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domenica 3 dicembre 2017

La guerra statunitense al cattolicesimo

            La guerra delle croci     


L’evangelicalismo si è affermato in pochi anni come la religione con il tasso di crescita più alto del mondo e non perché sia in corso un semplice risveglio spirituale nel protestantesimo, ma per un disegno di geopolitica religiosa ideato negli Stati Uniti.


Era il 1969, l’ambizioso piano statunitense per la rinascita economica dell’America Latina, l’Alleanza per il Progresso, era stato ufficialmente considerato un fallimento dal neoeletto presidente Richard Nixon e Nelson Rockefeller, incaricato di ruoli importanti nella politica americana sin dai tempi dell’amministrazione Roosevelt, fu inviato nel subcontinente per studiare le cause dell’insuccesso e redarre un rapporto che potesse aiutare gli Stati Uniti a non perdere il controllo del proprio giardino di casa. L’analisi di Rockefeller, molto lucida ed oggettiva, giunse ad una conclusione: le storiche intromissioni di lunga data del paese nel subcontinente impedivano il sorgere di sentimenti filoamericani nella popolazione, fiduciosa del fatto che il cattolicesimo e il comunismo avrebbero infine prevalso sull’imperialismo statunitense.




Nelson Aldrich Rockefeller è stato un politico e uomo d’affari appartenente alla potente famiglia Rockefeller. Impegnato nella politica sin dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, è stato vicepresidente degli Stati Uniti e governatore di New York.



L’America Latina era un continente in subbuglio: nel 1959, Cuba, avamposto statunitense nei Caraibi dal 1902, era diventata un regime comunista, il regime miliare argentino era scosso dalla guerra politica dei Montoneros, in Cile andava consolidandosi il fronte di sinistra capeggiato dal marxista dichiarato Salvador Allende e nel 1968 il Consiglio Episcopale Latinoamericano riunitosi a Medellin (Colombia) aveva dato l’avallo alla diffusione della teologia della liberazione, una dottrina politico-religiosa unente aspetti propri del cattolicesimo militante e del comunismo con l’obiettivo di mobilitare attivamente le popolazioni nella lotta (essenzialmente armata) contro le ingiustizie sociali ed economiche caratterizzanti i paesi latinoamericani. La teologia della liberazione fu ampiamente combattuta dai pontificati, soprattutto quello di Giovanni Paolo II, perché accusata di aprire le porte all’accettazione del comunismo, giustificare la violenza politica ed enfatizzare la dimensione materiale della liberazione, anziché quella spirituale. La lotta contro i cattolici che decisero di sposare la lotta armata al fianco dei guerriglieri comunisti portò alla scomunica e all’allontanamento di diversi cardinali, sostituiti con conservatori provenienti da Roma. Durante gli anni delle dittature militari, il cattolicesimo rivoluzionario di sinistra non perse forza d’attrazione, ma l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, divenendo una delle tante, sfortunate, espressioni di rivolta popolare partorite dall’America Latina contro l’imperialismo statunitense.

Alla data del rapporto Rockefeller sulle Americhe, si professava cattolica il 92% della popolazione latinoamericana, una cifra incredibilmente elevata, legata al plurisecolare dominio iberico sul subcontinente e alla capillare diffusione di strutture di aiuto sociale legate al mondo cattolico che fornivano assistenza agli strati più deboli delle popolazioni latinoamericane. Una cifra da ridurre, sia perché il cattolicesimo negli Stati Uniti era stato sempre visto in antitesi alla natura protestante del paese, sia perché essere cattolici equivaleva fedeltà al Papa e – secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, forze comuniste (quindi antiamericane) si erano infiltrate in Vaticano sin dai tempi del Concilio Vaticano II. I suggerimenti del rapporto riguardanti la necessità di una riduzione delle vistose interferenze statunitensi nel panorama continentale furono presi alla lettera e, iniziando dall’amministrazione Nixon, fu avviato un programma di finanziamento delle chiese evangeliche presenti in America Latina, idealmente viste come cavallo di Troia con cui indebolire la presa cattolica sulla popolazione. Nel 1980, Roger Fontaine e Lewis Tambs, due figure specializzate in questioni latinoamericane al servizio dell’incombente amministrazione Reagan, realizzarono il documento di Santa Fe, manifesto ideologico della guerra statunitense al cattolicesimo. La strategia avrebbe fatto uso del doppiogioco: gli Stati Uniti avrebbero collaborato con Giovanni Paolo II per dare la caccia ai teologi della liberazione, simultaneamente finanziando un’operazione di proselitismo evangelico, essendo giudicato un alleato inaffidabile il Vaticano per il grado di infiltrazioni comuniste al suo interno, in modo da tale da americanizzare religiosamente la parte sud del continente. Quattro anni dopo, gli stessi strateghi aggiunsero un nuovo obiettivo alla strategia: trasformare gli evangelici nei portavoce degli interessi nazionali statunitensi in America Latina.


Ronald Wilson Reagan (6-2-1911, Tampico – 5-6-2004, Los Angeles), è stato presidente degli Stati Uniti per due mandati, dal 1981 al 1989. È stato un convinto sostenitore dell’efficacia della geopolitica della fede, applicata durante il suo mandato in Europa orientale, in Afganistan e in America Latina

In ottemperanza al documento di Santa Fe, nel 1981 fu fondato l’Istituto sulla religione e la democrazia, utilizzato per finanziare l’espansione delle chiese evangeliche nel mondo, specialmente nelle Americhe. L’operato dell’istituto ha ricevuto critiche anche da ambienti protestanti, come la Chiesa unita di Cristo che gli ha imputato la diffusione di tendenze ultraconservatrici poco attinenti la religione – come interventismo militare e negazionismo del cambiamento climatico, tra gli evangelici impegnati nella politica statunitense. Un lettore sprovveduto sicuramente si chiederà per quale motivo venga data così tanta importanza alla religione in un mondo in cui essa sembra rivestire sempre meno importanza, soprattutto in Occidente, ma la risposta è semplice: religione è controllo sulla mente delle persone, quindi capacità di influenzare idee, pensieri e comportamenti in maniera radicale. I mujaheddin afgani non vinsero la guerra di resistenza perché antisovietici o anticomunisti, ma perché motivati da un’ideologia molto più potente della politica: la fede.

Gli Stati Uniti hanno visto nell’evangelicalismo il potenziale braccio spirituale del loro imperialismo, non solo per l’intrinseco, verace, antipapismo, o per la sua natura anglosassone, ma anche per l’assenza di una struttura verticistica facente capo ad un’autorità suprema – per via della lettura fondamentalista testamentaria, che ha permesso la costruzione di un network internazionale di natura semiorizzontale molto efficace, ruotante attorno la World Evangelic Alliance, che da New York segue i progressi del proselitismo evangelico in 129 paesi, producendo pubblicazioni e programmi d’azione internazionali. Numerosi leader evangelici del Sud globale sono stati formati a livello professionale (acquisendo le nozioni della tele-evangelizzazione made in Usa), dottrinale ed ideologico negli Stati Uniti – come Edir Macedo, il fondatore della potentissima Chiesa Universale del Regno di Dio –, oltre che aiutati nella diffusione iniziale delle chiese, diventando i promotori d’un messaggio teologico radicalmente diverso da quelli d’estrazione cattolica: la teologia della prosperità. All’insegna di questa teologia, secondo la quale la costanza nella manifestazione nella fede verrebbe ricompensata da Dio attraverso la ricchezza, personaggi controversi come Cash Luna, fondatore della Casa di Dio in Guatemala, o Macedo, hanno saputo accogliere tutti quei cattolici (soprattutto poveri) che, sentendosi traditi dalla guerra mossa dalla Santa Sede contro i teologi-rivoluzionari e i preti-guerriglieri latinoamericani della guerra fredda, sono fuggiti in massa dalla chiesa cattolica.



La megachiesa di San Cristobal, in Guatemala, è uno dei più grandi edifici religiosi evangelici dell’America Latina. Alla sua cerimonia d’inaugurazione hanno preso parte oltre 12mila persone

L’espansione globale dell’evangelicalismo non è totalmente da imputare all’influenza statunitense, ma anche ad errori commessi da parte della chiesa cattolica – scandali finanziari e sessuali, appoggio a dittature, lotta alle teologie rivoluzionarie di sinistra, crisi del modello cattolico di welfare, e la combinazione di questi fattori ha prodotto dei risultati incredibili: nel 2014, dati del Pew Research Center alla mano, la popolazione latinoamericana dichiaratamente cattolica era scesa al 69%, il 23% di fedeli in meno dal 1970, mentre i protestanti evangelici erano cresciuti dal 9% al 19% della popolazione totale. Nello stesso periodo, a livello globale, gli evangelici hanno registrato tassi di crescita due volte superiori quelli dell’islam e tre volte quelli della popolazione mondiale, raggiungendo quota 285 milioni di fedeli. È in Brasile che la geopolitica della fede statunitense ha riscosso più successo che altrove: l’Istituto Datafolha ha stimato che nel periodo 1970-2016 i cattolici si siano ridotti del 40%, passando dal 90% al 50% della popolazione, mentre gli evangelici sono diventati il 29% della popolazione e la metà di loro si dichiara ex cattolico. Non è un caso che la decattolicizzazione indotta sia stata particolarmente orientata verso il Brasile: prima potenza politica ed economica dell’America Latina, paese più cattolico del mondo, potenziale ostacolo per gli interessi statunitensi nel continente in virtù del suo peso geopolitico, ulteriormente malvisto dopo i due governi Lula.

L’ascesa dei movimenti evangelici in Brasile non ha avuto riflessi solo a livello sociale e religioso, ma soprattutto politico. Nel 2016, durante le votazioni per l’impeachment di Dilma Rousseff, l’unione in blocco dei parlamentari affiliati a sigle evangeliche – guidata da Eduardo Cunha, membro della chiesa evangelica Assembleia de Deus, ha avuto un ruolo importante nella destituzione e nella sua sostituzione con Michel Temer. Una volta insediatosi alla presidenza, Temer ha stabilizzato il governo alleandosi con lobby legate al latifondo e all’evangelicalismo. Uno dei gesti più emblematici è stata la nomina di Marcos Pereira, vescovo della Chiesa Universale del Regno di Dio, come ministro dello sviluppo, industria e commercio. Ed è proprio la Chiesa Universale del Regno di Dio, trasformatasi da una piccola sigla legata alla realtà afrobrasiliana nel più influente gruppo di pressione politico e nella più grande chiesa evangelica del paese, con ramificazioni in più di 170 Stati, a simboleggiare la sconfitta del cattolicesimo in America Latina. Fondata nel 1977 a Rio de Janeiro, soltanto 20 anni dopo aveva un seguito nazionale di 8 milioni di persone. A parte il mistero aleggiante sui primi anni della chiesa e la provenienza del capitale di Macedo, alcune cose sono certe: negli anni ’80 fece diversi viaggi negli Stati Uniti alla ricerca di supporto per la causa evangelica in Brasile, lì fu istruito alle migliori tecniche del tele-evangelismo e la sua chiesa assunse una rigida posizione anticattolica, finendo al centro di diversi scandali per azioni come roghi di santini o insulti a statue della Madonna, spesso avvenute in diretta televisiva.




Oggi, Macedo è uno degli uomini più ricchi del pianeta ed uno dei più influenti nel panorama politico e mediatico nazionale, capo d’un impero che comprende emittenti radiofoniche, reti televisive, giornali, case editrici e discografiche. Il potere mediatico a disposizione di Macedo è così elevato da essere stato sfruttato durante le elezioni generali del 2010 dal Partito dei Lavoratori per ottenere maggiore spazio nelle reti televisive, strategia risultata vincente con l’insediamento di Dilma Rousseff alla presidenza. A San Paolo, la Chiesa Universale ha costruito una gigantesca replica del Tempio di Salomone, capace di ospitare 10mila persone, alla cui inaugurazione nel 2014 parteciparono numerose autorità pubbliche tra cui Rousseff e Temer, simbolo del potere raggiunto nel paese, che essa ambisce a decattolicizzare totalmente per trasformarlo in una teocrazia basata sugli insegnamenti evangelici – come spiegato nel libro Plano de poder di Macedo, pubblicato nel 2008.

L’ascesa degli evangelici, e soprattutto la loro disponibilità economica e l’influenza sulla politica, hanno spinto il papato ad agire, ma troppo tardi: secondo alcuni cablo di Wikileaks, durante i governi Lula, il Vaticano avrebbe aperto un canale di dialogo con la presidenza brasiliana per discutere delle tensioni crescenti tra cattolici ed evangelici, chiedendo una maggiore attenzione delle autorità dietro la promessa di placare la rabbia montante tra i cattolici. Come il patto segreto stipulato tra i due paesi sia stato gestito nel dopo-Lula e nel dopo-Benedetto XVI non è noto, ma l’influenza degli evangelici nel panorama politico brasiliano è cresciuta ulteriormente dal 2010 ad oggi e il Brasile non sembra rivestire un’importanza primaria per l’agenda geopolitica di Francesco I. Il Partito Repubblicano, espressione politica della Chiesa Universale, acquistando i voti provenienti dal vasto elettorato evangelico, ha raddoppiato il numero di sindaci ed eletti nei seggi locali e nazionali nel giro di pochi anni, diventando la seconda forza politica del paese. Numerosi sono gli evangelici, soprattutto della Chiesa Universale, che hanno fatto carriera nel partito, ottenendo vittorie politiche importanti, l’ultima di tempo è l’elezione di Marcelo Crivella, nipote di Macedo, come sindaco di Rio de Janeiro, nel 2017. L’aumento percentuale degli evangelici nella popolazione totale e nel parlamento ha prodotto un’ondata di conservatorismo sociale in Brasile, ossia esattamente quanto auspicato dal rapporto Rockefeller e dal documento di Fe, riducendo enormemente il peso dei cattolici e della sinistra, nella politica e nel pensiero; e nel resto del continente sta verificandosi lo stesso processo.



Camilo Torres Restrepo (3-2-1929, Bogotà – 15-2-1966, Santander), prete, pensatore e guerrigliero. Uno dei massimi esponenti della teologia della rivoluzione, in Colombia è oggetto di venerazione popolare


Messico, Perù, Nicaragua, Guatemala sono altri casi che bene rappresentano l’epopea evangelica e il declino cattolico. In Guatemala, i cattolici si sono dimezzati dal 1980 al 2010, e nello stesso arco di tempo degli evangelici hanno ricoperto la carica presidenziale, il primo caso del genere in America Latina: Rio Montt, Jorge Serrano Elìas, Jimmy Morales. La decattolicizzazione dell’America Latina riconferma l’importanza della geopolitica religiosa, disegnando nuovi equilibri di potere favorevoli agli Stati Uniti, nuovamente in competizione per l’egemonizzazione del continente dopo decenni di crisi e minacce provenienti da leader carismatici e anti-imperialisti come Allende, Castro, Perón e Chavez. I tentativi di liberazione continentale dal gioco statunitense sono scomparsi insieme alla dipartita del comunismo e della nuova sinistra, e la chiesa cattolica, unico attore ancora capace di ribaltare i rapporti di forza che stanno creandosi, sembra aver perso quella visione lungimirante che le ha permesso di sopravvivere nei secoli a persecuzioni e rivoluzioni, abbandonando lentamente l’America Latina al suo destino di area giochi ad uso esclusivo degli Stati Uniti.

di Emanuel Pietrobon - 2 dicembre 2017     

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