli, dal momento che – ripetiamo – per Pechino la fedeltà al Papa equivale alla fedeltà ad un Capo di una nazione straniera.
Questo è lo stato dei fatti: negli ultimi 40 anni, però, la Santa Sede ha avviato un duro percorso di dialogo e incontro,a volte rocambolesco e – fino all’arrivo di Parolin al timone della Segreteria di Stato – coadiuvato dalla Comunità di Sant’Egidio di Andrea Riccardi che, grazie alle sue attinenze col mondo politico e culturale cinese, ha funzionato – notano i diplomatici USA – da ballon d’essai delle scelte vaticane. Un ruolo meritorio e coraggioso, che però con la gestione di Tarcisio Bertone (negli anni d’oro di Zen, appunto) è cessato. Per ripartire con Parolin.
Ora il nodo essenziale del rapporto Cina-Vaticano, dopo che nell’agosto 2005 si era quasi clamorosamente arrivati alristabilimento delle relazioni diplomatiche internazionaliriguarda la nomina dei vescovi. Roma sta proponendo unmodus vivendi che proprio nel 1996 Parolin è riuscito a implementare in Vietnam: il Vaticano propone una terna di vescovi, all’interno della quale Pechino fa la sua scelta. Solo che il metodo implementato ad Hanoi ha qualche difetto: in Vietnam il governo sceglie di fare le nomine quando vuole (spesso con ritardo) e prende candidati filogovernativi.
Il difficile rapporto Zen-Parolin
Questa premessa serve per chiarire chi siano gli uomini in campo e da dove scaturiscono le uscite polemiche di Zen. Uno del quale Parolin pensa questo, come riportano i cablo di Wikileaks: nel 2006 Benedetto XVI lo ha creato cardinale semplicemente perché non c’era un altro da creare cardinale al posto suo. Non lo hanno scelto per le sue qualità personali, fece capire ai diplomatici dell’ambasciata Usa in Vaticano, ma solo perché il Papa avrebbe voluto nominare un cardinale cinese come gesto d’amicizia verso Pechino e, naturalmente, non avrebbe potuto nominare nessun altro perché non c’erano altri candidati. Men che meno di Taiwan, isola considerata da Pechino provincia ribelle (cablo 06VATICAN52_a del 28 marzo 2006).
E comunque nemmeno Zen sembrerebbe avere grossa stima di Parolin, già che ci siamo, visto che sempre ai diplomatici yankee aveva detto (cablo 08VATICAN18_a del 31 gennaio 2008) che da quando il dossier Cina era stato tolto all’arcivescovo Claudio Maria Celli, dal 1990 al 2007 sottosegretario ai Rapporti con gli Stati (il viceministro degli Esteri del Vaticano, per capirci), la Santa Sede aveva mostrato una mancanza di “competenza” sulla questione cinese.
Zen contro il Papa?
Insomma, diciamo che Zen non sembra aver mai condiviso la linea e l’operatività di Parolin sulla Cina. Ecco perché ancora una volta ha rotto il suo silenzio tornando a esprimere sulla sua pagina web delle considerazioni molto pesanti. Sostanzialmente, il cardinale si dice contrario – e lo dice ai fedeli di tutta la Cina – ad un eventuale appeasentment tra Roma e Pechino, dal momento che questo contrasterebbe con la libertà della Chiesa da ingerenze di tipo politico esterno come richiesto da Benedetto XVI nella famosa Lettera ai cattolici cinesi del 2007. Per Zen, insomma, la centralità della figura papale è indiscussa, e che un accordo con la Cina dovrebbe avere l’approvazione di Francesco. Ma in questo caso, scrive: “Non dovremmo criticare alcunché di quello che il Papa approverà”. E’ però certo che: “Alla fine della fiera, la coscienza di ognuno è il criterio ultimo per giudicare il nostro comportamento. Quindi, se la vostra coscienza vi dice che il contenuto di qualsiasi accordo va contro i principi della nostra fede, non dovreste accettarlo”. Insomma, una ribellione contro il Papa e contro la Santa Sede che per il Papa lavora, con un chiarimento: “Il timore è che in futuro non possiate più avere un luogo pubblico di culto, ma sarete liberi di pregare a casa; e se doveste essere impediti nella ricezione dei Sacramenti, il Signore entrerà ancora nei vostri cuori; e nel caso in cui non poteste praticare il servizio sacerdotale, potrete ancora andare a casa a zappare la terra. Un sacerdote resta tale per sempre”. Uno scenario rassicurante, non c’è che dire.
Che cosa significano queste parole
Zen, come abbiamo detto, è uomo spiccio ed esponente dei “falchi”. È ritirato ed anziano, vede la gestione del dossier Cina in mano a Parolin con cui non sembra essere mai corso buon sangue. Ma sa, come molti sanno in Vaticano, che questo Papato si gioca una pesante eredità sui rapporti con l’ex Celeste Impero e sa anche che Francesco vuole chiudere un accordo con Pechino e ha dato mandato al Segretario di Stato di trattare e portare a casa un risultato. Valuta tutto questo come estrema remissione nei confronti di un potere politico che certo non stima né approva. E a questo si aggiunge anche quello che per lui è un silenzio colpevole. Quello del Vaticano sul clamoroso voltafaccia di monsignor Taddeo Ma Daqin: che il 12 giugno scorso sul suo blog si è pentito di aver lasciato l’Associazione Patriottica nel 2012, tornando ad esaltare quest’istituzione. Apriti cielo: Zen è sbottato sul suo blog scrivendo che: “Sì, il Vaticano dovrebbe chiarire e dare delle linee guide, in nome della verità, la giustizia e la buona morale dell’amore. Roma dovrebbe proteggere la reputazione della Chiesa, di monsignor Ma, sradicare il caos e la sporcizia nella chiesa cinese. Non dire nulla è da irresponsabili”. A proposito: il Papa ha fatto sapere che sta pregando per monsignor Ma e che sta seguendo la sua vicenda personale ed ecclesiale “con particolare premura e sollecitudine”. Chissà se al cardinal Zen questo basterà.

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