Madonna del Rosario: La Battaglia di Lepanto
Riportiamo un bell'articolo di Marco Tangheroni, apparso sul n.80 della rivista "Cristianità" nel 1981, raro (soprattutto nella storiografia contemporanea, che tende a minimizzare Lepanto sino a farla quasi scomparire da alcuni manuali di Storia...) pezzo di storiografia cattolica su questo grande evento del nostro passato.
All’alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentodieci anni fa,
aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato
di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi
battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della
Cristianità controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne
l’anniversario, e ricordarlo nel modo più serio, cioè riassumendone la
storia e inquadrando l’evento nella situazione del Mediterraneo negli
anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo meglio e
da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.
La Cristianità e il Mediterraneo intorno alla metà del Cinquecento
Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era
delle più difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all’insegna delle
promettenti conquiste di nuove terre in Africa, in Asia, in America (1).
Ma, già nel secondo decennio, l’incendio acceso dall’ex monaco Martin
Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del fertile terreno
costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo
precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico
sostanzialmente acristiano, quando non anticristiano (2); alla decadenza
della scolastica, con prevalenza in campo filosofico di un
neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un aristotelismo
averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche
e guerriere alla diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del
lusso e dei piaceri, dal ricorrere di gravi crisi nella Chiesa, come
l’esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo scisma, alle
difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma
della Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).
Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di
salvare l’unità dell’Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di
Trento, insieme uno sforzo di, rinnovamento e di riaffermazione solenne
delle verità dogmatiche minacciate dall’errore protestante. Come spesso è
accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo interno una
straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e
di nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la
Compagnia di Gesù, fondata da sant’Ignazio di Loyola, destinata a
rappresentare l’arma di punta della riconquista cattolica di una parte
dell’Europa.
Questa d’altra parte era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra
Stati cristiani. Così, la Francia — del resto tormentata da decennali e
sanguinose guerre di religione — non esitava, talora ad appoggiarsi,
nella sua politica antiasburgica, a principati protestanti, e giungeva a
vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei turchi nel
Mediterraneo.
In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti
interessi, anche comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così,
mentre Venezia era preoccupata soprattutto delle minacce e degli
attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle posizioni che essa
conservava nello Ionio e nell’Egeo, la Spagna si preoccupava in
particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del
Mediterraneo, cercando di combatterla nelle sue basi nordafricane (4).
Quando la generale situazione europea consentì a Carlo V di tentare di
assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si articolò in due
grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una
poté considerarsi riuscita (5).
È questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e,
prima ancora, la costituzione di una flotta congiunta, non fu il
risultato di interessi politici convergenti. Essi, semmai, divergevano,
come si vide negli anni precedenti e seguenti la battaglia stessa. Essa
fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di alcuni
principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della
persistenza, ancora notevole, anche a livello, popolare, dello spirito
di crociata (6).
Comunque, dalla fine del Trecento, l’espansione turca si era fatta
sempre più minacciosa e, pur avendo conosciuto qualche battuta di
arresto — sia per vittorie cristiane che per alcune crisi interne —, nel
complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli intervalli
tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni,
attacchi corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva,
sui mari e lungo le coste, il terrore nei confronti degli aggressivi
infedeli. Ed è questo un secondo elemento da tenere presente per
valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto
per la scomparsa di un pericolo — che fu, come vedremo, temporaneo —, ma
anche per la prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era
possibile.
L’assedio di Malta nel 1565
Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di
vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di
sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile
prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che
culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l’importanza
che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta,
tentativo che ebbe luogo proprio in quell’anno. Si può ben dire che esso
segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l’avvio di
un’azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi
lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7).
L’importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di
una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma
anche al fatto che l’isola era la base di quell’ordine militare dei
cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove
circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua
tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose
galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una
spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le
sue basi costituivano un punto d’appoggio vitale per tutte le navi
cristiane (8).
L’attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in
persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni
patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari
anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile
contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne
fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei
Cavalieri — dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi — e
favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La
Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il
sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la
neutralità della Francia e di Venezia (9).
La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità, mentre in
Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe
potuto perseguire; a Malta, allorché il 18 maggio 1565 la immensa flotta
turca si presentò davanti all’isola, non erano stati fatti quei
preparativi militari — perfezionamento delle opere difensive già
esistenti, ammasso di viveri e munizioni — che sarebbero stati dettati
dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio.
In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio le vicende della
resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti
(10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti
dell’incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi
o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la
situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: «Ma
il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si
difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto» (11).
In effetti, quasi tutta l’isola fu occupata, tranne alcune
fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante i violenti
bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di
Sant’Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per
conquistarlo. Il potente forte di San Michele resistette ancora più a
lungo, anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un
pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande
esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti.
Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi
rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi
decisero di rinunciare all’impresa, abbandonando l’isola il 12
settembre.
È stato scritto che «la
vittoria delle armi cristiane — vittoria piena e decisiva — aveva
richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti,
sessantanove i serventi d’arme morti e, diciassette i dispersi, cinque
capellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in
combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre
nazioni» (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e
di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della
invincibilità delle sue armate era stato scosso.
La Lega Santa
Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro
conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che
derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La
vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la
riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori
resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di
quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l’azione di
san Pio V, salito al pontificato all’inizio del 1566.
Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane
nell’ordine domenicano, si era distinto per l’austerità della vita e
l’impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa,
il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale
dell’Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV
(1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi,
grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio
IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e
di avviarne l’applicazione, seguiva una linea più moderata del suo
predecessore. L’elezione del cardinale Ghislieri all’inizio del 1566
costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla
influenza in conclave di san Carlo Borromeo, segnò la definitiva
affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che
perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di
contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa: sulla
integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un’azione,
improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul
piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello
politico a quello culturale (13).
Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della
minaccia turca — rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane
sultano, Selim, salito al trono nel 1566 —, san Pio V si adoperò in
ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane
mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel
ha giustamente scritto: «Certo, non un papa del Rinascimento: un’età ormai finita» (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu «intransigente e visionario» (15);
intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella
misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua
tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non
ebbe. È spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i
progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di
una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e
astratte, anche se molto più comode.
Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei
Paesi Bassi, l’espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul
mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell’impero. Inoltre, non senza
sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada,
scoppiata nel 1569 si estendeva a gran parte dell’Andalusia,
protraendosi a lungo.
Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra,
alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d’Austria —
venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II —, Tunisi cadeva
in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro,
approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l’altro, era
bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio di cui
non si può escludere l’origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i
turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale,
Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata
Famagosta, sotto la guida dell’eroico Marco Antonio Bragadin, poi
destinato a orrendo supplizio quando, nell’anno successivo, la città
dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti.
San Pio V colse l’occasione dell’attacco a Cipro per superare la
politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin
dall’inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le
trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla
fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi
della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la
riluttanza di Filippo II a impegnarsi nel Mediterraneo orientale;
nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente
campagna fiaccamente condotta nell’autunno del 1570; nonostante i
contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed
essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà
di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall’accordo e
come necessario per la situazione, costruendo e armando navi,
arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più
difficili, in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo nei paesi
spagnoli.
La battaglia di Lepanto
La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto
del 1571. Presto, se si considerano le difficoltà che dovettero
superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri
cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea
Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello
stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. «Ma
don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei
capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l’azione; e,
presa la decisione, si dedicò al compito con l’ardore esclusivo del suo
temperamento» (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal
fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a
soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra
equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare
l’armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a
giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa.
Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo
essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per
imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era
composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta.
Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la
scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe
provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli
archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue
da Genova, al comando del Doria; ventitrè dagli Stati pontifici e da
altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e
tre da Malta (19).
La superiorità numerica, gli ordini avuti dal sultano e il suo
temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta
turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell’ambito dei
comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario.
Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del
comandante in capo dell’armata cristiana (20) lo stendardo della Lega,
offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai
piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e
il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due
piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la
natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era
il loro vero comandante. A bordo, i cappellani confessavano e i capitani
incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21).
Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane «tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti», aggiungendo che esse «vogavano in bellissima ordinanza»,
cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi
di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve
miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle
imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.
Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell’ala destra dello schieramento
cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di
aggiramento tentata dal corno sinistro dello schieramento turco,
comandato da Euldj-Ali (23), la battaglia si decise nel centro. Le
artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la
superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate,
rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un
sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico. Decisiva fu la
superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti
ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che «non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande» (24). Intanto, «gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l’armata nemica […] facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri» (25).
Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galera Fiorenzadell’Ordine
di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de’
Medici e quindici uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta,
e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro,
furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel
combattimento (26): Morì, tre giorni dopo la battaglia anche il
comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale,
accorgendosi che i suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso
mentre «i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse […] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito»,
e fu così ferito mortalmente (27). Del valore di don Giovanni si è
detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del
settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier.
Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in
poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi
furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta
navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette
catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti
andarono distrutte (28).
Una vittoria senza conseguenze?
E la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di
storici, e primo — si potrebbe dire: naturalmente — Voltaire, hanno
insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu
sfruttata a fondo (29).
In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri
impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile
epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d’Austria, che era nei Paesi Bassi a
combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di
osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche
osservazione precedente.
In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata
dell’avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse
stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta. Non solo tutte le
posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute,
ma la stessa intera Italia, e forse anche la Spagna, sarebbero state
alla mercé dei turchi (31).
Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32), l’entusiasmo
dei veneziani all’arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un po’
dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia
della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes» (33).
Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo
palazzo, quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva
intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!.
Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum(34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.
Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a «la
intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e
destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’
gentiluomini e soldati nell’essequire» (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit», «non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori» (36).
Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le
confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari
devozioni (37).
Marco Tangheroni
***
(1) Di tali conquiste non bisogna dimenticare, accanto alle altre, le motivazioni di carattere religioso; cfr. Pierre Chaunu, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo), trad. it., Mursia, Milano 1977.
(2) Non è questa la sede per approfondire il discorso sui limiti e sui
caratteri dell’umanesimo cristiano, che certamente esistette, ma, a mio
parere, senza possibilità di caratterizzare nella sostanza il periodo e
le tendenze e non senza illusioni ed errori di prospettiva.
(3) Plinio Corrêa de Oliveira, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed.
it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 71-73, coglie
l’importanza di questo periodo nell’avvio del processo rivoluzionario.
Per le tendenze — sulle quali insiste giustamente il pensatore cattolico
brasiliano — è sempre affascinante e ricca di stimoli la lettura di
Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo,
trad. it., Sansoni, Firenze 1966. Interessante anche — proprio per
l’orientamento marxista e progressista degli autori — Ruggero Romano e
Alberto Tenenti, Alle origini del mondo moderno, Feltrinelli, Milano 1967. Per l’aspetto filosofico Rudolf Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it., Il Mulino, Bologna 1978 (l’originale edizione tedesca è del 1929).
(4) Fondamentale è Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, n. ed. it., Einaudi, Torino 1976, in particolare pp. 887-1326.
(5) Cfr. Giancarlo Sorgia, La politica nord-africana di Carlo V, Cedam, Padova 1963.
(6) A proposito di questo argomento si può vedere Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 292-332.
(7) F. Braudel, op. cit., considera il 1565 l’ultimo anno della supremazia turca.
(8) Cfr. Ubaldino Mori Ubaldini, La marina del sovrano militare ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta,
Regionale Editrice, Roma 1971. Per una visione d’insieme è tuttora
fondamentale, sul piano degli avvenimenti militari, Camillo Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto (1453-1571), Roma 1897. Ricordo anche il congresso tenutosi a Venezia in occasione del quarto centenario, Il mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Olfehki, Firenze 1974; cfr. anche Filipe Ruiz Martin, The battle of Lepanto and the Mediterranean, in The Journal of European Economic History, 1, 1 (1972), pp. 166-169.
(9) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 220.
(10) Cfr. Francesco Balbi da Correggio, Diario dell’assedio di Malta,
Palombi, Roma 1965; questo testo mi sembra il più interessante per
avvicinarsi in modo diretto agli avvenimenti di quei mesi nell’isola.
(11) F. Braudel, op. cit., p. 1088.
(12) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 243.
(13) Cfr. Ludwig Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., Roma 1944.
(14) F. Braudel, op. cit., p. 1100.
(15) Ibid., p. 1101
(16) Ibid., p. 1137.
(17) Ibid., p. 1176.
(18) A causa della tensione tra Cosimo e Filippo II le dodici galee
toscane parteciparono come noleggiate dal Papa, le cui insegne — e non
quelle stefaniane o medicee — innalzavano: cfr. Cesare Ciano, I primi Medici e il mare, Pacini, Pisa 1980, pp. 59-66.
(19) Cfr. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, trad. it., 2a ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 428-432.
(20) Una ricostruzione della galea reale di don Giovanni d’Austria si
può vedere nel Museo Navale di Barcellona, in scala 1/1. Nella
cattedrale della stessa città si conserva — ed è oggetto di gran
devozione — un bel Crocifisso in legno, che si dice fosse a bordo della
nave di don Giovanni.
(21) Cfr. Giovanni Pietro Contarini, Historia
delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano
ai Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra i Turchi, Francesco Ramparetto, Venezia 1572, foglio 48 r.
(22) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 274.
(23) Si tratta dell’Uccialì o Uccialli delle
fonti cristiane. Il comportamento del Doria fu molto criticato, sia da
alcuni contemporanei che da alcuni storici moderni. Ma la storiografia
contemporanea tende a riconoscere l’opportunità del suo comportamento.
(24) G. P. Contarini, op. cit., f. 50 v.
(25) Gerolamo Diedo, La battaglia di Lepanto, Daelli, Milano 1863, p. 35. Diedo era un veneziano abitante a Corfù, contemporaneo degli avvenimenti.
(26) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 277.
(27) ci. Diedo, op. cit., pp. 29-30.
(28) Cfr. F. Lane, op. cit., p. 431.
(29) Cfr. F. Braudel, op. cit., p. 1181.
(30) Cfr. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Neri Pozza, Vicenza 1978.
(31) Così conclude anche F. Braudel, op. cit., p. 1182 «[…] se,
anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla
situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una
miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità,
la fine d’un altrettanto reale supremazia della flotta turca […] Prima
di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse
ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu
enorme». Il contemporaneo Contarini (op. cit., f. 34), scrive che prima di Lepanto «già era da tutte le parti il Christianesimo pieno di terrore».
(32) Interessante documentazione in Guido Antonio Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, Milano 1930.
(33) Andrea Dragonetti de Torres, La Lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luis de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II,
Bocca, Torino 1931, p. 64. Peraltro, san Pio V aveva già ricevuto la
notizia per mezzo di un rivelazione divina: cfr. card. Giorgio Grente, Il pontefice delle grandi battaglie San Pio V, Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.
(34) Ibid., pp. 62-63
(35) G. P. Contarini, op. cit., f. 54 r.
(36) Citato, non a caso, da Giovanni Cantoni, in conclusione del suo saggio introduttivo a P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 50.
(37) Cfr. Pio Paschini, voce Lepanto, in Enciclopedia Cattolica.
http://traditiomarciana.blogspot.it/2017/10/madonna-del-rosario-la-battaglia-di.html
LEPANTO E LA CRISTIANITA'
Lepanto: San Pio V salva la Cristianità. Con Sebastiano Venier,
comandante della flotta veneziana. Oggi è l’anniversario della battaglia
di Lepanto (7 ottobre 1571): ricordiamo questa pagina gloriosa della
Cristianità con una scheda sulla battaglia
LEPANTO E LA CRISTIANITA'
Lepanto: San Pio V salva la Cristianità
Oggiè
l’anniversario della battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571): ricordiamo
questa pagina gloriosa della Cristianità con una scheda sulla battaglia.
I Turchi avevano vinto:
- nel 1389 nel Kossovo contro i serbi;
- nel 1396 a Nicopoli contro i crociati guidati dal re d'Ungheria;
- nel 1414 a Negroponte contro i veneziani;
- nel 1417 a Valona;
- nel 1418 a Girocastro;
- nel 1430 a Salonicco contro i veneziani;
- nel 1453 a Costantinopoli mettendo fine all'Impero Bizantino;
- nel 1462 a Lesbo contro i genovesi;
- nel 1463 contro i greci dell'Impero di Trebisonda;
- nel 1463 contro i bosniaci a Jace;
- nel 1480 a Otranto contro gli italiani;
- nel 1521 a Belgrado contro gli ungheresi;
- nel 1522 a Rodi contro i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme;
- nel 1527 a Mohacs contro gli ungheresi;
- nel 1571 a Cipro contro i veneziani.
Nel 1529 avevano assediato gli austriaci a Vienna.
Nella
seconda metà del secolo XVI i Turchi dominavano la Grecia, l'Albania,
la Serbia, la Bosnia, l'Ungheria, la Transilvania, la Moldavia e la
Valacchia.
La
vittoria della Lega Santa a Lepanto fu un evento d'importanza simile
alla battaglia di Poitiers. Nel 732 vennero fermati gli Arabi, nel 1571
vennero fermati i Turchi. Ancora una volta la spada dell'Islam era stata
spezzata dall'Occidente (cristiano, ndr).
La Lega Santa
Il
20 maggio 1571 venne firmata la Lega Santa contro i Turchi. Vi
aderirono il regno di Spagna, la repubblica di Venezia, lo Stato
Pontificio, le repubbliche di Genova e di Lucca, i Cavalieri di Malta, i
Farnese di Parma, i Gonzaga di Mantova, gli Estensi di Ferrara, i Della
Rovere di Urbino, il duca di Savoia, il granduca di Toscana.
Le spese erano divise in sei parti: tre erano a carico della Spagna, due di Venezia e una del papa.
La
Lega era stata fermamente voluta da Pio V, Michele Ghislieri, nato ad
Alessandria nel 1504, povero pastore di pecore, frate domenicano,
inquisitore. Divenuto papa nel 1566 riformò rigorosamente la Curia e la
città di Roma. Combatté l'eresia protestante in tutta Europa.
La flotta cristiana
Il
comando militare della flotta venne affidato a Giovanni d'Austria,
figlio naturale di Carlo V e fratellastro del re di Spagna Filippo II.
Suoi luogotenenti furono:
- Marcantonio Colonna, comandante della flotta pontificia.
- Sebastiano Venier, comandante della flotta veneziana.
I preparativi si protrassero a lungo e la flotta si poté riunire a Messina solo il 24 agosto.
La flotta era costituita da:
-
104 galee sottili sotto il comando della Repubblica di Venezia; 54
erano con equipaggi provenienti da Venezia, 30 da Creta, 7 dalle Isole
Ionie, 8 dalla Dalmazia, 5 da città di terraferma.
-
6 galeazze sotto il comando della Repubblica di Venezia. Le galeazze
erano munite di 40 o più cannoni, in grado di sparare palle da 13
chilogrammi in coperta e da 23 chilogrammi da sottocoperta. Si trattava
di vere e proprie fortezze galleggianti.
- 36 galee sotto il comando del re di Spagna con equipaggi di Napoli e Sicilia.
-
22 galee sotto il comando del re di Spagna con equipaggi di Genova; si
trattava di navi prese a nolo dal finanziere Gian Andrea Doria.
- 12 galee mandate da Cosimo I dei Medici, armate ed equipaggiate dai Cavalieri dell'ordine pisano di Santo Stefano
- 12 galee dello Stato Pontificio, concesse dai veneziani ed armate ed equipaggiate a spese del papa.
- 3 galee del duca di Savoia (la Piemontese, la Margarita e la Duchessa).
- 3 galee dei Cavalieri di Malta.
In totale 195 tra galee e galeazze.
Gli
equipaggi erano scarsi e costituiti essenzialmente da cristiani
volontari e forzati. La penuria costrinse a mettere solo 3 uomini per
remo.
La truppa era costituita da:
- 20.000 soldati a spese della Spagna;
- 5.000 militari al soldo di Venezia;
- 2.000 soldati pagati dallo Stato Pontificio;
- 3.000 volontari provenienti da tutta la Cristianità.
Complessivamente circa 30.000 uomini.
Sulle galee e sulle galeazze vennero imbarcati 1815 cannoni.
Le
galee veneziane erano in buono stato, ma con pochi soldati. Don
Giovanni d'Austria vi fece imbarcare 4.000 soldati italiani e spagnoli.
La
flotta cristiana salpò il 16 settembre dirigendosi verso Corfù. Le navi
esploratrici confermarono che la flotta turca era nei pressi del golfo
di Lepanto.
La flotta turca minaccia l'Italia
I Turchi fin da febbraio avevano allestito una flotta di 250 galee e 100 navi da rifornimento e supporto.
I
costruttori delle galee erano abili carpentieri rinnegati, che il
Sultano ricompensava molto bene. Molti dei capitani delle navi erano
anch'essi greci o veneziani rinnegati. Gli equipaggi non avevano grande
esperienza. I rematori erano cristiani catturati e ridotti in schiavitù.
Il comandante della flotta era Mehemet Alì Pascià.
Parte della flotta andò a sostenere l'assedio di Famagosta a Cipro.
Un'altra
parte della flotta si diresse verso Creta. 3.000 contadini cretesi
furono uccisi. Ma l'ammiraglio veneziano Marcantonio Querini riuscì a
respingere l'attacco e i Turchi si dovettero allontanare.
Veleggiarono
verso Zante (odierna Zakynthos) e Cefalonia (odierna Kefallenia), dove
catturarono 7.000 cristiani e li misero a remare sulle loro galee.
Poi le galee turche si diressero verso l'Adriatico.
I
Turchi si impadronirono di Durazzo (odierna Durres), Valona (odierna
Vlore), Dulcigno (odierna Ulcinj), Antivari (odierna Bar), Lesina
(odierna isola di Hvar), attaccarono Curzola (odierna isola di Korcula).
Intanto
le 80 galee del corsaro Uluj Alì attaccarono Zara e altre città della
Dalmazia. Uluj Alì, chiamato anche Occhiali, era un pescatore calabrese
rinnegato, divenuto dey di Algeri.
Kara Hodja, un altro corsaro devastò il golfo di Venezia. Il rombo del cannone si udiva da piazza S. Marco.
Anche Corfù, ad eccezione del castello, venne conquistata dai musulmani.
A
giugno il sultano Selim II, detto "L'ubriacone", ordinò che la flotta
si fermasse a Lepanto (odierna Naupaktos; bizantina Epachthos) in una
piccola baia tra il golfo di Corinto e quello di Patrasso. Arrivarono i
rinforzi da Negroponte (odierna isola Eubea): 2.000 spahis e 10.000
giannizzeri.
La
flotta divenne una minaccia permanente. Da Lepanto la flotta turca
avrebbe potuto attaccare la costa italiana in qualsiasi momento.
Prima della battaglia
Il
5 ottobre la flotta cristiana si fermò nel porto di Viscando, non
lontano dal luogo della battaglia di Azio. C'era nebbia e un forte
vento. Le galee non potevano prendere il mare.
Un
brigantino portò la notizia della caduta di Famagosta (in turco
Famagusta; in greco Ammocosthos) e dell'orribile fine inflitta dai
musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la
fortezza.
Il
1° agosto i veneziani si erano arresi con l'assicurazione di poter
lasciare l'isola di Cipro. Mustafà Lala Pascià, il comandante turco che
aveva perso più di 52.000 uomini nell'assedio, non mantenne la parola. I
soldati veneziani furono imprigionati e incatenati ai banchi delle
galee turche.
Venerdì
17 agosto Bragadin venne scorticato vivo di fronte ad una folla di
musulmani esultanti. La pelle di Bragadin venne riempita di paglia. Il
manichino fu innalzato sulla galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle
teste di Alvise Martinengo e Gianantonio Querini. I macrabri trofei
furono poi inviati a Costantinopoli, esposti nelle strade della capitale
ottomana ed infine portati nella prigione degli schiavi.
Il comportamento dei musulmani accrebbe la voglia di combattere dei cristiani.
I
soldati della Lega Santa sapevano che la battaglia era decisiva per la
Cristianità. In caso di sconfitta le coste di Italia e Spagna sarebbero
rimaste esposte agli attacchi dei musulmani. L'Islam era pronto a
colpire il cuore dell'Occidente. Roma era in pericolo.
Lo schieramento della flotta cristiana
Domenica
7 ottobre Giovanni d'Austria fece schierare le proprie navi in
formazione serrata. Non più di 150 metri separavano le galee.
Venne costituita una formazione a croce.
Al
centro si pose Giovanni d'Austria con 64 galee. La sua nave ammiraglia
era la Real. A fianco si pose l'ammiraglia del comandante veneziano
Sebastiano Venier, una cui nipote era stata ridotta in schiavitù
nell'harem di Costantinopoli. Sull'ammiraglia pontificia era Marcantonio
Colonna. Sull'ammiraglia di Savoia il conte Provana di Leynì.
Sull'ammiraglia di Genova Ettore Spinola. Due galeazze furono poste
davanti al centro della flotta.
L'ala
sinistra venne affidata principalmente ai veneziani sotto il comando di
Agostino Barbarigo. Al lato più estremo, più esposto ai tentativi di
aggiramento, si pose Marcantonio Querini. Davanti alle galee veneziane
furono inviate due galeazze al comando di Antonio e Ambrogio Bragadin,
parenti del senatore scorticato vivo.
All'ala
destra si schierarono galee e combattenti di diverse nazionalità, sotto
il comando del genovese Gian Andrea Doria. Erano presenti anche molti
volontari tra cui l'italiano Alessandro Farnese, il francese Crillon,
l'inglese Sir Thomas Stukeley, l'esiliato Giacomo IV, duca di Naxos. Due
galeazze veneziane furono poste davanti al settore sinistro.
La retroguardia venne posta sotto il comando di Santa Cruz con tre galee dei Cavalieri di Malta.
Lo schieramento dei Turchi
I Turchi si disposero a mezzaluna.
Vennero schierate 274 navi da guerra, di cui 215 galee.
I musulmani avevano 750 cannoni.
Il
centro turco, al comando diretto di Mehmet Alì Pascià, era costituito
da 96 galee. Di fronte ai veneziani era Muhammad Saulak, detto anche
Maometto Scirocco, governatore dell'Egitto, con 56 galee.
Uluj
Alì, il rinnegato Occhiali, con 63 galee e galeotte, era di fronte a
Gian Andrea Doria, che a Tripoli era dovuto fuggire di fronte al
corsaro.
Una forte riserva, comandata da Amurat Dragut, era dietro la linea delle galee turche.
Mehmet
Alì Pascià era a bordo della Sultana, su cui sventolava il vessillo
verde su cui era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di
Allah.
La battaglia
La
flotta cristiana bloccò l'ingresso del golfo di Lepanto. I musulmani,
obbedendo all'ordine impartito dal sultano Selim II, accettarono la
battaglia.
Con un rumore assordante iniziarono l'avvicinamento suonando timpani, tamburi, flauti. Il vento era a loro favore.
La flotta cristiana era nel più assoluto silenzio.
Quando
le flotte giunsero a tiro di cannone i cristiani ammainarono tutte le
loro bandiere e Giovanni innalzò lo stendardo con l'immagine del
Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i
combattenti ricevettero l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da
Pio V per la crociata.
Il vento improvvisamente cambiò direzione. Le vele dei Turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.
Giovanni
d'Austria puntò diritto contro la Sultana. Il reggimento di Sardegna
diede l'arrembaggio alla nave turca che divenne il campo di battaglia. I
musulmani a poppa e i cristiani a prua. Al terzo assalto i sardi
arrivarono a poppa. Giovanni venne ferito ad una gamba. Mehmet Alì
Pascià venne ucciso da un colpo di archibugio.La Sultana si arrese. Alle
due del pomeriggio Giovanni poté riprendere il controllo della flotta.
Muhammad
Saulak era riuscito ad aggirare il fianco sinistro. Agostino Barbarigo
fu attaccato da otto galee turche contemporaneamente. Barbarigo, ferito
ad un occhio da una freccia, dovette cedere il comando a Federico Nani.
Sei galee veneziane furono affondate. Muhammad Saulak stava per
prevalere. Ma improvvisamente i rematori cristiani si sollevarono dai
banchi di schiavitù e con le catene si gettarono sulle scimitarre dei
loro aguzzini. I veneziani ripresero il sopravvento. Muhammad Saulak
venne ucciso.
All'ala
destra Uluj Alì e Gian Andrea Doria manovravano per trovarsi in
posizione di vantaggio. Alessandro Farnese con i suoi 200 uomini
conquistò una galea turca. Diego di Urbino, comandante della Marquesa,
ordinò a Miguel Cervantes di aggirare una galea con una scialuppa.
Cervantes fu ferito due volte, al petto e alla mano.
Sia
il Doria che Uluj Alì, prima della battaglia, avevano tentato di
dissuadere i loro comandanti dal dare battaglia. Nessuno dei due voleva
mettere a rischio le proprie navi. Uluj Alì manovrò per aggirare l'ala
destra dello schieramento. Doria spostò le sue galee verso destra per
fermare i Turchi, lasciando aperto un varco tra il centro e l'ala
destra. Giovanni ordinò al Doria di ricompattare lo schieramento, ma
Uluj Alì fu veloce a infilarsi nel varco improvvisamente apertosi con le
sue galee corsare.
Uluj
Alì, con il vento in poppa, aggredì da dietro la Capitana, la nave
ammiraglia dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro
Giustiniani, priore dell'Ordine. La Capitana venne circondata da sette
galee. Uluj Alì catturò il vessillo dei Cavalieri di Malta, fece
prigioniero Giustiniani, che era stato ferito sette volte, e prese a
rimorchio la Capitana.
L'ammiraglio
Santa Cruz intervenne con la retroguardia. Il capitano Ojeda, al
comando della galea Guzmana, raggiunse la Capitana, l'abbordò e la
riconquistò. Uluj Alì fu costretto ad abbandonare la preda. Con una
quindicina di galee e di galeotte fuggì, si nascose nelle isole dei
dintorni, si impadronì di una lenta galea veneziana, la Bua, e si
diresse verso Costantinopoli.
Alle 4 del pomeriggio i Turchi erano stati completamente sconfitti. I pochi superstiti si ritirarono verso l'interno del golfo.
Le perdite dei Turchi
80 galee turche furono affondate. 117 furono catturate. 27 galeotte furono affondate e 13 catturate.
I Turchi persero 30.000 uomini tra morti e feriti. Altri 8.000 furono fatti prigionieri.
Vennero liberati 15.000 cristiani che erano stati ridotti in schiavitù e incatenati ai banchi delle galee.
Le perdite della Lega Santa
I cristiani persero 15 galee, ebbero 7.650 morti e 7.780 feriti.
S. Maria delle Vittorie sull'Islam
Pio V stabilì che il 7 ottobre fosse un giorno festivo consacrato a S. Maria delle Vittorie sull'Islam.
Gregorio XIII trasferì la festa alla prima domenica del mese di ottobre con il nome di Madonna del Rosario.
Pio V venne proclamato santo da Clemente XI il 22 maggio del 1712.
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-cultura-delle-venezie/storia-della-serenissima/1012-lepanto-e-la-cristianita
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