ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 17 gennaio 2018

“A Freudian slip?



Un rivista americana domanda: è un lapsus freudiano?

Anche nell’umorismo i gesuiti dicono mezze verità.


Una rivista americana ha commentato: “A Freudian slip? [Un lapsus freudiano?]“, a seguita della risposta data da papa Bergoglio — “Vado dalla strega” — ad una giornalista che gli chiedeva quale fosse il suo segreto per essere così in forma. Potrebbe essere davvero un lapsus freudiano? Vediamo un po’.
In realtà, non volevamo farci coinvolgere nell’ennesimo “pensiero liquido” ad alta quota, di un viaggio papale, tuttavia la rete è fatta di notizie e questo ci da la possibilità di affrontare, la notizia, nel modo più accurato possibile, o almeno ci proviamo.

Papa Francesco vola in Cile e in Perù. A riguardo dei temi scottanti e dell’agitazione interna alle chiese locali, se ne sta occupando egregiamente la Nuova Bussola già con un buon articolo qui. Ed era ovvio che, tra le tante curiosità che attirano i Media, le battute di un Pontefice – male avvezzo – verso chi gli pone domande altrettanto idiote, perché di questo si tratta, non poteva mancare neppure questa volta il “caso mediatico”.
La domanda sciocca, irriverente, male-educata della giornalista di TV2000 (la TV dei Vescovi italiani, mica pizza e fichi!), che ritiene di trovarsi davanti non un Pontefice, ma un compagno di merende, un compagno di gita, compagno di vacanza… è stata la seguente: «Ci dice che cosa le dà il suo medico, così lo prendiamo anche noi che arranchiamo dietro a lei?». Un riferimento alla resistenza di Bergoglio durante queste trasferte. «Ma io non vado dal medico, vado dalla strega!», ha detto ridendo di gusto.
Se questa è la “nuova” professionalità giornalistica al seguito papale, ci attende un futuro di altrettanto e profondo stupidario senza più limiti. Bisogna infatti riconoscere che la risposta di Papa Francesco è stata una battuta tipicamente gesuitica. Poco prima, la giornalista de Il Messaggerogli ha chiesto se aveva paura di incontrare i giornalisti e Francesco ha risposto: «Sì, ho paura delle interviste… vedi che cosa mi tocca fare».
Che Bergoglio abbia “paura” delle interviste, è un falso già smentito da lui stesso che ne rilascia ad ogni occasione, clicca qui per la fallita trasmissione sul “Padre Nostro”, altra ennesima intervista… provando spesso anche un certo divertimento. Insomma se il Papa “teme” le interviste, chi gli impedisce di NON rispondere? Errare humanum est, perseverare autem diabolicum… perché Bergoglio si sente obbligato a dover rispondere?
Torniamo per ora all’umorismo gesuita!
Dei gesuiti si è sempre detto che sono colti, sottili, doppi, ipocriti. Ma nel loro sito ufficiale, fino al 2013, nella sezione “linguaggi-umorismo” si leggeva questa nota: «Ecco una sezione in cui ci prendiamo un po’ in giro. Come i carabinieri, anche i gesuiti hanno una certa “letteratura” in fatto di barzellette. Qui ne riportiamo solo alcune raccontabili, che si sentono comunemente. Se ne conoscete altre, con soggetto i gesuiti, non mancate di farcele conoscere… Scrivete al webmaster. Grazie» Dopo il 2013 la sezione con l’avviso è letteralmente scomparsa, non sappiamo il perchéforse supponiamo che da quel 13 marzo 2013 non c’è più nulla per cui ridere?
“L’attitudine umana più vicina alla grazia di Dio è l’umorismo”, così aveva sintetizzato Papa Francesco, all’incontro coi confratelli e riportata “sbadatamente” in un tweet sfuggito ad Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica. “Sfuggito” dal momento che nella trascrizione ufficiale dell’intervento pubblicato dalla sala stampa della Santa Sede quelle parole non ci sono.
Intendiamoci che sotto accusa non è l’umorismo, del quale i veri Santi ci hanno arricchito le meditazioni…. il problema è ciò che si dice sotto forma di umorismo!
La risposta del Papa alla domanda idiota della giornalista: «Ma io non vado dal medico, vado dalla strega!» è tipicamente non soltanto gesuita, ma anche la risposta di coloro che gentilmente, ed educatamente, stanno dicendo – a chi ha fatto la domanda inopportuna – “ma che vuoi che ne sappia? Sono semplicemente di robusta costituzione, che pensi vada  ad assumere, l’elisir di lunga vita?”…
Se ricordate bene è da cinque anni, fin dal 2013 che i Media si rincorrevano per fare scoop sulla salute del Papa argentino, e questo per una sua stessa battuta altrettanto sciocca, quando disse ai giornalisti all’ennesima intervista rilasciata ad una emittente televisiva messicana: «Ho la sensazione che il mio Pontificato sarà breve: quattro o cinque anni, non so, anche due o tre. Due sono già passati. È una sensazione vaga. (…) Ma sento che il Signore mi ha messo qui per un periodo breve, niente di più» L’eco mediatica di questa dichiarazione fu ovviamente enorme. Cosa si nascondeva dietro quella vaga sensazione? Una visione profetica? Manco per sogno, nulla di profetico, ma di molto stravagante. Subito i Media trassero queste conclusioni: un dato è certo i medici di Papa Bergoglio sono preoccupati dalle sue condizioni di salute…. si legga anche qui.
Vedete voi come si è passati dalla “preoccupazione” per la salute del Papa, a chiedergli quale elisir di lunga vita usa e da quale medico si fa mantenere in forma! Mettendoci onestamente nei suoi panni, quale risposta avremo dato noi stessi? Che poi Bergoglio non va dai medici, forse è anche vero, e se ci va è solo quando ne ha veramente bisogno, perché lui AMA LA MEDICINA ALTERNATIVA… quella “naturale”, quella fatta di mani che si impongono, di spiriti che svolazzano qua e là, indipendentemente da dove arrivano, se da sotto terra o dal cielo non fa differenza, per lui, si legga qui.
Non lo inventiamo noi, è il suo modo di curare, soprattutto i malanni spirituali, esistenziali. Per esempio è sempre Bergoglio che ha espresso chiaramente il suo bisogno di “un bagno con la folla” perché questo lo fa sentire bene e che rischierebbe di cadere in “depressione” se ciò non potesse più accadere. E’ lui stesso che ha raccontato la scelta di abitare a santa Marta anziché nel Palazzo Apostolico, perché avrebbe sofferto di “isolamento”, ecco le sue parole ufficiali: «Per me è un problema di personalità: è questo. Io ho necessità di vivere fra la gente, e se io vivessi solo, forse un po’ isolato, non mi farebbe bene. Questa domanda me l’ha fatta un professore: “Ma perché Lei non va ad abitare là?”. Io ho risposto: “Ma, mi senta, professore: per motivi psichiatrici”. E’ la mia personalità. Anche l’appartamento, quello [del Palazzo Pontificio] non è tanto lussuoso, tranquilla… Ma non posso vivere da solo, capisci?».
Queste le mezze verità dei gesuiti, dette con umorismo, con una battuta, che poi sia falsa o vera non ha importanza, l’importante è seminare la risposta che si vuole dare e non dare, lasciando sempre all’interlocutore di capire ciò che vuole. Nel 2015 Papa Francesco esonerò dal suo incarico, senza preavviso e senza motivazioni, l’archiatra pontificio Patrizio Polisca, medico di Benedetto XVI. Da allora è un mistero su chi l’abbia sostituito, tante le voci di corridoio, ma nessuna ufficiale. Ciò che si sa con certezza è che lui predilige persino l’agopuntura, medicine alternative, omeopatiche e incerte…. a raccontarlo fu nel 2014 la rivista “Mio Papa” (un nome, un programma) a lui dedicata.
E così la risposta del Papa alla domanda idiota della giornalista: «Ma io non vado dal medico, vado dalla strega!», potrebbe essere spiegata dalla presenza, tra le sue strette amicizie, di un certo dott. Liu Ming, il maestro di arti marziali e di medicina alternativa cinese e di disciplina meditativa orientale…. ecco i fatti:
Maestro, come ha conosciuto Bergoglio? «Nel settembre del 2003 un curato mio paziente mi parlò di questo cardinale, che aveva bisogno di cure. Pochi giorni dopo Bergoglio mi chiamò chiedendomi se potevo andare a visitarlo in arcivescovado. Quando entrai mi guardò negli occhi per almeno un minuto. Una situazione molto strana, ma anziché mettermi a disagio mi faceva sentire una grande confidenza. Entrammo subito in sintonia. Aveva parecchi problemi di salute: mi raccontò che gli avevano rimosso la cistifellea e aveva avuto un problema con il fegato. Aveva subito anche un’operazione ai polmoni e aveva problemi di cuore per i quali avrebbe dovuto operarsi nuovamente».
Prendeva molti farmaci? «Sì, un sacco di pastiglie. Gli consigliai di cominciare subito un trattamento. Iniziammo con tre volte la settimana».
Veniva qui in studio? «No, mai. Ero io che andavo da lui. Dopo poco tempo passammo a vederci due volte la settimana, quindi una. Dopo tre anni cominciammo a vederci ogni tre mesi. Cominciammo nel 2004 e abbiamo smesso nel 2012. Otto anni è il tempo che occorre a un uomo per completare il suo ciclo di cure. Alla donna ne bastano sette».
Alla fine di questo ciclo Bergoglio stava bene? «Sì, aveva smesso di prendere le pastiglie per il cuore e per il diabete.E ancora oggi, che io sappia, non assume nulla».
In che cosa è consistita la cura? «Agopuntura e massaggi. La medicina cinese agisce naturalmente. Dico sempre che un uomo che si cura con essa può vivere anche 140 anni».
Arrivando ad una conclusione – che non c’è – ci sembra interessante ciò che un argentino disse di Bergoglio quando era ancora arcivescovo, dunque in tempi non sospetti, che egli dipendeva da una certa SUPERSTIZIONE atavica… una religiosità superstiziosa per la quale – attraverso le battute che gli sono tipiche – egli cerca di scongiurare il peggio.
Qualche cosa l’avevamo raccontata qui: quella diabolica superstizione…. «Ringrazio tutti voi degli auguri per il mio prossimo compleanno, grazie tante! Ma vi dirò una cosa che vi farà ridere: nella mia terra fare gli auguri in anticipo porta iella! E chi fa gli auguri in anticipo è uno “iettatore”!»: queste furono le dolci parole di papa Francesco per ringraziare i fedeli dell’udienza del mercoledì del 14-12-2016…
La cosa che ci farà ridere… dice il Papa…. e sommando tutte le sue battute non sappiamo proprio cosa ci sia da ridere… non siamo neppure più all’umorismo tipico dei gesuiti, ma si è andati ben oltre visto che a dover rispondere, anche di cose serie, è il Papa. Così la frase che disse: «Ho la sensazione che il mio Pontificato sarà breve: quattro o cinque anni, non so, anche due o tre. Due sono già passati. È una sensazione vaga. (…) Ma sento che il Signore mi ha messo qui per un periodo breve, niente di più» –  insieme alla risposta data alla sciocca giornalista di TV2000 e alle questioni che abbiamo portato come prova, ci suggeriscono che Bergoglio intende campare “cent’anni”, indipendentemente dal medico che lo ha in cura… ma con una buona dote di scongiuri a chi gli fa domande sulla sua salute.
Per dirla con il grande Edoardo De Filippo: «Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male!»

Papa Francesco fa una battuta su Gesù e tutti ridono con lui

La corte ride alla battuta dell’imperatore, dimenticandosi del Re dei re prigioniero d’amore nel Tabernacolo.
In un comunicato diffuso dall’arcidiocesi di Santiago del Cile, vedi qui Agenzia SIR, padre Julio racconta la conversazione avuta con papa Francesco: “’Dobbiamo fare chiasso’, ho detto al Papa – racconta il parroco – e il papa ha detto: ‘Dobbiamo fare chiasso noi perché gli altri non lo fanno’. Poi l’ho invitato ad entrare in chiesa, e lui ha detto di no, perché poi sarebbe andato a pregare nella cappella della Nunziatura ‘perché – ha detto – il Signore ha il dono dell’ubiquità’. Tutti abbiamo riso con lui. Poi mi ha ringraziato e mi ha abbracciato, dicendo: ‘Era mio desiderio venire alla tomba di don Enrique Alvear’”.
Dunque – un Pontefice – invitato ad entrare in una Chiesa per salutare Gesù, dice “NO” perché tanto deve andare nella Cappella della Nunziatura… ma non si ferma lì, il ché sarebbe stato anche normale visti gli orari stretti per mantenere un programma di visite, deve giustificare il suo “NO” e lo fa con una battuta alla maniera gesuitica, come abbiamo già spiegato quiRisultato? TUTTI RIDONO perché, probabilmente, la battuta l’ha fatta un Papa!
Ma è davvero questo il sano e santo umorismo? L’Eucaristia è davvero una forma di “ubiquità”? Sì, quando per ubiquità intendiamo ciò che etimologicamente significa: onnipresenza, ma è anche un “non proprio così” se intendiamo riferirci alla Presenza Reale di Gesù nell’Eucaristia, nel Tabernacolo.
Papa Francesco aveva già azzardato ad usare un’altro termine per l’Eucaristia: la teofanialeggere qui, o come quel desiderio, perverso, a voler cambiare la frase del Pater Noster, piuttosto che spiegarla come la Chiesa ha sempre fatto, vedere qui.
Non ci soffermiamo neppure sulla battuta, di per sé innocente – forse – ciò che davvero intristisce è immaginare la corte che si è “messa a ridere”… Nelle corti reali, quando il giullare del re svolgeva il suo compito – quello di dover far ridere la corte e lo stesso sovrano – chi non rideva veniva ucciso… e se il re non trovava divertente la battuta, nessuno doveva ridere, pena la morte, ma se il re la trovava divertente e rideva, tutti dovevano ridere, anche chi non avesse trovato divertente la battuta.
Ci occupiamo di “cronache” di questo Pontificato, ed una bella cronaca l’avevamo appena postata qui, del buon Discorso che il Papa ha fatto ai sacerdoti e religiose in Cile.
Leggendo però lo svolgersi di questo fatto ci chiediamo: ma che c’era da ridere? Guardate che questa reazione è inquietante! Si è spostata l’attenzione dalla Visita a Gesù Eucaristia alla battuta del Papa, che giustifica il suo non voler andare a farGli visita, lì! perché tanto lo troverà nella cappella della Nunziatura.
Ah! ah! ah! ah! ah! che ridere!
Un Gesù trattato da “compagnone” è tipico del gesuitismo modernista, vedi qui, ma che qualcuno ci trovi da ridere è davvero inquietante e perverso. Se il Vicario di Cristo si permette di fare battute sulla Presenza Divina di Gesù nel Tabernacolo, che sta lì NOTTE E GIORNO da duemila anni ad aspettarci, “PRIGIONIERO D’AMORE” insegnano i Santi, in attesa di uno “straccio di visita”… cosa ne sarà della serietà che i fedeli-laici, il Clero stesso, deve – per dovere – a Gesù nel Tabernacolo?


Papa Francesco medita sui tre momenti cruciali di Pietro nei Vangeli
Occupandoci di “cronache” di questo Pontificato nella vita della Chiesa, vi offriamo l’opportunità di leggere e riflettere su questo Discorso, in modo integrale e senza estrapolare nulla. Lasciando alle nostre coscienze, davanti a Dio, ogni commento.
Discorso integrale ed ufficiale, del Santo Padre Francesco ai sacerdoti, religiosi e religiose, consacrati e seminaristi. Cattedrale di Santiago del Cile – Martedì, 16 gennaio 2018.
Cari fratelli e sorelle, buonasera.
Sono contento di condividere questo incontro con voi. Mi è piaciuto il modo con cui il Cardinal Ezzati vi ha presentato: “Ecco, ecco le consacrate, i consacrati, i presbiteri, i diaconi permanenti, i seminaristi…”. Eccoli. Mi è venuto in mente il giorno della nostra ordinazione o consacrazione quando, dopo la presentazione, abbiamo detto: «Eccomi, Signore, per fare la tua volontà». In questo incontro desideriamo dire al Signore: «Eccoci», per rinnovare il nostro “sì”. Vogliamo rinnovare insieme la risposta alla chiamata che un giorno scosse il nostro cuore.
E per fare questo, credo che ci possa aiutare partire dal brano del Vangelo che abbiamo ascoltato e condividere tre momenti di Pietro e della prima comunità: Pietro e la comunità abbattuta, Pietro e la comunità perdonata e Pietro e la comunità trasfigurata. Gioco con questo binomio Pietro-comunità poiché l’esperienza degli apostoli ha sempre questo duplice aspetto, quello personale e quello comunitario. Vanno insieme e non li possiamo separare. Siamo, sì, chiamati individualmente, ma sempre ad esser parte di un gruppo più grande. Non esiste il “selfie vocazionale”, non esiste. La vocazione esige che la foto te la scatti un altro: che possiamo farci? Le cose stanno così.
1. Pietro abbattuto e la comunità abbattuta
Mi è sempre piaciuto lo stile dei Vangeli di non decorare né addolcire gli avvenimenti, e nemmeno di dipingerli belli. Ci presentano la vita com’è e non come dovrebbe essere. Il Vangelo non ha paura di mostrarci i momenti difficili, e perfino conflittuali, che i discepoli hanno attraversato.
Ricomponiamo la scena. Avevano ucciso Gesù; alcune donne dicevano che era vivo (cfr Lc 24,22-24). Anche se avevano visto Gesù risorto, l’evento era talmente forte che i discepoli avevano bisogno di tempo per comprendere l’accaduto. Luca dice: “Era così grande la gioia che non potevano crederci”. Avevano bisogno di tempo per comprendere quello che era successo. Comprensione che arriverà a Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo. L’irruzione del Risorto prenderà tempo per calare nel cuore dei suoi.
I discepoli ritornano alla loro terra. Vanno a fare quello che sapevano fare: pescare. Non c’erano tutti, solo alcuni. Divisi? Frammentati? Non lo sappiamo. Quello che ci dice la Scrittura è che quelli che c’erano non hanno pescato niente. Hanno le reti vuote.
Ma c’era un altro vuoto che pesava inconsciamente su di loro: lo smarrimento e il turbamento per la morte del loro Maestro. Non c’è più, è stato crocifisso. Non solo Lui era stato crocifisso, ma anche loro, perché la morte di Gesù aveva messo in evidenza un vortice di conflitti nel cuore dei suoi amici. Pietro lo aveva rinnegato, Giuda lo aveva tradito, gli altri erano fuggiti o si erano nascosti. Solo un pugno di donne e il discepolo amato erano rimasti. Il resto, se n’era andato. Questione di giorni, e tutto era crollato. Sono le ore dello smarrimento e del turbamento nella vita del discepolo. Nei momenti «in cui il polverone delle persecuzioni, delle tribolazioni, dei dubbi e così via, si alza per avvenimenti culturali e storici, non è facile trovare la strada da seguire. Esistono varie tentazioni che caratterizzano questo momento: discutere di idee, non dare la dovuta attenzione al fatto, fissarsi troppo sui persecutori… e credo che la peggiore di tutte le tentazioni è fermarsi a ruminare la desolazione».[1] Sì, stare a ruminare la desolazione. Questo è quello che è successo ai discepoli.
Come ci diceva il Card. Ezzati: «La vita presbiterale e consacrata in Cile ha attraversato e attraversa ore difficili di turbolenza e sfide non indifferenti. Insieme alla fedeltà della stragrande maggioranza, è cresciuta anche la zizzania del male col suo seguito di scandalo e diserzione».
Momento di turbolenza. Conosco il dolore che hanno significato i casi di abusi contro minori e seguo con attenzione quanto fate per superare questo grave e doloroso male. Dolore per il danno e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, che hanno visto tradita la fiducia che avevano posto nei ministri della Chiesa. Dolore per la sofferenza delle comunità ecclesiali; e dolore anche per voi, fratelli, che oltre alla fatica della dedizione avete vissuto il danno provocato dal sospetto e dalla messa in discussione, che in alcuni o in molti può aver insinuato il dubbio, la paura e la sfiducia. So che a volte avete subito insulti sulla metropolitana o camminando per la strada; che andare “vestiti da prete” in molte zone si sta “pagando caro”. Per questo vi invito a chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo, e non ruminare la desolazione.
Mi piacerebbe poi aggiungere un altro aspetto importante. Le nostre società stanno cambiando. Il Cile di oggi è molto diverso da quello che conobbi al tempo della mia giovinezza, quando mi formavo. Stanno nascendo nuove e varie forme culturali che non si adattano ai contorni conosciuti. E dobbiamo riconoscere che, tante volte, non sappiamo come inserirci in queste nuove situazioni. Spesso sogniamo le “cipolle d’Egitto” e ci dimentichiamo che la terra promessa sta davanti, e non dietro. Che la promessa è di ieri, ma per domani. E allora possiamo cadere nella tentazione di chiuderci e isolarci per difendere le nostre posizioni che finiscono per essere nient’altro che bei monologhi. Possiamo essere tentati di pensare che tutto va male, e invece di professare una “buona novella”, ciò che professiamo è solo apatia e disillusione. Così chiudiamo gli occhi davanti alle sfide pastorali credendo che lo Spirito non abbia nulla da dire. Così ci dimentichiamo che il Vangelo è un cammino di conversione, ma non solo “degli altri”, ma anche nostra.
Ci piaccia o no, siamo invitati ad affrontare la realtà così come ci si presenta. La realtà personale, comunitaria e sociale. Le reti – dicono i discepoli – sono vuote, e possiamo comprendere i sentimenti che questo genera. Tornano a casa senza grandi avventure da raccontare; tornano a casa a mani vuote; tornano a casa abbattuti.
Cosa è rimasto di quei discepoli forti, coraggiosi, vivaci, che si sentivano scelti e avevano lasciato tutto per seguire Gesù (cfr Mc1,16-20)? Cosa è rimasto di quei discepoli sicuri di sé, che sarebbero andati in prigione e avrebbero dato persino la vita per il loro Maestro (cfr Lc 22,33), che per difenderlo volevano scagliare il fuoco sulla terra (cfr Lc 9,54); che per Lui avrebbero sguainato la spada e dato battaglia (cfr Lc 22,49-51)? Cosa è rimasto del Pietro che rimproverava il suo Maestro su come avrebbe dovuto condurre la propria vita (cfr Mc 8,31-33), il suo programma di redenzione? La desolazione.
2. Pietro perdonato – la comunità perdonata
È l’ora della verità nella vita della prima comunità. È l’ora in cui Pietro si confrontò con parte di sé stesso. Con la parte della sua verità che molte volte non voleva vedere. Fece l’esperienza del suo limite, della sua fragilità, del suo essere peccatore. Pietro l’istintivo, l’impulsivo capo e salvatore, con una buona dose di autosufficienza e un eccesso di fiducia in sé stesso e nelle sue possibilità, dovette sottomettersi alla propria debolezza e al proprio peccato. Lui era tanto peccatore quanto gli altri, era tanto bisognoso quanto gli altri, era tanto fragile quanto gli altri. Pietro deluse Colui al quale aveva giurato protezione. Un’ora cruciale nella vita di Pietro.
Come discepoli, come Chiesa, ci può accadere lo stesso: ci sono momenti in cui ci confrontiamo non con le nostre glorie, ma con la nostra debolezza. Ore cruciali nella vita dei discepoli, ma quella è anche l’ora in cui nasce l’apostolo. Lasciamoci guidare dal testo.
cq5dam.web.800.800 (4)«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”» (Gv 21,15).
Dopo mangiato, Gesù invita Pietro a fare due passi e l’unica parola è una domanda, una domanda di amore: Mi ami? Gesù non usa né il rimprovero né la condanna. L’unica cosa che vuole fare è salvare Pietro. Lo vuole salvare dal pericolo di restare rinchiuso nel suo peccato, di restare a “masticare” la desolazione frutto del suo limite; salvarlo dal pericolo di venir meno, a causa dei suoi limiti, a tutto il bene che aveva vissuto con Gesù. Gesù lo vuole salvare dalla chiusura e dall’isolamento. Lo vuole salvare da quell’atteggiamento distruttivo che è il vittimismo o, al contrario, dal cadere in un “tanto è tutto uguale” che finisce per annacquare qualsiasi impegno nel relativismo più dannoso. Vuole liberarlo dal considerare chiunque gli si oppone come se fosse un nemico, o dal non accettare con serenità le contraddizioni o le critiche. Vuole liberarlo dalla tristezza e specialmente dal malumore. Con quella domanda, Gesù invita Pietro ad ascoltare il proprio cuore e imparare a discernere. Perché «non era di Dio difendere la verità a costo della carità, né la carità a costo della verità, né l’equilibrio a costo di entrambe. Occorre discernere. Gesù vuole evitare che Pietro diventi un verace distruttore o un caritatevole menzognero o un perplesso paralizzato»,[2] come può capitarci in queste situazioni.
Gesù interrogò Pietro sull’amore e insistette con lui finché lui poté dargli una risposta realistica: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Così Gesù lo conferma nella missione. Così lo fa diventare definitivamente suo apostolo.
Che cosa fortifica Pietro come apostolo? Che cosa mantiene noi come apostoli? Una cosa sola: ci è stata usata misericordia (cfr 1 Tm1,12-16). Siamo stati trattati con misericordia. «In mezzo ai nostri peccati, limiti, miserie; in mezzo alle nostre molteplici cadute, Gesù ci ha visto, si è avvicinato, ci ha dato la mano e ci ha usato misericordia. Ognuno di noi potrebbe fare memoria, ricordando tutte le volte in cui il Signore lo ha visto, lo ha guardato, si è avvicinato e gli ha usato misericordia».[3] E vi invito a fare questo. Non siamo qui perché siamo migliori degli altri. Non siamo supereroi che, dall’alto, scendono a incontrarsi con i “mortali”. Piuttosto siamo inviati con la consapevolezza di essere uomini e donne perdonati. E questa è la fonte della nostra gioia. Siamo consacrati, pastori nello stile di Gesù ferito, morto e risorto. Il consacrato – e quando dico “consacrati”, dico tutti quelli che sono qui – è colui e colei che incontra nelle proprie ferite i segni della Risurrezione; che riesce a vedere nelle ferite del mondo la forza della Risurrezione; che, come Gesù, non va incontro ai fratelli con il rimprovero e la condanna.
Gesù Cristo non si presenta ai suoi senza piaghe; proprio partendo dalle sue piaghe Tommaso può confessare la fede. Siamo invitati a non dissimulare o nascondere le nostre piaghe. Una Chiesa con le piaghe è capace di comprendere le piaghe del mondo di oggi e di farle sue, patirle, accompagnarle e cercare di sanarle. Una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non si crede perfetta, ma pone al centro l’unico che può sanare le ferite e che ha un nome: Gesù Cristo.
La consapevolezza di avere delle piaghe ci libera; sì, ci libera dal diventare autoreferenziali, di crederci superiori. Ci libera da quella tendenza «prometeica di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato».[4]
In Gesù, le nostre piaghe sono risorte. Ci rendono solidali; ci aiutano a distruggere i muri che ci imprigionano in un atteggiamento elitario per stimolarci a gettare ponti e andare incontro a tanti assetati del medesimo amore misericordioso che solo Cristo ci può offrire. «Quante volte sogniamo piani apostolici espansionistici, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”»[5]. Vedo con una certa preoccupazione che ci sono comunità che vivono prese dall’ansia più di figurare sul cartellone, di occupare spazi, di apparire e mostrarsi, che non di rimboccarsi le maniche e andare a toccare la realtà sofferta del nostro popolo fedele.
Come ci mette in discussione la riflessione di quel santo cileno che avvertiva: «Saranno, dunque, metodi falsi tutti quelli che vengono imposti per uniformità; tutti quelli che pretendono di orientarci a Dio facendoci dimenticare i nostri fratelli; tutti quelli che ci fanno chiudere gli occhi sull’universo, invece di insegnarci ad aprirli per elevare tutto al Creatore di ogni cosa; tutti quelli che ci rendono egoisti e ci fanno ripiegare su noi stessi»[6].
Il Popolo di Dio non aspetta né ha bisogno di noi come supereroi, aspetta pastori, uomini e donne consacrati, che conoscano la compassione, che sappiano tendere una mano, che sappiano fermarsi davanti a chi è caduto e, come Gesù, aiutino ad uscire da quel giro vizioso di “masticare” la desolazione che avvelena l’anima.
3. Pietro trasfigurato – la comunità trasfigurata
Gesù invita Pietro a discernere e così iniziano a prendere forza molti avvenimenti della vita di Pietro, come il gesto profetico della lavanda dei piedi. Pietro, quello che aveva opposto resistenza a lasciarsi lavare i piedi, incominciava a capire che la vera grandezza passa per il farsi piccoli e servitori.[7]
Che pedagogia quella di nostro Signore! Dal gesto profetico di Gesù alla Chiesa profetica che, lavata dal proprio peccato, non ha paura di andare a servire un’umanità ferita.
Pietro ha sperimentato nella propria carne la ferita non solo del peccato, ma anche dei propri limiti e debolezze. Ma ha scoperto in Gesù che le sue ferite possono essere via di Risurrezione. Conoscere Pietro abbattuto per conoscere Pietro trasfigurato è l’invito a passare dall’essere una Chiesa di abbattuti desolati a una Chiesa servitrice di tanti abbattuti che vivono accanto a noi. Una Chiesa capace di porsi al servizio del suo Signore nell’affamato, nel carcerato, nell’assetato, nel senzatetto, nel denudato, nel malato… (cfr Mt 25,35). Un servizio che non si identifica con l’assistenzialismo o il paternalismo, ma con la conversione del cuore. Il problema non sta nel dar da mangiare al povero, vestire il denudato, assistere l’infermo, ma nel considerare che il povero, il denudato, il malato, il carcerato, il senzatetto hanno la dignità di sedersi alle nostre tavole, di sentirsi “a casa” tra noi, di sentirsi in famiglia. Quello è il segno che il Regno di Dio è in mezzo a noi. È il segno di una Chiesa che è stata ferita a causa del proprio peccato, colmata di misericordia dal suo Signore, e convertita in profetica per vocazione.
Rinnovare la profezia è rinnovare il nostro impegno di non aspettare un mondo ideale, una comunità ideale, un discepolo ideale per vivere o per evangelizzare, ma di creare le condizioni perché ogni persona abbattuta possa incontrarsi con Gesù. Non si amano le situazioni, né le comunità ideali, si amano le persone.
Il riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti, lungi dal separarci dal nostro Signore, ci permette di ritornare a Gesù sapendo che «Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. […] Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale».[8] Come fa bene a tutti noi lasciare che Gesù ci rinnovi il cuore!
All’inizio di questo incontro vi dicevo che venivamo a rinnovare il nostro “sì”, con slancio, con passione. Vogliamo rinnovare il nostro “sì”, ma realistico, perché basato sullo sguardo di Gesù. Vi invito quando tornate a casa a preparare nel vostro cuore una specie di testamento spirituale, sul modello del Cardinal Raúl Silva Henríquez. Quella bella preghiera che inizia dicendo: «La Chiesa che io amo è la Santa Chiesa di tutti i giorni… la tua, la mia, la Santa Chiesa di tutti i giorni… …Gesù, il Vangelo, il pane, l’Eucaristia, il Corpo di Cristo umile ogni giorno. Con i volti dei poveri e i volti di uomini e donne che cantavano, che lottavano, che soffrivano. La Santa Chiesa di tutti i giorni».
Ti chiedo: Com’è la Chiesa che tu ami? Ami questa Chiesa ferita che trova vita nelle piaghe di Gesù?
Grazie per questo incontro. Grazie per l’opportunità di rinnovare il “sì” con voi. La Vergine del Carmelo vi copra col suo manto.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

[1] Jorge M. Bergoglio, Las cartas de la tribulación, 9, Ed. Diego de Torres, Buenos Aires 1987.
[2] Cfr ibid.
[4] Esort. ap. Evangelii gaudium, 94.
[6] San Alberto Hurtado, Discurso a jóvenes de la Acción Católica, 1943.
[7] «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35).
[8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 11.


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