Appello alla preghiera
perché Papa Francesco confermi la prassi immutabile della Chiesa
riguardo alla verità dell’indissolubilità del matrimonio
Dopo la pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Amoris laetitia in alcune chiese particolari sono state pubblicate norme applicative e interpretazioni, secondo le quali i divorziati che hanno contratto un matrimonio civilmente con un nuovo partner, nonostante il vincolo sacramentale che continua a legarli ai loro legittimi coniugi, possono essere ammessi ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia senza adempiere il dovere Divinamente stabilito di interrompere la violazione del loro vincolo matrimoniale sacramentale.
La convivenza more uxorio con una persona che non è il legittimo coniuge, rappresenta allo stesso tempo un’offesa all’Alleanza della salvezza, di cui il Matrimonio sacramentale è segno (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 2384), e un’offesa al carattere nuziale del mistero eucaristico stesso. Papa Benedetto XVI ha rilevato una tale correlazione: “L’Eucaristia corrobora in modo inesauribile l’unità e l’amore indissolubili di ogni Matrimonio cristiano. In esso, in forza del sacramento, il vincolo coniugale è intrinsecamente connesso all’unità eucaristica tra Cristo sposo e la Chiesa sposa(cfr. Ef 5,31-32)” (Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, 27).
Pastori della Chiesa che tollerano o persino autorizzano – sia pure in casi singoli o eccezionali – i divorziati cosiddetti “risposati” a ricevere il sacramento dell’Eucaristia, senza che essi abbiano la “veste nuziale”, prescritta da Dio stesso nella Sacra Scrittura (cfr. Mt 22, 11 e 1 Cor 11, 28-29) in vista di una degna partecipazione alla cena nuziale eucaristica, collaborano in tal modo ad una continua offesa al vincolo del sacramento del matrimonio, al vincolo nuziale tra Cristo e la Chiesa e al vincolo nuziale tra Cristo e l’anima che riceve il Suo Corpo eucaristico.
Diverse chiese particolari hanno emanato o raccomandato orientamenti pastorali con tale o simile formulazione: “Se la scelta di vivere in continenza è difficile da praticare per la stabilità della coppia, non si esclude la possibilità di accedere alla Penitenza e all’Eucarestia. Ciò significa una qualche apertura, come nel caso in cui vi è la certezza morale che il primo matrimonio era nullo, ma non ci sono le prove per dimostrarlo in sede giudiziaria. Non può essere altri che il confessore, ad un certo punto, nella sua coscienza, dopo tanta riflessione e preghiera, a doversi assumere la responsabilità davanti a Dio e al penitente e a chiedere che l’accesso ai sacramenti avvenga in maniera riservata”.
I menzionati orientamenti pastorali contraddicono l’universale tradizione della Chiesa cattolica, la quale per mezzo dell’ininterrotto ministero Petrino dei Sommi Pontefici è stata sempre custodita fedelmente e senza ombra di dubbio o di ambiguità sia nella dottrina sia nella prassi per ciò che riguarda la verità dell’indissolubilità del matrimonio.
Le summenzionate norme ed orientamenti pastorali contraddicono inoltre nella prassi le seguenti verità e dottrine che la Chiesa cattolica ha insegnato ininterrottamente ed in modo sicuro.
L’osservanza dei Dieci Comandamenti di Dio, ed in particolare del Sesto Comandamento, obbligano ogni persona umana senza eccezione sempre e in qualsiasi situazione. In questa materia non si possono ammettere casi o situazioni eccezionali né parlare di un “ideale più pieno”. San Tommaso d’Aquino dice: “I precetti del decalogo racchiudono l’intenzione stessa del legislatore, cioè di Dio. Quindi i precetti del decalogo non ammettono alcuna dispensa” (Summa theol., 1-2, q. 100, a. 8c).
Le esigenze morali e pratiche, derivanti dall’osservanza dei Dieci Comandamenti di Dio e in particolare dell’indissolubilità del matrimonio, non sono semplici norme o leggi positive della Chiesa, ma l’espressione della santa volontà di Dio. Conseguentemente non si può parlare a questo proposito del primato della persona sulla norma o sulla legge, ma si deve invece parlare del primato della volontà di Dio sulla volontà della persona umana peccatrice affinché questa sia salvata, compiendo con l’aiuto della grazia la volontà di Dio.
Credere nell’indissolubilità del matrimonio e contraddirla con i propri atti, considerandosi addirittura allo stesso tempo esente dal peccato grave e tranquillizzando la propria coscienza con la sola fede nella misericordia Divina, rappresenta un auto-inganno, contro il quale ammoniva già Tertulliano, un testimone della fede e della prassi della Chiesa dei primi secoli: “Alcuni dicono che per Dio è sufficiente che si accetti la Sua volontà col cuore e coll’anima, anche se i fatti non siano corrispondenti: così pensano, di peccare, potendo mantenere per altro integro il principio di fede e di timor di Dio: ciò è perfettamente lo stesso che se uno pretendesse di mantenere un principio di castità, violando e corrompendo la santità e l’integrità del vincolo matrimoniale” (Tertulliano, De paenitentia 5, 10).
L’osservanza dei Comandamenti di Dio, ed in particolare dell’indissolubilità del matrimonio, non può essere presentata come un ideale più pieno da raggiungere secondo il criterio del bene possibile o fattibile. Si tratta qui invece di un obbligo da Dio stesso inequivocabilmente comandato, la cui inosservanza comporta secondo la Sua parola la condanna eterna. Dire ai fedeli il contrario significherebbe ingannarli e spingerli a disobbedire alla volontà di Dio, mettendo in tale modo in pericolo la loro salvezza eterna.
Ad ogni uomo Dio dà l’aiuto per osservare i Suoi Comandamenti, qualora egli Lo chieda rettamente, come la Chiesa lo ha infallibilmente insegnato: “Dio non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare quello che puoi, e a chiedere ciò che non puoi, e ti aiuta perché tu possa” (Concilio di Trento, sess. 6, cap. 11) e “Se qualcuno dice che anche per l’uomo giustificato e costituito in grazia i comandamenti di Dio sono impossibili da osservare: sia anatema” (Concilio di Trento, sess. 6, can. 18). Seguendo questa dottrina infallibile san Giovanni Paolo II insegnava: “L’osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai, però, impossibile. È questo un insegnamento costante della tradizione della Chiesa” (Enciclica Veritatis splendor, 102) e “Tutti i coniugi, secondo il disegno divino, sono chiamati alla santità nel matrimonio e questa alta vocazione si realizza in quanto la persona umana è in grado di rispondere al comando divino con animo sereno, confidando nella grazia divina e nella propria volontà” (Esortazione Apostolica Familiaris consortio, 34).
L’atto sessuale al di fuori di un valido matrimonio, ed in particolare l’adulterio, è oggettivamente sempre un peccato grave; nessuna circostanza e nessun fine possono renderlo ammissibile e gradito agli occhi di Dio. San Tommaso d’Aquino afferma che il Sesto Comandamento è obbligante anche nel caso che con un atto d’adulterio si potesse salvare un paese dalla tirannia (De Malo, q. 15, a. 1, ad 5). San Giovanni Paolo II insegnava questa verità perenne della Chiesa: “I precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per la «creatività» di una qualche determinazione contraria. Una volta riconosciuta in concreto la specie morale di un’azione proibita da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge morale e di astenersi dall’azione che essa proibisce” (Enciclica Veritatis splendor, 67).
Un’unione adultera di divorziati civilmente “risposati”, “consolidata” come si dice nel tempo e caratterizzata da una cosiddetta “provata fedeltà” nel peccato di adulterio, non può cambiare la qualità morale del loro atto di violazione del vincolo sacramentale matrimoniale, cioè del loro adulterio, il quale rimane sempre un atto intrinsecamente cattivo. Una persona che ha la vera fede e il timore filiale di Dio non può mai avere “comprensione” verso questi atti intrinsecamente cattivi, quali sono gli atti sessuali al di fuori di un matrimonio valido, poiché questi atti offendono Dio.
L’ammissione dei divorziati “risposati” alla Santa Comunione costituisce nella prassi una dispensa implicita dall’osservanza del Sesto Comandamento. Nessuna autorità ecclesiastica ha il potere di concedere una tale dispensa implicita nemmeno in un unico caso o in una situazione eccezionale e complessa o allo scopo di raggiungere un fine buono (come ad esempio l’educazione della prole comune nata in un’unione adultera), invocando per la concessione di una tale dispensa il principio della misericordia, della “via caritatis”, della cura materna della Chiesa, affermando in questo caso di non voler porre tante condizioni alla misericordia. San Tommaso d’Aquino diceva: “Per nessuna utilità qualcuno dovrebbe commettere adulterio (pro nulla enim utilitate debet aliquis adulterium committere)” (De Malo, q. 15, a. 1, ad 5).
Una normativa che permette la violazione del Sesto Comandamento di Dio e del vincolo matrimoniale sacramentale anche solo in un unico caso o in casi eccezionali, presumibilmente al fine di evitare un cambiamento generale della normativa canonica, comporta sempre, nonostante tutto, una contraddizione con la verità e la volontà di Dio. Di conseguenza è psicologicamente fuorviante e teologicamente erroneo parlare in questo caso di una normativa restrittiva o di un male minore in contrasto con una normativa di carattere generale.
Essendo il matrimonio valido dei battezzati un sacramento della Chiesa e, per sua natura, una realtà di carattere pubblico, un giudizio soggettivo della coscienza sulla invalidità del proprio matrimonio che contrasti con la sentenza definitiva del tribunale ecclesiastico, non può comportare conseguenze per la disciplina sacramentale, poiché essa ha sempre un carattere pubblico.
La Chiesa, ed in concreto il ministro del sacramento della penitenza, non ha la facoltà di giudicare sullo stato della coscienza del fedele o sulla rettitudine dell’intenzione della coscienza, poiché “ecclesia de occultis non iudicat” (Concilio di Trento, sess. 24, cap. 1). Il ministro del sacramento della Penitenza non è conseguentemente il vicario o il rappresentante dello Spirito Santo che può entrare con la Sua luce nelle pieghe delle coscienze, giacché Dio ha riservato a sé solo l’accesso alla coscienza: “sacrarium in quo homo solus est cum Deo” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 16).
Il confessore non può arrogarsi la responsabilità davanti a Dio e al penitente di dispensarlo implicitamente dall’osservanza del Sesto Comandamento e dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale per mezzo dell’ammissione alla Santa Comunione. La Chiesa non ha la facoltà di far derivare conseguenze riguardanti la disciplina sacramentale in foro esterno, a partire e sulla base di una presunta convinzione, in coscienza, della invalidità del proprio matrimonio nel foro interno.
Una prassi che permette alle persone civilmente divorziate, cosiddette “risposate”, di ricevere i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, nonostante la loro intenzione di continuare a violare in futuro il Sesto Comandamento e il loro vincolo matrimoniale sacramentale, sarebbe contraria alla verità Divina ed estranea al perenne senso della Chiesa cattolica e alla provata consuetudine ricevuta, fedelmente custodita dai tempi degli Apostoli e ultimamente confermata in modo sicuro da san Giovanni Paolo II (cfr. Esortazione Apostolica Familiaris consortio, 84) e da Papa Benedetto XVI (cfr. Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, 29).
La prassi menzionata sarebbe per ogni uomo ragionevole una rottura evidente con la prassi apostolica e perenne della Chiesa e non ne rappresenterebbe uno sviluppo nella continuità. Contro una tale evidenza non c’è argomento valido: contra factum non valet argumentum. Una tale prassi pastorale sarebbe una contro-testimonianza dell’indissolubilità del matrimonio e una sorta di collaborazione da parte della Chiesa nella diffusione di quella “piaga del divorzio”, di cui ha parlato il Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et spes, 47).
La Chiesa insegna per mezzo di quello che fa, e deve fare quello che insegna. Sull’azione pastorale riguardo alle persone che vivono in unioni irregolari san Giovanni Paolo II diceva: “L’azione pastorale tenderà a far comprendere la necessità della coerenza tra la scelta di vita e la fede che si professa, e cercherà di far quanto è possibile per indurre tali persone a regolare la propria situazione alla luce dei principi cristiani. Pur trattandole con grande carità, e interessandole alla vita delle rispettive comunità, i pastori della Chiesa non potranno purtroppo ammetterle ai sacramenti” (Esortazione Apostolica Familiaris consortio, 82).
Un autentico accompagnamento delle persone che si trovano in uno stato oggettivo di peccato grave e un corrispondente cammino di discernimento pastorale non possono fare a meno di annunciare con carità a tali persone tutta la verità della volontà di Dio, perché esse si pentano con tutto il cuore dell’atto peccaminoso di convivere more uxorio con una persona che non è il proprio legittimo coniuge. Allo stesso tempo, un autentico accompagnamento e discernimento pastorale deve incoraggiare queste persone affinché, con l’aiuto della grazia di Dio, cessino di commettere tali atti in futuro. Gli Apostoli e tutta la Chiesa, durante duemila anni, hanno sempre annunciato agli uomini tutta la verità di Dio in ciò che riguarda il Sesto Comandamento e l’indissolubilità del matrimonio, seguendo l’ammonizione di san Paolo Apostolo: “Non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio” (At 20, 27).
La prassi pastorale della Chiesa concernente il matrimonio e il sacramento dell’Eucaristia ha tale importanza e tali conseguenze decisive per la fede e per la vita dei fedeli, che la Chiesa, per restare fedele alla Parola rivelata di Dio, deve evitare in questa materia ogni ombra di dubbio e confusione. San Giovanni Paolo II ha formulato questa perenne verità della Chiesa: “Intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell’incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre – ripeto – sono le une e le altre – i sacramenti e le coscienze –, ed esigono da parte nostra di essere servite nella verità. Questa è la ragione della legge della Chiesa” (Esortazione Apostolica Reconciliatio et Paenitentia, 33).
Nonostante le ripetute dichiarazioni sull’immutabilità della dottrina della Chiesa riguardo al divorzio, numerose chiese particolari ormai lo accettano tramite la prassi sacramentale, e tale fenomeno sta crescendo. Solo la voce del Supremo Pastore della Chiesa può definitivamente impedire che in futuro la situazione della Chiesa dei nostri giorni possa essere caratterizzata dalla seguente espressione: “Tutto il mondo gemette e si accorse con stupore di aver accettato il divorzio nella prassi” (ingemuit totus orbis, et divortium in praxi se accepisse miratus est), rievocando un analogo detto con quale san Girolamo aveva caratterizzato la crisi ariana.
Visto un tale pericolo reale e l’ampia diffusione all’interno della vita della Chiesa della piaga del divorzio, che è implicitamente legittimato dalle menzionate norme ed orientamenti applicativi dell’Esortazione Apostolica Amoris laetitia; visto che le suddette norme ed orientamenti in alcune chiese particolari sono divenuti nel nostro mondo globalizzato di dominio pubblico; vista inoltre l’inefficacia di numerose suppliche fatte a Papa Francesco da parte sia dei fedeli che dei Pastori della Chiesa, siamo costretti a fare questo urgente appello alla preghiera. Come successori degli Apostoli ci spinge l’obbligo di alzare la voce quando sono in pericolo le cose più sacre della Chiesa e la salvezza eterna delle anime.
Le seguenti parole con le quali san Giovanni Paolo II ha descritto le critiche ingiuste contro la fedeltà del Magistero della Chiesa, siano per tutti i Pastori della Chiesa, in questi tempi difficili, una luce e una spinta ad una azione sempre più unita: “Non di rado, infatti, il Magistero della Chiesa viene rimproverato di essere ormai superato e chiuso alle istanze dello spirito dei tempi moderni; di svolgere un’azione nociva per l’umanità, anzi per la Chiesa stessa. Mantenendosi ostinatamente sulle proprie posizioni – si dice –, la Chiesa finirà per perdere in popolarità e i credenti si allontaneranno sempre più da essa” (Lettera alle famiglie, Gratissimam sane, 12).
Tenendo conto che l’ammissione dei divorziati cosiddetti “risposati” ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, senza che sia loro richiesto il compimento dell’obbligo di vivere in continenza, costituisce un pericolo per la fede e per la salvezza delle anime e un’offesa alla santa volontà di Dio; tenendo inoltre conto che tale pratica pastorale non può essere mai l’espressione della misericordia, della “via caritatis” o del senso materno della Chiesa verso le anime peccatrici, facciamo con profonda sollecitudine pastorale questo urgente appello alla preghiera perché Papa Francesco revochi in modo inequivoco i citati orientamenti pastorali già introdotti in alcune chiese particolari. Un tale atto del Capo visibile della Chiesa conforterebbe i Pastori e i fedeli secondo il mandato che Cristo, il Supremo Pastore delle anime, ha dato all’apostolo Pietro e, tramite lui, a tutti suoi successori: “Conferma i tuoi fratelli!” (Lc 22, 32).
Le seguenti parole di un santo Papa e di santa Caterina da Siena, dottore della Chiesa, siano per tutti nella Chiesa dei nostri giorni luce e conforto: “L’errore cui non si resiste, viene approvato. La verità che non viene difesa, viene oppressa” (Papa san Felice III, + 492). “Santo Padre, Dio vi ha eletto per colonna della Chiesa, acciocché siate strumento per estirpare l’eresia, confondere le bugie, esaltare la Verità, dissolvere le tenebre e manifestare la luce” (Santa Caterina da Siena, + 1380).
Quando Papa Onorio I (625 – 638) adottò una posizione ambigua di fronte alla diffusione della nuova eresia del monotelismo, San Sofronio, Patriarca di Gerusalemme, inviò un vescovo della Palestina a Roma dicendo queste parole: “Va' alla Sede Apostolica, dove sono le fondamenta della santa dottrina, e non cessare di pregare finché la Sede Apostolica non condanni la nuova eresia”. La condanna è stata poi attuata nel 649 ad opera del santo papa e martire Martino I.
Formuliamo questo appello alla preghiera nella consapevolezza che se non lo facessimo, compiremmo un atto di omissione. È Cristo, Verità e Pastore Supremo, che ci giudicherà quando apparirà. A Lui chiediamo con umiltà e fiducia di remunerare tutti i pastori e tutte le pecore con la corona immarcescibile della gloria (cfr. 1 Pt. 5, 4).
In spirito di fede e con affetto filiale e devoto eleviamo la nostra preghiera per Papa Francesco: “Oremus pro Pontifice nostro Francisco: Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius. Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam Meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam”.
Come mezzo concreto raccomandiamo di pregare ogni giorno questa antica preghiera della Chiesa o una parte del santo rosario con l’intenzione che Papa Francesco revochi in modo inequivoco quelli orientamenti pastorali che permettono ai cosiddetti divorziati “risposati” di ricevere i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, senza che essi compiano l’obbligo di vivere in continenza.
18 gennaio 2017, antica festa della Cattedra di san Pietro a Roma
+ Tomash Peta, Arcivescovo Metropolita dell’arcidiocesi di Maria Santissima in Astana
+ Jan Pawel Lenga, Arcivescovo-Vescovo emerito di Karaganda
+ Athanasius Schneider, Vescovo
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.