ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 6 settembre 2017

La deformazione diabolica del bene.


ABBIAMO IL NUOVO MOSE'          

Non ci manca nulla: ora c’è anche il nuovo Mosè. I neo preti in incognito e la dittatura del buonismo che non è un eccesso di bontà ma una deformazione diabolica del bene. A chi importano i sentimenti dei cattolici, ormai? 
di Francesco Lamendola 
  

 

Tempi fortunati per i cattolici, questi. Oltre alla duplicazione di san Francesco, sotto le spoglie dell’attuale pontefice - gesuita, sì, ma come quell’altro innamorato degli uccellini, dell’ambiente e dei fratelli islamici – possono ora disporre anche della duplicazione di Mosè: un nuovo Mosè che salva il suo popolo dalle acque, come quell’altro salvò gli ebrei dalle onde del Mar Rosso e li sottrasse alla schiavitù d’Egitto. Qualcuno potrebbe pensare che stiamo facendo dell’ironia a buon mercato, ma lo rassicuriamo che non è così: non siamo noi a fare una tale paragone, evocando una simile ascendenza biblica; nossignore, sono loro, i cattolici progressisti e bergogliani d.o.c. Nella fattispecie, è il settimanale Credere, una delle punte di diamante (si fa per dire) della neochiesa modernista che si è imposta, di prepotenza, sulla Chiesa cattolica quale noi, e con noi milioni e milioni di cattolici, l’abbiamo sempre conosciuta, e nella quale abbiamo riconosciuto la voce dell’autentico pastore, mentre adesso sentiamo solo un chiacchiericcio mondano, molto politicallycorrect, ma che non ha nulla di spirituale, e soprattutto nulla di cattolico, ma in compenso trasuda buonismo da tutti i pori; e sappiano che il buonismo non è un eccesso di bontà, ma una deformazione diabolica del bene. 

Diabolica, perché consiste nell’ostinato rifiuto di vedere e di riconoscere che il male esiste, e che, forse, è molto più vicino di quel che non si creda; che forse è tutto intorno a noi, e anche dentro di noi, ma i buonisti fanno finta di non vederlo, perché, con la scusa di essere positivi, ottimisti e caritatevoli, vogliono, in realtà, negare il peccato, o sminuirlo, o togliergli la sua caratteristica essenziale: quella di una ribellione contro Dio, che infrange l’ordine amorevole da Lui voluto. Dunque, per costoro, meno si parla del male, e meglio è; in tal modo si parla poco e niente anche del peccato: e quello che resta non è più il cattolicesimo, ma una sorta di buonismo pseudo cattolico, tendenzialmente o apertamente sincretista (ne abbiamo viste e ne vediamo ogni giorno di tutti i colori; anche il dio Ganesha, quello con la testa d’elefante, entrare in trionfo in una chiesa cattolica, fra il tripudio dei suoi fedeli, e con l’autorizzazione del prete cattolico in questione), nonché un indifferentismo religioso e un relativismo etico, in base ai quali basta seguire la propria coscienza, come disse papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, nella famosa intervista a Eugenio Scalfari, e si è a posto davanti agli uomini e davanti a Dio. Certo, in tal modo non resta più nulla della dottrina cattolica, e neppure della morale cattolica; ma che importa? Tanto, lo dice papa Francesco, Dio non è cattolico; e allora, perché preoccuparsi? Perché farsene un problema, o, peggio, un cruccio?
Dunque, stavamo parlando del nuovo Mosè che salva il suo popolo dalle acque; o meglio, non noi, ma ne parla il settimanale Credere.  Una rivista, sia detto per inciso, che si vende anche dentro le chiese, proprio come Famiglia Cristiana: il che vuol dire che un fedele, entrando nella casa di Dio per pregare, e vedendo esposte in vendita tali riviste, non dubita neanche per un momento che si tratti, come si diceva una volta (quelli che hanno più di cinquant’anni se ne ricordano bene) della buona stampa, e la compri e se la porti a casa, più o meno con la stessa fiducia con cui porterebbe a casa un libretto devozionale, una Liturgia delle ore o magari un Vangelo in formato tascabile, come usa da parte di molti parroci. E perché no? Se la espongono in chiesa, vuol dire che bisogna leggerla con fiducia; se no, i sacerdoti non si assumerebbero una tale responsabilità. Ahimè, quello che fa acqua in questo ragionamento è che ci si possa ancora fidare del discernimento pastorale di molti, di troppi sacerdoti; che ci si possa fidare del fatto che essi sono, e si sentono ancora, dei preti cattolici in tutto e per tutto, senza complessi e senza ambiguità. Ma come è possibile farlo, quando già dal loro modo di vestire si vede subito che ciò cui aspirano sopra ogni altra cosa è di passare per dei preti poco clericali, e infatti si vergognano di portare, non diciamo la talare – che, se non andiamo errati, non è stata abolita; eppure è come se lo fosse stata, proprio come il latino della Messa tridentina, che non è mai stato abolito, eppure è stato fatto sparire, quasi con vergogna, come si fanno sparire le tracce di un delitto, o quelle di un parente pazzo o depravato – ma anche solo il clergyman, e non vedono l’ora d’indossare una camicia e un paio di pantaloni qualsiasi, ovviamente senza portare neanche un crocifisso al collo, perché così sono più “aperti” e “dialoganti”, e più rispettosi della sensibilità altrui, cioè dei giudei, degli islamici, dei buddisti, degli induisti (devori del dio Ganesha compresi), e soprattutto dei protestanti, dei massoni, dei radicali e degli atei impenitenti e anticristiani? E se qualcuno pensa che stiamo esagerando, diremo ancora di più: sappiano per certo, perché ce lo hanno confidato dei sacerdoti nostri amici, che certi vescovi e certi ordini religiosi sono arrivati al punto di proibire ai loro sacerdoti di andarsene in giro vestiti da preti: li vogliono in borghese, cioè in incognito: nessuno deve sapere che sono preti, a meno che sia veramente indispensabile! E che tutto ciò possa offendere, non già i seguaci delle altre religioni, o i massoni, o gli atei, ma proprio i cattolici, evidentemente a costoro non viene neppure in mente; o, se viene in mente, non gliene importa nulla. A chi importano i sentimenti dei cattolici, ormai?Non certo ai seguaci di papa Francesco, che spara una offesa e una empietà al giorno: dall’apostolato che è una colossale sciocchezza, a Gesù Cristo che si è fatto diavolo, alla sofferenza umana che non trova alcuna spiegazione, alla dottrina che è cosa cattiva se crea divisioni; e si potrebbe continuare per pagine e pagine, senza contare gl’innumerevoli insulti ed improperi che ha lanciato, e continua a lanciare, verso i cattolici che lui definisce “fanatici”, “rigidi”, dalla “doppia vita”, “signori e signore piagnisteo”, mentre sono dei cattolici e basta; ma si vede che ciò non gli va proprio giù, perché disturba le sue radicate convinzioni sull’ecumenismo e il dialogo interreligioso, e intralcia le sue concelebrazioni coi luterani e le sue messe aperte ai musulmani.
Dunque, sull’ultimo numero di Credere, spicca, in copertina, la foto “promozionale” di un già candidato al Premio Nobel per la pace nel 2015: don Mussie Zerai, un prete cattolico eritreo che, in pochissimo tempo, è diventato la star dei programmi televisivi progressisti e buonisti, è stato preso sotto l’ala protettrice di David Parenzo a In onda estate e, adesso, è stato ufficialmente “adottato” dalla stampa cattolica che conta. Il titolo dell’articolo è questo:  Il prete che come Mosè salva il suo popolo dalle onde; sottotitolo: È arrivato in Italia a 17 anni come richiedente asilo. Ordinato prete, oggi lotta per i diritti dei migranti in Europa e per la vita di coloro che solcano il Mediterraneo  (l’articolo è firmato da Romina Gobbo, ma la direzione del giornale è di don Antonio Rizzato; il quale, per capire come la pensa, nel suo editoriale cita quale massima autorità in fatto di cristianesimo… Enzo Bianchi, il falso prete di Bose che abbraccia gli alberi per far vedere quanto è “divina” la natura e, in perfetta sintonia con l’enciclica di papa Francesco Laudato si’, vuol far capire anche ai cattolici più testoni che la responsabilità del creato è cosa loro, e che questi sono i veri temi all’ordine del giorno. Chissà perché, ci viene in mente la “profezia” del filosofo, teologo e scrittore Vladimir Solov’ëv, secondo la quale l’Anticristo sarà un religioso molto stimato, ambientalista, animalista, vegetariano, filantropo, pacifista, molto ascoltato e applaudito per i suoi discorsi (strano, perché Gesù Cristo non è stato applaudito, ma processato, condannato e crocifisso, nonché maledetto dagli uomini). Vedere per credere: don Zerai si è già conquistato l’onore di una “voce” su Wikipedia, come una grande personalità o un grande benefattore dell’umanità; e così, in effetti, lo presenta, senza la minima sfumatura, il settimanale in questione. Il fatto che egli sia ufficialmente indagato dalla procura di Trapani per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non è certo un problema, né per lui, né per la stampa cattolica che lo sostiene, e meno ancora per i suoi potenti amici e paladini nel mondo dell’informazione e in quello della politica (fra questi ultimi spicca una sua grande ammiratrice, la signora Laura Boldrini); al contrario,  conscio che la miglior difesa è sempre l’attacco, il prete eritreo punta il dito contro lo Stato e accusa le pubbliche autorità di far poco e male per i poveri clandestini. Citiamo dall’articolo in questione: Padre Mussie mette in contatto i naufraghi con le navi delle ong e per questo ora è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione. Ma si dichiara tranquillo perché ha agito nel rispetto della legalità. Poche parole, una montagna di falsità e inesattezze: a cominciare dal fatto che don Zerai non salva i “naufraghi”, ma delle persone che sono appena partite clandestinamente dai porti della Libia, che non sono per niente in pericolo di naufragare, non che già naufragate, e che vengono trasbordate grazie alle sue telefonate incrociate – questa, almeno, è l’ipotesi di reato della procura della Repubblica – fra gli scafisti, o chi per essi, e le navi delle ong le quali, a loro volta poco scrupolosamente, non vanno a salvare deinaufraghi, ma delle persone perfettamente al sicuro, a bordo d’imbarcazioni che hanno percorso solo poche miglia, sovente con mare liscio come l’olio, e che poi vengono gentilmente restituite agli scafisti. Semmai, qualcuno potrebbe e dovrebbe chiedere conto a don Zerai delle persone che annegano nella traversata, perché incoraggiate ed illuse, da lui e da altri come lui, che in Italia sia facile arrivare e che ci sia pronta accoglienza per tutti. Questo significa indurre le persone a tentare l’avventura; e se, poi, il viaggio finisce in tragedia, non è giusto, non è onesto, non è veritiero prendersela con le pubbliche autorità, i cui uomini, da anni, fanno il possibile e l’impossibile  per soccorrere i barconi in difficoltà (eppure, chi non ricorda quell’ingeneroso, demagogico, assurdo Vergogna! gridato dal papa a Lampedusa, mentre gettava una corona di fiori in mare? Vergogna, a chi?), ma bisognerebbe prendersela con quanti, incoscientemente, alimentano, con il loro atteggiamento buonista, le partenze dall’Africa, oltretutto pagando il viaggio qualcosa come 5 o 6.000 euro, cioè vendendo tutti i propri beni e tagliandosi i ponti alle spalle, quando, con quella cifra, in Africa, si è considerati, e si è, tutt’altro che poveri.  Ed ecco l’affondo del prete eritreo, sempre sulle pagine di CredereLa protezione per i rifugiati c’è solo sulla carta: non è mai stata tradotta in pratica. Altra menzogna spudorata, altro discorso disonesto: come fa don Zerai a qualificare “rifugiati” i migranti, quando le statistiche dicono che 9 su 10 non sono affatto dei profughi e non hanno alcun diritto di essere considerati tali? Ma alle bugie, il candidato al Nobel per la Pace si direbbe che sia abituato: a domanda, in diretta tv ha risposto che quanti partono dalla Libia conoscono il suo numero di cellulare perché lo hanno letto sui muri del carcere di Tripoli, dove qualcuno l’ha scritto. Ignazio La Russa lo ha sbugiardato in diretta e gli ha ricordato che anche un prete, quando dice le bugie, deve andare a confessarsi; oltre ad avere l’obbligo di rispettare le leggi dello Stato, come qualsiasi altro cittadino. In compenso, lo Stato italiano è avvertito, i suoi servitori sono avvertiti: procuratori, giudici, membri delle forze dell’ordine sono tutti avvertiti: don Zerai non si tocca, è stato beatificato per direttissima dalla Chiesa cattolica; anzi, è lui che lancia accuse e bisogna pensare a giustificarsi. 
Non ci manca nulla: ora c’è anche il nuovo Mosè

di Francesco Lamendola 
Del 06 Settembre 2017
continua su:
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/contro-informazione/il-paradiso-degli-asini/776-abbiamo-il-nuovo-mose

Stupri e invasione, invasione e stupri



Avrete notato in questi giorni che è scattata una strana operazione, modello FBI all'americana a proposito del "branco di Rimini", ovvero gli stupratori della turista polacca 26enne, gli aggressori del suo compagno, e del trans (lo scrivo al maschile, poiché non capisco la ragione per scriverlo al femminile).
La domanda che i frequentatori di questo blog si sono posti  è : ci sarebbe stata una simile efficenza ed efficacia nella cattura se la parte lesa fosse stata una cittadina italiana  e non ci fossero state le provvidenziali pressioni del governo polacco che giustamente (e sottolineo l'avverbio), ora vorrebbe perfino l'estradizione delle  bestie del branco?
La risposta è NO e ne abbiamo già la riprova.
Avete notato che sull'energumeno nigeriano che ha violentato l'anziana signora 81enne nel parco di Milano è caduto il silenzio? La povera signora sotto choc è finita alla clinica Mangiagalli e ora al Niguarda. Non solo, ma ci sono state pure grandi risate di scherno da parte di un assessore del PD di Cinisiello Balsamo, un tal Ivano Ruffa che si è mostrato  ipocritamente incredulo nonostante le cronache nere dei quotidiani avessero riportato l'accaduto, cercando di negare l'evidenza.  Questo, solo per fare un esempio, sulla sicurezza e la giustizia che non ci sono.


L'arma dello stupro etnico è stata usata in passato,  per umiliare i maschi della comunità nemica i quali,  provarono un profondo senso di frustrazione per non essere riusciti a sottrarre le donne alla violenza, in quanto “la difesa delle donne è stata fin dalla notte dei tempi un simbolo dell’orgoglio maschile” ; lo stupro fu usato anche per distruggere la personalità della vittima, inoculandole una sorta di disprezzo per il proprio corpo e un malsano senso di colpa per non essere stata in grado di sfuggire alla violenza; infine fu utilizzato come forma di pulizia etnica, obbligando la donna a generare “figli del nemico” (si veda l'esempio in Bosnia), al fine di diffondere l’etnia del violentatore e di creare nella vittima un ricordo perenne della violenza subita. Durante le guerre e i conflitti armati, gli stupri sono usati di frequente come strumento di una guerra psicologica nel tentativo di umiliare il nemico e minare il suo morale. Le violenze sessuali sono spesso sistematiche e complete, e i comandanti possono realmente incoraggiare i loro soldati ad usare violenza con i civili. Queste violenze possono accadere in diverse situazioni. Gli stupri di guerra comprendono anche violenze sessuali di gruppo e violenze con obiettivi specifici, sempre durante un conflitto armato e con soldati come autori delle violenze stesse. Perché ho fatto questo intermezzo sull'origine degli stupri? 
Per dimostrare che viviamo una situazione non dissimile da uno stato di guerra e che gli stupri sono di natura "etnica", nonostante il politicamente corretto, lo voglia negare, fissandosi invece sul maschio nativo e domestico (la vulgata secondo cui gli stupri avvengono in famiglia di Boschi e Boldrini).  Una guerra la cui arma di distruzione  di massa inflittaci si chiama "umanitarismo", quello propugnatoci dall'ONU, che propone l'invasione a scopo sostitutivocontro l'invecchiamento della popolazione.

Ma torniamo sull'accaduto di Rimini di cui abbiamo già parlato più sopra.

Dunque, oggi ho voluto farmi del male e ho letto le cronache sulCorrierone. E che cosa ho appurato? Che i media stanno tirando la volata alla gestione "sceriffesca" (si fa per dire) del Ministero Minniti (che novita!); che hanno mostrato una poliziotta  Francesca Romana Capaldo (foto in alto) capo della sezione dello Sco (il Servizio Centrale Operativo) la quale si occupa della violenza "di genere", mettere le manette alla bestia congolese Guerlin Butungu. Insomma una sceneggiatura e scenografia all'americana con tanto di G-Man, in questo caso G-Woman, per dare una mano al governo Gentiloni in vista di probabili elezioni e per agevolare altresì il  passaggio  del controverso "ius soli", passaggio che si preannuncia aspro, specie alla luce di questi ultimi accadimenti.

In questo "script" c'è il trans (o meglio "la") che è servita da superteste di grande entità, la povera turista polacca spaventata a morte e sotto choc e il compagno tapino della turista, relegato a nessuna importanza mediatica, nonostante fosse stato pestato a sangue, ferito coi cocci di bottiglia e costretto ad assistere a quello scempio.

Sceneggiature hollywoodiane a parte, ora assisteremo al consueto fenomeno di una sentenza che avrà tutte le attenuanti del caso, dovuto alla minore età del branco, con l'eccezione del "capo" Butungu.

  •  le prefiche del Pd e dintorni sottolinearanno che - poverini! - erano senza famiglia ed emarginati e già la Maraini ha iniziato a farlo. 
  • che arriveranno i Radicali con i loro "nessuno tocchi Caino" a dar loro il metadone (erano drogati, poveretti! - altro attenuante). 
  • che qualche avvocaticchio delle belve cercherà di attivarsi in una linea difensiva fra chi agiva e chi guardava, dividendo le responsabilità del branco.

A questo punto sarebbe bene farli processare direttamente in Polonia: loro sanno già come fare. Ed ecco perché i polacchi che a differenza di noi, sono del tutto restii a fenomeni migratori, vorrebbero l'estradizione di tutto il branco in Polonia. Se fosse per la sottoscritta, glieli spedirei già da domani. Ma le cose prenderanno con ogni probabilità un avvio contorto e complicato, come al solito. Resta la solita immancabile figuraccia di inaffidabili rammolliti nonché omertosi immigrazionisti da parte del nostro abusivissimo governo Gentiloni. Ma questo si sa già.

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Integrazione negata dal 'mito del buon migrante'
di Riccardo Cascioli05-09-2017
Migranti su un barcone
Le storie personali dei quattro ragazzi (tre minorenni) protagonisti degli stupri di Rimini stanno occupando le prime pagine dei giornali. In particolare quella dei due fratelli marocchini (15 e 17 anni), nati e cresciuti in una famiglia le cui vicissitudini spiegano meglio di qualunque altra cosa la schizofrenia tutta italiana davanti al fenomeno dell’immigrazione. 

Detto molto in breve: c’è un padre pregiudicato già espulso molti anni fa, poi rientrato in Italia per decisione di un giudice, probabilmente in base al principio del ricongiungimento familiare, ma ora con il permesso scaduto; c’è una madre sotto procedimento per stalking e violenze varie, e due dei quattro figli (i presunti protagonisti degli stupri) già noti alla polizia per bullismo e violenze di vario tipo. Che questo simpatico clan familiare avesse il diritto di stare ancora in Italia ha del surreale. 
Però a questo punto, considerato il dibattito attuale sull’immigrazione, proviamo a farci una domanda: per evitare quanto accaduto a Rimini (e accade da tante altre parti) sarebbe stato meglio espellere dall’Italia persone non in regola e già più volte denunciate oppure garantire la cittadinanza alla nascita dei due futuri stupratori pensando che questa sia la ricetta magica per garantire l’integrazione?
Con buona pace del ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ieri ha ribadito che lo ius soli è necessario perché «è un percorso di doveri» che evita la marginalizzazione, la realtà dice tutt’altro. Per integrare ci vuole ben altro, a comonciare dalla volontà di chi si deve integrare. Ma sembra che in Italia si faccia proprio fatica a capire concetti elementari.

Ieri, gli inquirenti che hanno interrogato i ragazzi responsabili delle violenze, si stupivano per la loro mancanza di pentimento. Sarebbe stato stupefacente il contrario. Lo ha spiegato molto chiaramente la giornalista di origine marocchina Souad Sbai nell’intervista a La Nuova BQ: se in certe culture si cresce nella convinzione che violentare una europea, una cristiana, non faccia problema, perché poi stupirsi delle conseguenze? Come ci si può pentire di un’azione che ti è stata insegnata come corretta?

Se si vuole davvero favorire l’integrazione, oltre a far rispettare le leggi senza compiacenze “culturali” ed espellere chi si macchia di crimini, è necessario svolgere una grande opera di educazione per chi resta sul suolo italiano. Non si può fare finta che tutte le culture siano uguali o, peggio, che l’immigrato abbia sempre ragione perché è povero ed è così per colpa nostra. Questo è il vero razzismo: negare che l’altro – l’africano, l’asiatico - abbia una responsabilità, una coscienza; negare che abbia la libertà di decidere di agire in un modo o in un altro, con tutte le conseguenze del caso. 
Quella dei poveri migranti che sono solo vittime della nostra chiusura, è la narrazione che ora viene usata anche per raccontare le conseguenze dei presunti accordi tra Italia e milizie libiche per bloccare le partenze dalla Libia alla volta delle nostre coste. Così si è cominciato a parlare delle condizioni disumane a cui sono costretti coloro che sono bloccati in Libia impediti di partire per l’Italia.

Avvenire ha deciso di inviare un suo giornalista a verificare cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo. E ci racconta cose agghiaccianti: violenze di ogni genere su tutti, persone ridotte in schiavitù, ragazze sistematicamente violentate che arrivano a suicidarsi per sfuggire ai loro aguzzini, un panorama terribile. Racconti realistici che, probabilmente, riescono a dare solo una vaga impressione della realtà infernale in cui queste persone si trovano a vivere. Il lavoro di Avvenire nel documentare questa realtà su cui magari vorremmo chiudere gli occhi è meritorio; se le stime riportate dal quotidiano dei vescovi sono corrette sarebbero tra gli 800mila e un milione i migranti attualmente fermi in Libia. 
Ma il motivo di questi servizi e il giudizio che vogliono indurre è fuorviante e mistificatorio. L’idea che Avvenire vuole trasmettere è: vedete che succede a bloccare le partenze dalla Libia? Siamo noi italiani, anzi quelli che vogliono fermare i viaggi nel Mediterraneo, la causa di tutte queste violenze. E infatti si parla ripetutamente di migranti “intrappolati”, fermati in Libia da chi non li vuol fare più partire alla volta dell’Italia.

Quello che Avvenire dimentica di dire è che questa situazione esiste non perché adesso si bloccano le partenze dalla Libia ma perché per anni si è alimentato questo indegno traffico di esseri umani con l’ideologia dell’accoglienza "senza se e senza ma". Gonfiando le tasche di assassini e terroristi. Tanto è vero che se i numeri forniti da Avvenire sono corretti, al ritmo degli sbarchi degli ultimi tempi ci vorrebbero almeno quattro anni per smaltire quel milione di “intrappolati”, senza contare tutti quelli che nel frattempo si aggiungerebbero. E pensano forse i nostri vescovi che in questi quattro anni sarebbero tutti ospitati in hotel a cinque stelle in comoda attesa del proprio turno di imbarco? E che i vari trafficanti siano diventati improvvisamente cattivi a causa degli accordi per bloccare i porti di partenza? Ma in che mondo vivono?
Laddove non arrivano i nostri cattolici adulti, arrivano però le stesse vittime del traffico di esseri umani. È proprio di ieri un articolo del quotidiano francese Le Monde che racconta della nascita di una associazione in Gambia per scoraggiare le partenze dei propri connazionali verso l’Europa. Si chiama “I giovani contro la migrazione illegale” ed è stata fondata da alcuni migranti che hanno vissuto in prima persona l’inferno che tocca a chi si illude di una facile vita in Europa.

Lo ha raccontato uno di loro, Karamo Keita, 27 anni, un inferno iniziato nell’attraversamento del deserto del Sahara e finito in Libia: derubato dei vestiti, picchiato, ridotto in schiavitù e infine costretto a tornare in Gambia. E come lui gli altri che hanno dato vita all’associazione, che vuole sfatare il mito della vita facile in Europa, alimentato da trafficanti interessati. E chiede piuttosto che sia il governo del Gambia a fare qualcosa per garantire un lavoro ai suoi giovani. È un segnale che va nella giusta direzione, è anche ciò che alcuni episcopati africani stanno facendo, preoccupati di veder partire le forze migliori dei propri paesi.
Chissà quanto tempo ci vorrà ancora prima che i nostri profeti del dialogo e dell'ascolto captino finalmente le voci che arrivano da questi paesi.

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