ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 10 aprile 2017

Una dura, difficile, ma anche gioiosa Quaresima


  EFFICACIA DELLA QUARESIMA 

      La Santa Quaresima, come tutti ben sappiamo, è un periodo penitenziale di purificazione in preparazione alla solennità della Santa Pasqua, la solennità della nostra redenzione e della vita eterna che in Cristo ci è stata donata. La Quaresima ha un grande significato in quanto diventa anche figura di tutta la vita umana. La liturgia, infatti, ricorda una prima Pasqua prefigurata nella liberazione dalla schiavitù d’Egitto del popolo ebreo, condotto da Dio al possesso della terra promessa. In questa Pasqua la dura schiavitù che gli Israeliti avevano vissuto in Egitto aveva costituito una Quaresima, in quanto purificazione e preparazione al passaggio del Mar Rosso e alla liberazione dal faraone e dal suo esercito. Quindi c’è una seconda Pasqua, per così dire, realizzata, la Pasqua di Cristo, la Pasqua della salvezza, che realizza le antiche promesse, conducendo ad una terra non più materiale e geograficamente identificabile, ma spirituale, perché conduce alla vita eterna e alla beatitudine divina. Anche questa Pasqua ha avuto il suo preliminare nella passione, nella croce e nella morte del Salvatore per condurre alla gloria della resurrezione. Infine c’è una terza Pasqua che potremmo chiamare “compiuta”, ed è la nostra Pasqua, la Pasqua del banchetto eterno nel cielo.
La nostra Pasqua è il passaggio da questa vita alla vita eterna presso Dio. In questa terza Pasqua la Quaresima è tutto l’arco della nostra vita. Il numero quaranta, nel significato simbolico, è il numero che rappresenta tutta la vita umana: i quaranta anni del popolo che vagava nel deserto, i quaranta giorni del Signore che digiunava nel deserto, i quaranta giorni della Quaresima, ci dicono che tutta la nostra vita su questa terra deve essere vissuta tendendo verso il fine soprannaturale, con il desiderio delle cose eterne che superano le vicende di questa vita. In una parola ci invita a vivere la nostra vita terrena protesi verso la morte, morte che per il cristiano è vista per quello che realmente è, cioè il passaggio alla vita eterna, perché la morte porta alla vita. Per questo motivo il credente può guardare alla morte con coraggio e persino con la gioia e la letizia nel cuore.
È l’ideale di vita espresso dall’elogio funebre inciso su una tomba nella Basilica di Santa Sabina all’Aventino, che così recita: «Ut moriens viveret, vixit ut moriturus» (per vivere dopo morto, visse come chi sa di dover morire), ed è l’ideale che dovrebbe valere per ogni cristiano. La morte umana assunta come suprema penitenza con l’amore di Cristo è come il Mar Rosso che si apre davanti agli Israeliti per condurli nella terra promessa, mentre si chiude sul faraone e sul suo esercito. Vivere rivolgendo lo sguardo lassù dove Cristo ci ha preceduti nella casa del Padre significa vivere una vita mortificata, una vita seria, compresa della tragicità della sorte umana, che apre all’eternità alla quale l’uomo è destinato: eternità di beatitudine o di sciagura, ma una vita insieme gioiosa con la pace nel cuore. Infatti digiuno e gioia, penitenza e letizia sono due aspetti che si appartengono a vicenda e che solo l’uomo moderno, apostata dalla fede, considera come incompatibili. Al contrario chi veramente gode della vita fa penitenza perché sa che la vita di questa terra va assaporata alla luce di Dio anche a costo di dover sostenere un duro combattimento contro satana, l’avversario di Dio, e gli spiriti maligni.
      Per insegnarci a combattere e vincere le nostre tentazioni, il Signore si è volontariamente sottoposto alla triplice tentazione: la prima tentazione, come leggiamo nel Vangelo: «Se Tu sei il Figlio di Dio dì a questa pietra che diventi pane» (Lc 4,3), riguarda l’uomo stesso, la sua concupiscenza e il desiderio di essere padrone delle cose; la seconda tentazione: «Se ti prostrerai davanti a me tutto sarà tuo» (Lc 4,7), riguarda il mondo con le sue lusinghe e chi cede al desiderio di servire il mondo e di accogliere i suoi princìpi; la terza tentazione: «Buttati di sotto poiché sta scritto che ha dato ordine ai suoi angeli affinché ti proteggano» (Lc 4,10), riguarda Dio stesso e ricorda che il fedele non mette Dio alla prova, ma si affida unicamente alla Sua bontà. Tuttavia, se è vero che il maligno continuamente si volge verso di noi per sviarci dalla via del Signore e se questo combattimento quaresimale dura tutta la vita, è vero anche che il Signore ci sostiene con la Sua grazia, con le Sue ispirazioni e ci invita a guardare al fine, al regno, cioè, che ci attende in cielo. Così nel Vangelo leggiamo che per preparare gli Apostoli alla durezza della Sua croce e per manifestare che la croce è via alla luce eterna, il Signore si trasfigurò davanti a loro. Egli apparve in un corpo ancora mortale ma già rischiarato dalla luce della gloria di Dio, di quella gloria che inonda le anime sante nella visione di Dio. San Tommaso insegna che, poiché nella Persona del Verbo erano presenti le due nature, l’umana e la divina, Gesù quanto alla sua anima era da sempre nella visione beatifica, ma nel contempo era quale “viator”, era cioè “in via” quanto alla risurrezione del corpo, che doveva compiersi solo dopo la Sua risurrezione finale.
      In sintesi nella Trasfigurazione è anticipata la gloria della risurrezione, quella gloria della quale l’anima di Cristo era già inondata e che ora si riversò anche nel suo corpo. I discepoli erano talmente presi da questa mistica felicità che avrebbero voluto perpetuare quel momento di celestiale beatitudine, ma il Signore invece voleva confortarli, sì, ma confortarli in vista del combattimento della fede. Per questo motivo Egli parlò loro dalla nube: «Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato, in Lui ho posto il mio compiacimento. AscoltateLo”. All’udire questo i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi non temete”» (Mt 17,5-7). Con queste parole il Signore volle indicare ai discepoli che la fede non consiste nella visione, ma nella sottomissione alla parola di Dio, parola trasmessa nella tradizione della Chiesa. I discepoli ebbero paura, si legge nel testo, la paura è timore reverenziale di Dio, della maestà e della inconoscibilità di Dio. Dio è oscuro all’intelletto umano non per mancanza di intellegibilità, ma per eccesso di verità, poiché come i nostri occhi si stancano a fissare il sole, così la nostra mente non può fissare il volto di Dio senza venir meno. Ecco perché la fede è come avvolta nell’enigma nel quale tuttavia il cristiano si affida alla parola di Dio ricevendone, talvolta, la visione del suo volto in privilegiati momenti di grazia mistica. Non alimentiamo allora una fede per lo più sentimentalistica, ma ricordiamo che dobbiamo sottometterci nell’obbedienza per non strumentalizzare Dio secondo i nostri desideri. L’obbedienza di fede esige l’ascolto della voce del Figlio dell’Eterno Padre, della voce del suo Vicario, della voce della Tradizione della Chiesa, e solo così, dopo una dura, difficile, ma anche gioiosa Quaresima, avremo la gioia di contemplare per sempre il volto di Dio.

di S.M.

Sintesi esegetica tratta dai testi di Padre Tomas Tyn 6 Presenza Divina


http://www.presenzadivina.it/284.pdf

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