PERCHE'LA FEDE E'DIFFICILE OGGI ?
Perché la fede è diventata così difficile oggi? Perchè le persone fanno tanta fatica a credere in Dio ed in tutte le altre verità tramandate nel corso dei secoli e che formano la Rivelazione cristiana base della nostra civiltà?
di Francesco Lamendola
La crisi del sentimento religioso, e, in particolare, la crisi del cattolicesimo, traggono origine da svariati meccanismi dell’incontro/scontro fra la civiltà moderna, che si afferma nella sua versione estrema, tecnologica, edonista e relativista, e il mondo pre-moderno, le cui ultime forme superstiti cadono una dopo l’altra, venendo poi subito dimenticate (ma non è raro che vengano dimenticate, per così dire, mentre sono ancora in vita, e sia pure agonizzanti).
Al fondo di questo fenomeno, tuttavia, vi è un nucleo essenziale che non è difficile isolare e mettere specificamente a fuoco, tralasciando il resto, pur consapevoli del fatto che si tratta, con ciò, di una operazione di semplificazione e di schematizzazione, non però del tutto arbitraria, bensì, entro certi limiti, legittima e perfino utile per andare al nocciolo della questione: e questo nucleo si potrebbe riassumere in una breve, semplice domanda: Perché la fede è diventata così difficile, oggi? Perché, in altri termini, le persone fanno tanta fatica a credere in Dio, nell’immoralità dell’anima, nel Verbo incarnato ed in tutte le altre verità tramandate e insegnate nel corso dei secoli, e che formano la Rivelazione cristiana, base della nostra civiltà e del nostro modo di vivere, di sentire, di pensare, di amare, e persino di morire?
Se riusciremo a capire questo, e a rispondere a questa domanda, solo allora saremo in condizioni di comprendere veramente la realtà dell’uomo moderno, e di trovare la strada che potrà permetterci di uscire dal vicolo cieco nel quale la nostra società sembra ormai irrimediabilmente bloccata; se no, potremo anche escogitare nuove e sempre più sofisticate tecnologie, potremo dominare le forze della natura, ma continueremo a perdere la padronanza di noi stessi, a divenire estranei al nostro io più vero e profondo, e a condannarci ad una impotenza sempre più grave, ad un’angoscia sempre più paralizzante, a un desiderio di morte sempre più imperioso. E andremo verso la fine della nostra vita con un ulteriore rimorso sulla coscienza, ammesso che ne abbiamo ancora una: di aver creato le condizioni per rendere la vita impossibile ai nostri figli. Cosa che essi non potranno perdonarci mai, perché nessuna generazione aveva mai perpetrato un così raffinato tradimento nei confronti di quella successiva.
Come abbiamo accennato, le cause della difficoltà di credere sono molteplici; una, però, spicca fra tutte, ed è li che intendiamo fermare la nostra attenzione: una crescente, patologica, incontenibile superbia intellettuale, che ha portato l’uomo, nel corso degli ultimi secoli, a rifiutare il proprio statuto ontologico di creatura e lo ha persuaso, consciamente o inconsciamente, di avere il “diritto” di ergersi allo statuto di creatore egli stesso: ciò che scienziati folli e malvagi, ma lucidi e perfettamente razionali nel loro ottenebramento, stanno perseguendo attraverso svariate tecniche di manipolazione genetica, di clonazione, di creazione di creature viventi ibride, da essi fabbricate in laboratorio a fini meramente economici o, peggio ancora (se possibile), per un vero e proprio delirio d’onnipotenza. Tutto questo è stato reso possibile da una drammatica eclisse del sacro, dalla scomparsa dell’amore e del timor di Dio (non solo dell’amore, ma anche del sacrosanto timore di Lui!), da un oscuramento del Logos contemplativo e disinteressato, a vantaggio di un Logos puramente strumentale e calcolante; in breve: da una dissoluzione di quella cultura, di quella spiritualità, di quel senso di responsabilità, che fungevamo da contrappeso all’homo tecnologicus, che ne imbrigliavano (entro certi limiti) le pulsioni distruttive, o che riuscivano a incanalarle entro forme accettabili e utili, a indirizzarle verso fini nobili e costruttivi, insomma a spiritualizzare e a responsabilizzare le pulsioni egoiche dell’Io, impedendogli di farsi il tiranno di se stesso e dei suoi simili, nonché della natura tutta. Oggi questi contrappesi sono stati scalzati e divelti, uno dopo l’altro, perché una delirante cultura dei “diritti” li ha denunciati come altrettante forme di repressione e mortificazione dell’Io, come ostacoli al progresso e alla libertà umani.
Ma venendo alla psicologia individuale, alla coscienza che si trova a tu per tu con il problema della fede, con la difficoltà di credere, con una sorta di fastidio, di allergia, di insofferenza nei confronti del divino, che cosa possiamo dire, che cosa possiamo fare, per superare la situazione di stallo in cui ci troviamo e per recuperare quell’armonia, quello spirito di fiducioso abbandono con cui i nostri nonni si rimettevano a Dio e lo eleggevano a guida infallibile della loro esistenza, nella lieta così come nell’avversa fortuna, riuscendo a condurre una vita difficile, sì, ma nel complesso serena, perché le difficoltà trovavamo un orizzonte di senso, e a ciascun sacrificio corrispondeva la tranquilla coscienza di chi sa di percorrere “la diritta via”, verso l’unica cosa che realmente conti: la pace dell’anima e il raggiungimento della salvezza eterna? Che cosa possiamo dire all’uomo contemporaneo, illuso da false immagini di bene, sedotto da feticci ripugnanti che non sa riconoscere come tali, istupidito da un uso quotidiano d’una tecnologia futile e alienante, ingannato e tradito – ciò che è peggio di tutto il resto – dalla generazione dei padri, i quali gli hanno trasmesso la vita, ma senza l’amore per la vita, e gli hanno dato il pessimo esempio d’una esistenza spesa all’insegna dell’egoismo narcisista e del diabolico consumismo?
In altri termini, la domanda che ci stiamo ponendo è la seguente: come mai uomini grandi, dalla mente acutissima e dal cuore generoso, per secoli e secoli, non hanno incontrato difficoltà particolarmente rilevanti nell’abbandonarsi alla fede in Dio, alla certezza del Suo amore per noi e alla gioia del nostro per lui; come mai, pur avendo avuto, moltissimi di noi almeno, lo splendido esempio dei genitori o dei nonni che vivevano con semplicità, con dedizione, con onestà, con laboriosità, la loro fede in Dio, e trasmettevano tali valori positivi alle nuove generazioni: come mai, a un certo punto, questo circuito virtuoso si è interrotto, e ha fatto la comparsa un nuovo tipo umano, incredulo, arrogante, incosciente, inconsapevole, narcisista, potenzialmente distruttivo, il quale, come un bambino viziato, minaccia ora di distruggere ogni cosa, dentro di sé e intorno a sé, perché ha perso l’equilibrio esistenziale, ha smarrito ogni punto di riferimento, e se ne va intorno a casaccio, come un pazzo o un ubriaco, fracassando e calpestando tutto ciò che incontra sul suo cammino, aggravando, con le sue intemperanze, l’angoscia profonda che lo attanaglia?
Innanzitutto, partiamo da un dato di fatto: chiaro, evidente, incontrovertibile: la difficoltà vera, per l’essere umano, non è quella di credere, ma quella di non credere. Tutte le civiltà che conosciamo, tutti i popoli che sono passati sulla faccia della terra, hanno creduto e albergato in sé un vivo sentimento religioso (tranne in pochi casi, e precisamente nelle epoche di grave decadenza sociale, culturale e spirituale). Gli antropologi e gli etnologi positivisti e materialisti sono andati letteralmente a caccia di qualche popolo senza Dio, magari di qualche minuscola tribù smarrita nella fitta foresta equatoriale, oppure fra i ghiacci polari: ma non l’hanno trovata. A un certo punto, verso la metà dell’Ottocento, improvvisamente hanno cantato vittoria: Ecco, ecco, lo abbiamo trovato! Secondo loro, gli abitanti delle isole meridionali dell’arcipelago della Terra del Fuoco, Yamana, Yaghan ed Alakaluf, non avevamo la nozione di Dio. Ma non era affatto vero: successivi studi hanno dimostrato la perfetta falsità di una tale opinione; quei popoli credevano in Dio, perfino in un Dio supremo, personale e creatore (Wataineuwa); l’equivoco era nato dai pregiudizi di Darwin, capitato per primo in quei luoghi, e soprattutto dalla superficialità e dalla tendenziosità dei successivi studiosi, i quali non avevano saputo cattivarsi la fiducia degli Indiani, che si erano guardati bene dal rivelare agli Europei le loro credenze più intime e sacre.
Dunque: nessun popolo è mai vissuto senza Dio; nessun uomo, come noi lo conosciamo, ha mai ignorato il richiamo del divino. Tutte le antiche sepolture, gli arredi funebri, le più antiche statuette conosciute, le pitture rupestri, i giganteschi templi e gli osservatori megalitici, attestano il richiamo di Dio e la sete di Dio dell’anima umana. La religione non è, come vorrebbe la vulgata marxista, una invenzione di preti astuti e avidi di potere, per sottomettere e sfruttare popoli ignari, ma un fatto strutturale, originario, qualificante di tutte le comunità umane, in tutti i livelli del loro sviluppo, da quello tribale fondato sulla caccia, la pesca e la raccolta dei frutti spontanei, a quello delle civiltà più evolute spiritualmente e tecnologicamente, creatrici di poemi, di opere d’arte, di costruzioni politiche complesse, culminate nella fondazione degli imperi. E nulla vi è, nel sentimento religioso, che ripugni alla sana ragione. All’amico Antonio Ranieri che osservava come sia impossibile, all’uomo moderno, credere ancora in Dio, senza fare torto alla propria ragione, Leopardi, il grande poeta ateo e materialista, osservava pensosamente - ed è l’ultima testimonianza che abbiamo della sua vita mortale, perché pochi giorni dopo sarebbe morto -: Eppure la ragione non ha impedito a uomini grandi di credere. Poi, mentre guardava fuori dalla finestra la pioggia cadere, era rimasto in silenzio, e non aveva più aggiunto parola.
Dunque, se vogliamo collocare la questione della fede in una giusta prospettiva, non dobbiamo chiederci cosa impedisca all’uomo di credere, ma cosa lo porti a non credere, cioè a porsi in contrasto con una tendenza profonda della sua natura di uomo. E qui ci sembra che le cause fondamentali siano due: l’arroganza, propria del Logos moderno, che non vuol riconoscere niente e nessuno al di sopra di se stesso; e il venir meno dell’esempio della generazione adulta, sia nelle famiglie, sia nella scuola, sia negli stessi sacerdoti, molti dei quali, affascinati e ottenebrati dalle tendenze moderniste e progressiste oggi potentissime dentro la Chiesa, non indirizzano più le anime verso la dimensione della vita soprannaturale, ma le respingono nell’orizzonte del finito, e, in cambio dell’acqua di vita eterna, promessa da Gesù alla samaritana, somministrano ai fedeli un’acqua solo terrena, che sul momento inebria e in apparenza tonifica, ma poi lascia un gusto amarissimo e infine conduce alla morte. È una verità talmente semplice, che quasi ci si vergogna ad enunciarla; pure, viviamo in un tempo di così profondo ottenebramento della retta ragione (e non di quella sua diabolica contraffazione, che è la ragione illuminista, gonfia di superbia e di livore antireligioso): il santo esempio dei genitori, dei nonni, delle maestre, dei sacerdoti, il modello di semplicità, purezza e mansuetudine da essi rappresentato; e, accanto ad esso, l’esempio dei retti uomini di cultura, i quali, se pure non sono esplicitamente religiosi, certo non deridono, né insultano il sacro (come fanno i vari Odifreddi che oggi imperversano), ma guardano ad esso con attenzione e con profondo rispetto, tutto ciò avvia naturalmente il fanciullo a corroborarsi in un orizzonte di fede, e a trovare conferme, nella educazione e nella pratica religiosa, a quella sete di Dio che tutte le creature umane, come abbiamo visto, naturalmente provano. Innaturale è, semmai, sopprimere questo istinto primario, questa assoluta necessità dell’anima.
Quale danno incommensurabile fanno quei genitori che negano ai figli una educazione religiosa, Battesimo compreso; quegli insegnanti che irridono le pratiche religiose, e le relegano nel gran deposito delle favole e delle ingenue credenze di un tempo passato; e quei sacerdoti e quei teologi, horribile dictu, i quali, pensando di essere “moderni” e “aperti”, invece di offrire la certezza vivificante della parola di Dio, sanno solo insinuare dubbi, sollevare perplessità, avanzare critiche, demolire certezze, mettere in crisi speranze; finché, con la scusa di cercare un “cristianesimo adulto”, hanno strappato via dalla pianta del Vangelo tutti i rami più belli, e, infine, hanno disseccato le radici stesse: e tutto quel che essi hanno da offrire è una religione vaga e generica, disossata, insipida, buona per tutte le stagioni e per tutti i gusti, condivisibile da qualunque “credente”, di qualunque religione, anche la più falsa e lontana dalla Verità divina E tutto questo in nome del “dialogo”, dell’ecumensimo, del pluralismo, della tolleranza, della libertà di pensiero, della “fratellanza universale”: quale confusione di concetti, quale prostituzione di parole, quale oscuramento dell’intelligenza e del buon senso più elementare! Sarebbe meglio, per essi, che venisse legata loro al collo una macina da mulino e che fossero gettati nel profondo del mare (cfr. Matteo, 18, 6): con queste parole tremende Gesù stesso ha stigmatizzato il peccato inescusabile contro lo Spirito Santo, che seminano i cattivi maestri del gregge e tutti coloro i quali turbano, con vani discorsi e con sofisticherie d’ogni genere, la sana, schietta fede delle persone semplici, allontanando le anime da Dio!
La verità religiosa di cui parliamo, infatti, non è una nozione astratta e generica, ma una fede ben precisa, quella che abbiamo ricevuto a suo tempo e che è attestata dai Profeti, dal Vangelo di Gesù Cristo, dai Santi, dai Padri della Chiesa, da alcuni dei più grandi scrittori, artisti e pensatori dell’umanità, nonché dai nostri bravi e cari nonni: persone buone, oneste, lavoratrici, dedite al culto della famiglia. Perché c’è poco da fare: se cade il senso di Dio, cade anche la morale: e le cronache quotidiane ce lo mostrano con la massima evidenza. Se Dio non c’è, l’uomo diventa il padrone assoluto: un padrone tirannico, avido, crudele, perché non v’è più nulla che lo tenga in rispetto…
Perché la fede è diventata così difficile, oggi?
di Francesco Lamendola
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