ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 2 ottobre 2017

Non saremo soli


ECCO QUAL'E' IL PUNTO           
  
Una Weltanschauung cattolica: una chiesa compendio di tutte le chiese del mondo. Composizione perfetta che riassume il senso di una civiltà, quella italiana ed europea. Un universo dell’ordine morale del Vangelo di Gesù Cristo 
di Francesco Lamendola   
 

 Uscendo dal centro rinascimentale, avevo varcato un portone di legno, enorme, carico di secoli, un oggetto quasi impensabile in altre parti d’Europa, per non parlare degli Stati Uniti, che si apre nella cinta muraria, e avevo proseguito lungo la strada in discesa che porta all’antico borgo, appollaiato a mezza costa della collina, su cui si affacciavano alcune botteghe e locali nello stile degli anni ’50 del Novecento, come se il tempo si fosse fermato; di lì, andando ancora dritto, avevo scoperto un altro borgo ancora, attraversato da un’arteria assai lunga e fiancheggiata da muretti su un lato, da case sull’altro, che parevano sospese sul ripido versante del colle, affacciato sulle Alpi maestose, vicinissime, i profili dentellati e quasi surreali, sotto un cielo estivo azzurrissimo.  Le case, come in tutti i borghi prealpini, con i vasi di gerani alle finestre, presentavano il ballatoio di legno e le scale esterne e avevano la caratteristica struttura a cortivo, con degli spazi interni che s’intravvedevano dai portoni incorniciati d’edera, sormontati da archi secolari. Ora il movimento si era fatto scarsissimo, ma s’intuiva, da vari particolari urbanistici, che il borgo, un tempo, doveva essere stato tutt’altro che la periferia in senso economico, bensì la parte pulsante di quella splendida cittadina ai piedi delle montagne, coi suoi opifici e magazzini, con le sue fontane e botteghe; mentre il centro storico, più antico, era stato interamente occupato dai prestigiosi palazzi della nobiltà, coi loro mascheroni in pietra e i loro terrazzi di marmo, con le chiese eleganti e i vari uffici amministrativi e direzionali.

Superata una vecchia chiesa di notevole impianto architettonico, con il monumento funebre di un illustre personaggio scolpito sulla facciata, ma ormai chiusa e sconsacrata, e poi un’atra chiesa, moderna, questa, e sede parrocchiale, la strada, salendo, giungeva alla sommità della collina e si percepiva che, oltre, non c’è più nulla: l’area urbana finiva ed era come essere giunti in cima al promontorio del mondo: sensazione strana, in una città del XX secolo, che ricordava i tempi lontani, quando lo stacco fra le città e la campagna era nettissimo, e le ultime case urbane avevano l’aspetto di sentinelle poste al limite estremo di un mondo conosciuto, di uno spazio ben definito, oltre il quale si aprivano un altro mondo, completamente diverso, e un altro spazio, indefinito e pressoché ignorato. Proprio in fondo alla salita c’era, sulla sinistra, un ulteriore rialzo del terreno, e lì, proprio lì, gli abitanti nel XVII secolo avevano eretto una chiesa di non grandissime dimensioni, ma che, per la posizione eminente e per le forme armoniose e svelte, d’un barocco piuttosto sobrio e assai gradevole, pareva assai più elevata di quel che realmente fosse, con la breve rampa a gradoni che conduceva all’ingresso, la facciata verticale, con il frontone a timpano, e il campanile elegantissimo che svettava dietro il tetto, sulla sinistra. Davanti, un minuscolo prato ed un unico albero, un platano dalla chioma fortemente espansa, che pareva un gigante, forse anch’esso per la prospettiva da cui lo si nota arrivando dal basso, e che lo fa apparire, illusoriamente, perfino più alto del campanile. Il tronco e i rami proiettavano una lieta macchia di verde sulla bianca facciata, appena mossa dalle sottili lesene di colore rosa, che la spartiscono in sei spazi regolari e misurati, tre in basso e tre in alto, accentuando la verticalità dell’edificio, cosa che conferisce al tutto l’insieme un carattere simpaticamente campagnolo, quasi agreste, rafforzando l’impressione che qui la città finisce per davvero e incomincia il regno dei prati e dei boschi, oggi percorso – ma da lì non si vedevano, per fortuna – dalle strade asfaltate a scorrimento veloce, abbastanza trafficate, le quali avvolgono l’area urbana e la circondano da ogni lato, giù in basso. Pertanto, un po’ come nella poesiaL’infinito di Leopardi, quest’ultima chiesa, svettante serena e un poco trasognata, sull’ultimo bastione prima che il mondo familiare della città finisca, e che, con la sua stessa posizione, nasconde alla vista ciò che sta oltre, mi comunicava una suggestione strana, come vi si respirasse un’aria antica, che mi riportava alla memoria, in qualche modo, gli anni lontani dell’infanzia.




Queste cose coglievo con i sensi, ma solo più tardi le avrei raggruppate ed analizzate con la mente; sul momento, respiravo solo una piacevole sensazione di scoperta e quasi d’entusiasmo, per il fatto che così, procedendo a caso lungo una vecchia strada d’una città che, allora, praticamente non conoscevo, perché era solo la seconda o terza volta che ci capitavo, mi ero imbattuto in quell’angolo solitario che a me pareva felice, nel senso di sottratto alla fretta, al chiasso, al disordine della vita moderna, come se il tempo fosse stato indulgente con quella estrema propaggine urbana e le avesse concesso una condizione intermedia, simile a quella d’un Limbo sospeso fra due mondi, il dentro e il fuori, le case e il verde, il presente e il passato. Era uno di quei luoghi felici dove si ha voglia di fermarsi e di non procedere oltre, perché sono così belli e perfetti, nella loro semplicità, nella loro naturalezza, che si teme la disillusione; un po’ come succede, in una giornata speciale, di aver timore a fare o dire qualsiasi cosa in più, quasi che l’incantesimo potesse spezzarsi e quella magica sospensione, dissolversi come nebbia al sole. In un luogo così, viene da dire, come Goethe parlando del’attimo: Fermati, sei bello!; e anche se, più tardi, ci sono tornato più volte, e mi son fatto aprire il portone e ho potuto ammirare anche l’interno della chiesa, dedicata alla Beata Vergine di Loreto, un interno che regge il confronto con l’aggraziata sobrietà barocca dell’esterno, tuttavia mai più ho provato le stesse emozioni della prima volta e mai ho goduto con altrettanta intensità il piacere di quella piccola scoperta personale, e la pace d’un luogo così magnificamente appartato e raccolto, pur essendo, al tempo stesso, così poco distante dal cuore dell’antica, meravigliosa città posta ai piedi delle Alpi.
Naturalmente, mi sono chiesto più volte da dove nascesse il fascino arcano di quel luogo e di quel momento, per giungere alla conclusione che non era dovuto soltanto alla bellezza effettiva dell’edificio, del platano, del borgo, o magari dell’azzurro cielo estivo, e nemmeno soltanto al lavorio della memoria, che portava con sé, spontaneamente, associazioni di ricordi con altri luoghi e altri anni, facendo quasi rivivere pagine dimenticate e riaprendo il libro del passato, cosa che porta con sé un lieve profumo di quell’incanto e di quello stupore con i quali, da piccoli, si guarda il mondo, e specialmente si ammirano le cose nuove, perché i bambini non danno nulla per scontato e si sorprendono di tutto, come fosse una festa. Ho compreso che c’era dell’altro, che c’era molto di più; e che non si trattava unicamente dell’effetto di fattori estetici o psicologici, ma di una sensazione spirituale vera e propria, viva, potente, che scaturiva da quella chiesa, dalle sue forme, dall’atmosfera che essa evocava, lassù, in fondo alla prospettiva in salita, stagliandosi contro l’ampio cielo di una bella mattina estiva. Era come se quella chiesa fosse il compendio di tutte le chiese del mondo, e come se quel campanile, quel platano, quella breve scalinata, così raccolti insieme a formare un unico quadro, una composizione perfetta, riassumessero il senso di una civiltà, di un universo, di un ordine morale: la civiltà italiana ed europea; l’universo dellaWeltanschauung cattolica; l’ordine morale del Vangelo di Gesù Cristo. Era come se queste tre dimensioni fossero compenetrate, fuse e riassunte in quella scena, in quello scorcio architettonico, il quale, a quel punto, cessava di essere un luogo fisico, per quanto ameno, per quanto privilegiato, per diventare un luogo dell’anima, recante il profumo dell’infinito, dell’assoluto e dell’eterno. Era bello essere lì, e contemplare quelle linee, quelle forme, quei colori, perché lì si sentivano le radici antichissime dalle quali si alimenta la vita del nostro Paese e del nostro continente, della nostra civiltà, della nostra tradizione, della nostra storia.
In quel luogo incantevole, che pure ha conosciuto le tragedie della violenza e della guerra - non vi si trovano che pochissimi edifici medievali, perché nel 1510 fu letteralmente raso al suolo da un nemico spietato, che trucidò tutti gli abitanti, ma appena due anni dopo era già stato ricostruito e ripopolato – si esprimeva l’anima del mondo al quale appartenevo, non in quanto individuo fisico, atomo fra milioni di atomi, ma in quanto membro di una comunità ideale che ha un lunghissimo e glorioso passato dietro di sé, e che ha dato ai suoi figli e all’umanità intera, oltre a prodigi innumerevoli di bellezza, di arte, di cultura, d’intelligenza, di scienza, di pensiero, anche e soprattutto un fertilissimo spessore spirituale, un humus impareggiabile per nutrire la vita soprannaturale dell’anima. E quell’humus è il Vangelo, la Parola del Signore Gesù Cristo, fattosi uomo per amor nostro, morto e risorto per farci sapere che noi siamo i suoi figli diletti, che la nostra vita ha un senso e che quel senso consiste nell’amare, servire e adorare Lui solo, il Creatore e il Redentore del mondo, nel quale si trovano la pace ed ogni beatitudine. E perciò in quel luogo, in quel momento, io sentivo, oscuramente, inconsapevolmente, ma intensamente, profondamente, io sentivo, con ogni fibra del mio essere, di aver fatto ritorno a casa: perché lì, provvisoriamente sottratto allo strepito e al materialismo della civiltà moderna – antitradizionale, anticristiana, e perciò nemica dell’uomo e di se stessa – mi vedevo felicemente restituito alle mie radici, alla  mia interiorità, al mio vero essere. Ecco: quello era un luogo, splendente in mezzo a migliaia di non-luoghi della modernità; e i luoghi hanno un’anima, mentre i non-luoghi ne sono privi; e l’anima di quel luogo era l’anima dell’Europa, del Vangelo e della civiltà cattolica, che si esprimeva nel linguaggio figurativo di quella svelta chiesa barocca, di quel platano amico, di quelle campane dal suono festoso, di quelle rondini nel cielo azzurro, di quel borgo ch’era stato pieno di vita, di lavoro, di traffici, e che ora pareva riposare e ripensare al passato, come un paio d’occhi dietro le palpebre chiuse, persi in un sogno che nessun altro conoscerà mai.


Ecco qual è il punto

di Francesco Lamendola


Del 02 Ottobre 2017
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