Sul saggio di Danilo Quinto, “Disorientamento Pastorale” – Recensione di don Antonio Livi
(MB. Danilo Quinto è stato per un ventennio militante radicale, collaboratore di primo piano di Marco Pannella, tesoriere del Partito Radicale per il quale ha raccolto decine di milioni di euro. Nel 2003,la conversione alla fede cristiana. Contro di lui si scatena il potere : e viene isolato, ridotto in povertà, gli vengono negati i diritti per il lavoro prestato per vent’anni come dirigente, viene perseguitato anche giudiziariamente – perché invece di tacere, dice e della “ideologia di morte e dissoluzione” bandita da Marco Pannella, le sopraffazioni, gli abusi, la violenza ideologica e morale cui ha assistito. Il vuoto che si fa’ attorno a lui – anche nel mondo politico dove le sua capacità di raccoglitore di fondi e la sua intelligenza strategica dovrebbero aprirgli le porte, e persino nel mondo cattolico – la dicono lunga sulla dimensione del potere radicale in Italia, che supera enormemente l’elettorato del partitino.
Ed ora, ecco il peggio: il neoconvertito Danilo Quinto, invece di trovare nella Chiesa la casa avita, trova “l’ospedale da campo”, aperto a tutti i venti, pullolante di infezioni e di miasmi, di Francesco – quel Papa che dichiara la Bonino “grande italiana” e di un Vaticano che loda “la eredità umana e spirituale importante” di Pannella; un ospedale da campo dove non si può vivere, se non si è molto, ma molto malati di tutti i virus ideologici alla moda – precisamente quelli da cui Danilo è risanato.
E’ il sottotitolo del suo ultimo saggio: Danilo Quinto, Disorientamento pastorale, Casa Editrice Leonardo da Vinci,265 pagine, 20 euro. I titoli dei capitoli sono per sé eloquenti: Una fabbrica di impedimento ai sacramenti? – Ignorare il dogma – La glorificazione dell’eresia – la misericordia ad etti – Perché rendere omaggio a peccatori impenitenti? E anzitutto: Si possono criticare le scelte pastorali del Papa?
Sì, si può, dice nella introduzione il teologo e amico monsignor Antonio Livi; si deve, di fronte al disorientamento pastorale” prodotto da Bergoglio. Qui di seguito, la recensione che d don Livi ha scritto per il nostro sito)
Il cardinale prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Müller, si è dichiarato sorpreso per il fatto che quattro suoi confratelli (i cardinali Carlo Caffarra, Walter Brundmüller, Raymond Burke e Joachim Meisner) abbiano scritto al Papa chiedendogli di chiarire certi “dubia”, ossia quei punti di dottrina che l’esortazione apostolica Amoris Laetitia ha volutamente lasciato nell’ambiguità, provocando interpretazioni del tutto diverse tra i teologi e soprattutto applicazioni pastorali contrastanti tra i vescovi e quindi incertezza nella catechesi e nell’amministrazione dei sacramenti.
L’eco delle accesissime discussioni che non accennano a placarsi ha sconvolto l’opinione pubblica cattolica, provocando inevitabilmente quello che io chiamo un gravissimo “disorientamento pastorale”. E questo è appunto il titolo che ho dato al libro, pubblicato presso la mia casa editrice, che raccoglie, con il diligente lavoro di documentazione critica realizzato da Danilo Quinto, le tante confusionarie iniziative (documenti formali, discorsi occasionali, interviste ai giornali, anche ai più anticattolici) di papa Francesco e dei suoi suggeritori nonché interpreti ufficiali, ivi compresi il cardinale Walter Kasper, padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, e il priore della comunità di bose, Enzo Bianchi.
Al centro della documentazione raccolta da Quinto campeggiano la vicenda dei due Sinodi dei vescovi sulla famiglia e l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia, con la quale papa Bergoglio ha voluto trarre le conclusioni (già da lui stesso ampiamente preannunciate) della consultazione dell’episcopato mondiale sul modo di applicare alle circostanze sociale del mondo attuale le indicazioni morali e le prescrizioni canoniche riguardanti i sacramenti del Matrimonio, della Penitenza e dell’Eucaristia che avevano dato i precedenti pontefici del post-concilio: prima Paolo VI con l’Humanae vitae, poi Giovanni Paolo II con la Veritatis splendor, con la Familiaris consortio e con il nuovo Codice di diritto canonico. Proprio perché riguarda la dottrina cattolica sui sacramenti – che implica i dogmi sulla grazia santificante e sull’azione redentrice di Cristo – l’ambiguità (evidentemente voluta) dell’Amoris Laetitia ha provocato quella che io chiamo “disorientamento pastorale” e che tocca nell’essenziale la fede dei cattolici nella Rivelazione e nella Redenzione. Non capisco allora perché il cardinale Müller venga a dire adesso, negando l’evidenza di tanti sintomi di una gravissima crisi nella fede che si avvertono nel popolo dei credenti, che a lui non sembra che l’Amoris Laetitia abbia provocato “problemi di fede”.
Il “disorientamento pastorale”, insomma, c’è e costituisce l’attentato più diretto alla missione stessa della Chiesa, che Giovanni XXIII definiva giustamente Mater et magistra perché la ragione della sua esistenza consiste proprio nell’orientamento pastorale dei fedeli mediante l’evangelizzazione. Consapevole di questa crisi, io, come credente (tenuto a professare anche pubblicamente la fede) e come sacerdote in cura d’anime (tenuto a indirizzare i fedeli ai documenti dell’autentica dottrina dogmatica e morale), mi sono sempre sentito impegnato in coscienza a intervenire in tutti i modi possibili, avvalendomi della mia specifica competenza scientifica, che è quella della logica epistemica e quindi della teologia fondamentale. Non ho mai preteso di fare indebite pressioni sul Papa (non è compito di nessuno nella Chiesa, tanto meno lo è per me) e nemmeno ho inteso partecipare alla discussione tra conservatori e progressisti, prendendo posizione a favore degli uni o degli altri, ma ho voluto solo contribuire a ri-orientare l’opinione pubblica cattolica. Tra i miei interventi più recenti in questa direzione segnalo la pubblicazione di due volumi collettanei: uno, intitolato Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia (con interventi anche di Stefano Carusi e di Enrico Maria Radaelli) e l’altro intitolato Inscindibili. Giustizia, verità e misericordia: se mancano le prime due, l’ultima non è tale (con interventi anche del cardinale Carlo Caffarra e di Nicola Bux).
In precedenza ero intervenuto scrivendo delle presentazioni per alcuni libri utili all’opera di ri-orientamento dottrinale, a cominciare da quello che raccoglie il magistero sulla liturgia di un protagonista del concilio Vaticano II, il cardinale Giuseppe Siri, per finire con quelli pubblicati da altri studiosi di buon criterio dottrinale, tra i quali Enrico Maria Radaelli.
Le osservazioni critiche contenute in questo libro di Danilo Quinto, come negli altri che ho prima citato, non pretendono di essere recepite come verità assoluta. Sono opinioni ben argomentate e certamente fondate sulla fede della Chiesa, ma sono pur sempre mere opinioni personali, rispondenti a determinati punti di vista, e per questo sono espresse senza la presunzione di poter esigere, da parte di tutti, quel consenso che, in materia di fede, può essere richiesto solo dagli enunciati che ripropongono, sine glossa, quanto è contenuto nella rivelazione cristiana e ha la garanzia ecclesiale delle definizioni dogmatiche.
Dunque, le tesi di Danilo Quinto (e anche le mie, come dopo dirò) sono incontrovertibili solo quando si rifanno direttamente ai dogmi della dottrina cristiana (per deprecare giustamente che siano troppo spesso contraddetti o dimenticati); invece, in tutti gli altri casi esprimono soltanto delle valutazioni opinabili sull’opportunità di talune iniziative pastorali o anche sul comportamento di taluni personaggi del clero e del laicato cattolico che innegabilmente suscitano scandalo e seminano confusione in mezzo al Popolo di Dio. Si tratta, ripeto, di mere opinioni, ma di opinioni che io – anche quando non le condivido del tutto – ritengo assolutamente legittime, e per questo le presento qui in questo libro come negli altri che ho citato più sopra. Anzi, sono certo che queste opinioni, vista la dialettica dottrinale in corso, siano utili per contrastare le opinioni illegittime.
Insisto a precisare (perché non è un discorso usuale ai nostri giorni, visto il clima di fanatismo settario che regna in ogni ambito della cultura) che hanno il valore di mere opinioni anche le tesi espresse con convinzione e passione: infatti, la “forma” di ogni giudizio è necessariamente la certezza, ma la “materia” può essere tale da non consentire un’affermazione apodittica (5). E qui la “materia” delle valutazioni fatte da Quinto è quasi sempre la pastorale, ossi la prassi messa in atto pubblicamente dagli esponenti della gerarchia ecclesiastica (a partire dal Papa stesso) nell’esercizio delle loro funzioni di magistero, di legislazione canonica, di disciplina del popolo di Dio (clero, religiosi e laicato). Ora, la prassi, per sua natura, non è il dogma, pertanto non è assistita dal carisma dell’infallibilità. È fatta di atti prudenziali, che possono essere o doverosi o liberi, efficaci o inutili, giovevoli o dannosi. Criticare un atto prudenziale è lecito a un fedele della Chiesa cattolica: a patto che costui sia consapevole di esprimere – lui, un semplice fedele – un giudizio di opportunità o di convenienza sui giudizi di opportunità o di convenienza espressi dall’autorità ecclesiastica, che sappiamo non godere in queste materie del carisma dell’infallibilità, ma sappiamo anche di essere forniti dalla Provvidenza della adeguata “grazia di stato”.
Come in precedenza presentai alcuni scritti di Enrico Maria Radaelli dove si denunciano gli equivoci della attuale prassi pastorale, guidata dalla rinuncia al magistero dogmatico, così adesso presento il saggio di Danilo Quinto che mette in luce, con abbondante documentazione, le premesse ideologiche (l’umanesimo ateo) che ispirano questa prassi pastorale. In entrambi i casi, anche quando si criticano atti e discorsi di papa Francesco, queste non vogliono essere azioni di resistenza al governo pastorale della Chiesa, ma criteri di valutazione che possono servire ai fedeli cattolici per ri-orientarsi in questi momenti di confusione, sapendo discernere, alla luce dell’autentico magistero dogmatico e morale della Chiesa, quella che è indubbiamente la verità da credere – in quanto rivelata da Cristo stesso – e quelle che invece sono le scelte di carattere pastorale operate negli ultimi tempi dai Pastori della Chiesa Cattolica, scelte che sono di per sé opinabili, ossia non garantite dal carisma divino dell’infallibilità, e non impegnano perciò i fedeli a un consenso che implichi l’abbandono (teorico o pratico) del dogma.
Una volta chiarito perché difendo le critiche che in questo volume Danilo Quinto rivolge a taluni aspetti dell’azione pastorale di papa Francesco, passo a esporre qual è il mio personale punto di vista sull’attuale momento della vita pastorale della Chiesa. Trattandosi di un punto di vista teologico, ed essendo la teologia l’elaborazione razionale di ipotesi di interpretazione del dogma – è questa la tesi che convintamente sostengo nel mio trattato su Vera e falsa teologia – riconosco volentieri che anch’esso rientra nel novero delle opinioni, motivo per cui nemmeno intendo certamente assumere toni dogmatici. Ma in un altro mio trattato su Le leggi del pensiero ho spiegato esaurientemente la norma di logica epistemica che prima ho enunciato sinteticamente, ossia che l’esternazione di un parere personale può essere fatto con asserzioni chiare e decise (questa è necessariamente la “forma” interiore della certezza che motiva un qualsiasi giudizio), pur nella piena consapevolezza che la “materia” di ciò che si asserisce è relativa, parziale, non definitiva, e dunque aperta a completamenti o anche a rettifiche.
A me sembra assolutamente evidente, in un’ottica di sociologia religiosa e di esperienza pastorale, sulla base di dati largamente condivisi negli ambienti nei quali opero, che il Popolo di Dio sia attualmente disorientato da tante diverse e contrastanti interpretazioni dell’azione pastorale dell’attuale pontefice, a cominciare dagli ambigui pronunciamenti nei riguardi degli omosessuali e dall’apparente consenso nei confronti di esponenti della politica anticristiana (comunisti e massoni), per finire con la convocazione e la direzione dei due sinodi dei vescovi sulla famiglia e la successiva esortazione apostolica Amoris laetitia, volutamente aperta ad applicazioni pastorali in contrasto l’una con l’altra, sia dal punto di vista dei criteri dottrinali che dal punto di vista della prassi consigliata dai vescovi nelle diversi diocesi o da intere conferenze episcopali.
Il fatto che molti, nella Chiesa (oltre naturalmente agli interessati applausi di chi alla Chiesa non crede e la Chiesa da sempre combatte) siano contenti, anzi addirittura entusiasti dell’azione “riformistica” di papa Francesco non è un motivo per negare che il Popolo di Dio sia attualmente molto disorientato: anzi, il prevalente o pressoché egemonico consenso dell’opinione pubblica alle azioni e ai discorsi di papa Francesco fa risaltare ancora di più la sostanziale discontinuità degli indirizzi pastorali del papa attualmente regnante rispetto a quelli dei suoi predecessori (da Paolo VI a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI), oggetto di aspre contestazioni da parte di Pastori e di teologi e oggetto anche di continue campagne denigratorie da parte dei mass media mondiali.
I fedeli cattolici, indipendentemente dal fatto di approvare o di disapprovare certe iniziative di papa Francesco, avvertono tutti, certamente, il disaccordo, anzi la profonda divisione pastorale tra gli stessi Pastori. Gli elementi di fatto per un giudizio circa lo stato di disorientamento della coscienza cattolica ci sono tutti: ma sono dati di fatto rilevati – in modo parziale e contingente – da osservatori sempre molto limitati nelle possibilità di effettuare seri sondaggi di opinione e degli accurati calcoli statistici. Si tratta insomma dell’incertezza, della relatività e della soggettività connaturate alla sociologia della cultura e alla sociologia religiosa, che sono saperi la cui affidabilità scientifica è, nel migliore dei casi, assolutamente scarsa, e nel peggiore dei casi è addirittura nulla.
Ben consapevole di questo limite cognitivo, io parlo dell’attuale problema del “disorientamento pastorale” – delle sue apparenti cause e dei suoi possibili rimedi – con la convinzione di dire cose certamente vere e di fare valutazioni certamente giuste, proponendole, per gli opportuni interventi, a tutti coloro che nella Chiesa sono e si sentono responsabili: ma senza la presunzione di dire le sole cose vere e di fare le sole valutazioni giuste, perché altri punti di vista e altri criteri di valutazione sono altrettanto legittimi. Lungi da me ogni atteggiamento assolutistico, che è tipico della polemica ideologica, che in ambito ecclesiale isterilisce il dibattito tra le persone che hanno a cuore le sorti dell’evangelizzazione, rinchiudendole negli schemi dialettici del progressismo e della conservazione.
Ben altro è il discorso riguardante il contesto storico-dottrinale. Qui non si tratta più di incerti rilevamenti mutuati dalla sociologia, ma di certissimi dati derivanti dalla teologia fondamentale. Si tratta del grande mutamento del paradigma pastorale per cui già il Vaticano II, dopo il celebre discorso inaugurale di papa Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, ha deciso di privilegiare il linguaggio parenetico su quello dogmatico, il tono conciliante su quello polemico, il ricorso alle categorie filosofiche dell’esistenzialismo e dello storicismo piuttosto che a quelle della metafisica.
Il risultato è stato che in alcuni documenti del Concilio (non in tutti, e nemmeno nella maggior parte di essi) il nuovo linguaggio del Magistero è risultato oggettivamente ambiguo, provocando quella ridda di opposte interpretazioni che tanto ha diviso la Chiesa cattolica negli ultimi cinquant’anni.
Alcuni esponenti dell’episcopato, sotto la pressione della pubblicistica prodotta in quegli anni dalla maggior parte dei teologi (a cominciare da quelli che al Concilio avevano partecipato come “periti”), sostennero l’interpretazione “progressistica” (irenistica, storicistica, antimetafisica) dei testi conciliari, soprattutto per quanto riguarda, da una parte, la libertà religiosa, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, e dall’altra la collegialità e la sinodalità nel governo della Chiesa universale.
Altri esponenti dell’episcopato, anch’essi ispirati da una minoranza di teologi anti-modernisti (convinti di dover resistere all’abbandono delle direttive dottrinali di san Pio X e di Pio XII), interpretarono in blocco i documenti conciliari come espressione di tendenze neo-modernistiche e finirono per non riconoscerne l’autorità propriamente magisteriale. Si tratta di quella opposta “ermeneutica del Concilio” che papa Benedetto XVI denominò «ermeneutica della rottura» in opposizione all’«ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa», chiedendo a tutti (inutilmente) di adottare questa e di respingere quella.
La Chiesa post-conciliare soffre ancora di questa divisione nell’interpretazione del messaggio fondamentale del Concilio, e invano i papi che si sono succeduti sul soglio pontificio dopo la chiusura della grande assemblea nell’anno 1965 (da Paolo VI a Giovanni Paolo II, e poi da questi a Benedetto XVI) hanno tentato di sanare la frattura con insegnamenti e provvedimenti autorevoli (ricordiamo in particolare, di Paolo VI, l’enciclica Humane vitae; di Giovanni Paolo II la promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico e del Catechismo della Chiesa Cattolica, nonché le encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio), senza peraltro riprendere la prassi magisteriale interrotta con il Vaticano II, ossia la rinuncia a ogni formale condanna degli errori dottrinali (le eresie) e a quei severi provvedimenti disciplinari che avrebbero potuto evitare che questi divenissero praticamente l’insegnamento ufficiale della dottrina cattolica nei seminari e nelle università pontificie.
Dopo la rinuncia all’«esercizio attivo» del pontificato da parte di Benedetto XVI e l’elezione di papa Francesco, la deriva anti-dogmatica del magistero ecclesiastico ha assunto proporzioni tali da giustificare ampiamente, purtroppo, la diagnosi di “disorientamento pastorale” che molti lamentano e che anch’io riconosco, non tanto su basi sociologiche quanto su basi teologico-fondamentali.
Perché, dopo la definitiva rinuncia del magistero ecclesiastico alla sua naturale funzione dogmatica (con la connessa condanna degli errori che si oppongono alla verità della fede) e dopo la pratica legittimazione dell’«ermeneutica della rottura» da parte di papa Francesco con il suo programma di riforme “pastorali” (che contraddicono sostanzialmente i dogmi del concilio di Trento e gli insegnamenti irreformabili del magistero ordinario anche recente, come quello di Giovanni Paolo II), ciò che obiettivamente è in crisi è l’autorevolezza stessa del magistero ecclesiastico.
In effetti, se ai motivi di fede autentica (il papa deve essere creduto e obbedito, non perché sia il leader di una comunità religiosa ma perché è assistito dal carisma dell’infallibilità per essere il testimone e l’annunciatore della verità rivelata, secondo la tradizione apostolica) si sostituiscono motivi di simpatia umana o di condivisione ideologica, l’unità nella fede del popolo di Dio non si ricostituisce ma è anzi sempre più deteriorata. Così come non si ricostituisce ma è anzi sempre più deteriorata l’«oboedientia fidei», ossia l’adesione convinta ed effettiva dei fedeli alle norme morali proposte dal Magistero attraverso i documenti tuttora in vigore.
Nel corso dei dibattiti all’interno dei due Sinodi dei vescovi sulla famiglia, molti padri sinodali (appartenenti soprattutto all’episcopato centro-europeo) hanno chiesto insistentemente la definitiva rinuncia a rigide norme morali e canoniche sulla sessualità al di fuori e all’interno del matrimonio, e a questo scopo si sono serviti di loro rilevamenti socio-pastorali in base ai quali risulterebbe la crescente disobbedienza di massa dei cattolici, anche praticanti, alle norme morali contenute nell’Humanae vitae e in generale alla morale cattolica in materia di sessualità.
Ebbene, la voluta ambiguità con cui papa Francesco ha fatto riferimento a tali norme nella Amoris laetitia , dando a intendere di accogliere implicitamente la proposta dei padri sinodali vescovi “lassisti” e di respingere esplicitamente quella dei padri sinodali “rigoristi” (tacciati di «legalismo», o peggio di «fariseismo») non sortirà certamente l’effetto di una maggiore «oboedientia fidei» in mezzo al Popolo di Dio: quelli che non hanno mai obbedito si sentiranno in coscienza ancora più giustificati; quelli che invece finora hanno obbedito si sentiranno, psicologicamente, come strumentalizzati da una Chiesa oppressiva, e troveranno adesso tra i vescovi e i confessori molti più incoraggiati a “liberarsi” dalle leggi.
Antonio Livi
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