ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 25 marzo 2018

Un guanto di sfida

Meno pasticcini e più ostie Mons. Negri sfida la Chiesa

È proprio un guanto di sfida questo libro di monsignor Luigi Negri, gettato in faccia a tutti coloro che, pur di fare pace col mondo, in Comunione e liberazione hanno tradito don Giussani e nella Chiesa hanno tradito Cristo
È proprio un guanto di sfida questo libro di monsignor Luigi Negri, gettato in faccia a tutti coloro che, pur di fare pace col mondo, in Comunione e liberazione hanno tradito don Giussani e nella Chiesa hanno tradito Cristo.


Come sappiamo sono tantissimi e forse solo un vescovo emerito, suppergiù pensionato, poteva concedersi la libertà di mettersi contro mezzo mondo cattolico: la metà che detiene il potere, per giunta. Il vecchio allievo del fondatore di Cl, e primo presidente diocesano del movimento, non ha mai avuto peli sulla lingua. Stavolta ci si mette anche l'intervistatore Giampiero Beltotto che anziché moderare, come ci si poteva aspettare da un comunicatore istituzionale, aizza, essendo pure lui un ciellino della prima combattiva ora.

La sfida infra-ciellina è la parte meno necessaria del libro che si intitola per l'appunto La sfida, perché la sigla nata nel 1969 (ma con radici negli anni Cinquanta) mi sembra sempre più irrilevante come del resto pensa anche Negri: «L'esperienza dei movimenti non resiste più di fronte alle crescenti responsabilità». Quindi non è indispensabile accertare se nel seguente passaggio ci si riferisce a Formigoni o ad un altro dilapidatore, fra presidenze e assessorati, del patrimonio ideale ciellino: «A un certo punto, per propria natura, gli uomini che scelsero la politica si sentirono autoreferenziali in tutto».
Molto più importante è la sfida lanciata a tutti i livelli di una gerarchia cattolica sempre meno riconoscibile come tale. Innanzitutto ai preti, che nella fattispecie sono della diocesi di Ferrara ma potrebbero appartenere a qualsiasi altra diocesi europea: «Nel mio servizio episcopale me ne sono capitate di tutti i colori. Parroci che sostituivano il Vangelo con letture di altro genere; parroci che modificavano un determinato racconto evangelico perché a loro parere la parabola in questione non sarebbe dovuta terminare nel modo in cui l'aveva detta Gesù; laici che tenevano l'omelia al posto del prete; un matrimonio dove gli sposi, avendo constatato che la maggior parte dei partecipanti non si sarebbe comunicata, hanno chiesto, ottenendolo dal parroco, il permesso di distribuire loro dei pasticcini».
Quindi ai cardinali, ovviamente non a tutti ma a parecchi, ad esempio a tutti coloro che «insistono in questo sdoganamento dell'omosessualità».
E poi a due personaggi in particolare, Martini e Kasper. Il primo ha rappresentato «la Chiesa del compromesso con la mentalità mondana» e su di lui Negri racconta un desolante episodio: «Quando Turoldo dal presbiterio del Duomo tuonò contro la devozione mariana, che aveva definito pietà da Medioevo, il cardinale Giovanni Colombo gli tolse la possibilità di celebrare messa in cattedrale. Purtroppo il suo successore lo reinserì nei ranghi, gratificandolo, soprammercato, di non rammento quale onorificenza». Naturalmente il successore di Giovanni Colombo era Martini. Venendo ai vivi la sfida di Negri è ai prelati nordeuropei, ipocredenti e decadenti, che si permettono di dileggiare «come ha fatto il cardinal Kasper» i devoti e rigorosi vescovi africani. Il porporato tedesco è un divorzista e dunque un fan della Amoris laetitia, ambigua esortazione apostolica che ai divorziati sembra concedere la comunione senza esplicitarlo (forse perché in tal caso Papa Francesco sarebbe stato accusabile di eresia).
Sfida lanciata anche al capo dei gesuiti, colui che ritiene il Vangelo non vincolante perché a quel tempo non esisteva il registratore e chissà cosa ha davvero detto Gesù: «Qui siamo di fronte a un abisso di stupidità, esegeticamente ripugnante. Mi aspetto che il Papa espliciti il suo disaccordo». Campa cavallo. È passato più di un anno e il pontefice gesuita non ha esplicitato alcunché e padre Arturo Sosa è tranquillamente al suo posto.
Negri, lo abbiamo capito, è un vescovo senza macchia e senza paura, e non teme si possa scrivere che ha sfidato anche l'uomo vestito di bianco. «Lo spostamento di accento, per dirla con Giussani, dall'ontologia all'etica, segna le differenze tra i pontificati di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e quello di Papa Bergoglio.
Quest'ultimo ha deciso di sottolineare in modo imponente, fino quasi all'ossessività, le conseguenze socio-politiche della fede e non la natura profonda della fede». Non per nulla il sottotitolo del libro è Un viaggio della fede tra Giussani e Ratzinger. Come dire che con Carrón e Bergoglio, odierni capi di Cl e della Chiesa, il viaggio si è interrotto.
Quando ripartiremo, se ripartiremo? Il vecchio vescovo riporta la profezia formulata da Joseph Ratzinger nel lontano 1969, la visione di una Chiesa molto più piccola e di chiese molto più vuote, punto zero dal quale si dovrà e si potrà ripartire suscitando il nuovo interesse di un'umanità ormai del tutto ignara di Cristo e perciò disperata. La riporta e la fa propria, dichiarandosi sicuro che «rimarrà un piccolo resto del popolo di Dio a camminare quotidianamente secondo la fede e non secondo le logiche del mondo». Preghiamo per quel piccolo resto e per il vescovo Negri.
Camillo Langone
COMUNIONE: LA POSTA IN GIOCO
Ancora sulla questione della sacra Comunione in bocca o sulla mano. La posta in gioco non è di tipo estetico e nemmeno simbolico è di tipo teologico: implica un "atteggiamento" nei confronti dell’atto più importante della Messa 
di Francesco Lamendola   
http://www.accademianuovaitalia.it/images/gif/000-NUOVI/0--petri-mangia-particole.gif

Athanasius Schneider, tedesco del Kazakhistan, nominato nel 2011, da Benedetto XVI, vescovo ausiliare di Maria Santissima in Astana, la capitale della Repubblica centro-asiatica, è uno dei più fieri e attivi sostenitori della Tradizione cattolica e, quindi, uno dei maggiori critici delle tendenze moderniste e neomoderniste serpeggianti – e, da qualche tempo, neanche tanto serpeggianti, ma potremmo dire trionfanti – all’interno della Chiesa: ragion per cui  si trova, oggi, in una posizione piuttosto scomoda rispetto agli indirizzi liturgici e pastorali instaurati o favoriti da papa Bergoglio e dai sostenitori del rinnovamento radicale, i quali vorrebbero rompere definitivamente i ponti con le ultime vestigia ancora sopravviventi della teologia e della prassi pre-conciliare.
Una delle sue ”battaglie” è quella in difesa della maniera di distribuire l’Eucarestia secondo il vecchio rito, ossia ponendola direttamente in bocca ali fedeli, per mezzo delle mani consacrate del sacerdote, e non di darla direttamente loro in mano. Ne abbiamo già parlato in alcuni precedenti articoli; ritorniamo ancora sulla questione, perché ci sembra che gli argomenti e le riflessioni addotti da monsignor Schneider meritino la massima attenzione da parte di tutti i credenti. Inoltre, per capire la sua posizione, bisogna tener presente che essa viene da un uomo appartenente a una comunità che è stata doppiamente perseguitata ai tempi del regime staliniano, in quanto tedesca e in quanto cattolica (non tutti i tedeschi del Volga, poi deportati nelle remote regioni dell’Asia centrale, erano cattolici; ma lo era la famiglia di monsignor Schneider). Sua madre e altri suoi parenti e conoscenti, in quegli anni terribili, hanno letteralmente rischiato la vita per partecipare alla santa Messa e per ricevere la sacra Comunione, da parte di sacerdoti che agivano di nascosto, rischiando a loro volta la vita. Ma è stata proprio questa esperienza, l’esperienza di una Chiesa dispersa e perseguitata, di una Chiesa di testimoni e di martiri, come quella che visse nei secoli dell’Impero Romano anteriormente all’editto di Costantino, che ha forgiato la temperie spirituale dalla quale è scaturita la vocazione sacerdotale di monsignor Schneider, classe 1961, studi teologici in Germania, Austria, Brasile e Italia, ordinato sacerdote nel 1990, dottore in teologia patristica nel 1997, vescovo ausiliare di Karaganda, sempre in Kazakistan, nel 2006: un uomo coltissimo, che parla correntemente sette lingue fra antiche e moderne: il tedesco, il russo, l’italiano, il francese, il portoghese, il latino e il greco.
Questo è l’uomo che, nel 2015, è stato incaricato dalla Santa Sede di esplorare la possibilità, visitandone direttamente alcune sedi in Europa e negli Stati Uniti, di ricucire lo strappo determinatosi, durante il pontificato di papa Giovanni Paolo II,  tra la Fraternità sacerdotale San Pio X e la Chiesa, allorché, nel 1988, monsignor Lefebvre era stato colpito dalla scomunica ufficiale. La scomunica era stata poi rimessa ai vescovi da lui nominati (Lefebvre frattanto era morto, nel 1991) da Benedetto XVI, nel 2009, non senza che tale remissione scatenasse fortissimi contrasti e le ire dei teologi “progressisti”, come Hans Küng, i quali, con autentico spirito di fraternità e di carità apostolica, avrebbero voluto vedere perennemente esclusi dalla Chiesa quei loro fratelli “separati”, la cui vera colpa era stata quella di voler rimanere fedeli alla dottrina e alla liturgia della Chiesa di sempre. La missione affidata a monsignor Schneider sembra essere nata ed essersi sviluppata sotto buoni auspici. Dopo essersi recato a Flavigny, in Francia, e a Winona, negli Stati Uniti d’America (Minnesota), egli ha dichiarato non esservi dei gravi motivi perché i membri della Fraternità sacerdotale San Pio X – che conta, attualmente 6 seminari, 162 priorati, 750 chiese e cappelle, 2 università, 100 scuole, 3 vescovi, 603 sacerdoti, 215 seminaristi, 186 religiose, 84 suore oblate e 5 conventi di suore carmelitane, sparsi in tutto il mondo – non possano ricevere un definitivo riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa.
Ecco, dunque, cosa scrive l’autorevole prelato nella monografia Dominus est. Riflessioni di un vescovo dell’Asia centrale sulla Sacra Comunione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2008, pp. 24-26; 45-46; 47-50):

Consapevole della grandezza ed importanza del momento della sacra Comunione, la Chiesa nella sua bimillenaria tradizione ha cercato di trovare un’espressione rituale che potesse testimoniare nel modo più perfetto possibile la sua fede, il suo amore e il suo rispetto.  Questo si è verificato quando, NELLA SCIA D’UNO SVILUPPO ORGANICO, a partire almeno dal 6° secolo, la Chiesa cominciò ad adottare  la modalità di distribuire le sacre specie eucaristiche  direttamente in bocca. Così testimonia o:  la biografia di papa Gregorio Magno (pontefice negli anni 590-604) e un’indicazione dello stesso papa (“Dialoghi”, III, PL, 77, 224). Il sinodo di Cordoba dell’anno 839 condannò la setta dei cosiddetti “casiani” a causa dl loro rifiuto di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca. Poi il sinodo di Rouen nell’anno 878 ribadiva la norma vigente della distribuzione del corpo del Signore sulla lingua, minacciando i ministri sacri della sospensione dal loro ufficio, se avessero distribuito ai laici la sacra Comunione sulla mano. In Occidente, il gesto di prostrarsi e inginocchiarsi prima di ricevere il corpo del Signore si osserva negli ambienti monastici già a partire dal 6° secolo (per esempio nei monasteri di san Colombano). Più tardi (nei secoli 10° e 11°), questo gesto si è divulgato ancora di più. Alla fine dell’età patristica la prassi di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca divenne quindi una prassi ormai diffusa e quasi universale. Questo sviluppo organico si può considerare come UN FRUTTO DELLA SPIRITUALITÀ E DELLA DEVOZIONE EUCARISTICA DEL TEMPO DEI PADRI DELLA CHIESA.  Di fatto ci sono parecchie esortazioni dei Padri  della Chiesa sulla massima venerazione e circa verso il Corpo eucaristico del Signore, in particolare a proposito dei frammenti del pane consacrato. Quando si cominciò a notare che non esistevano più le condizioni nelle quali si potevano garantire le esigenze del rispetto e del carattere altamente sacro del pane eucaristico, LA CHIESA SIA IN OCCIDENTE SIA IN ORIENTE IN UN AMMIREVOLE CONSENSO E QUASI ISTINTIVAMENTE  HA PERCEPITO L’URGENZA DI DISTRIBUIRE  LA SACRA COMUNIONE AI LAICI SOLAMENTE IN BOCCA.  […]
Nell’antica Chiesa siriaca il rito della distribuzione della Comunione era comparato con la scena della purificazione del profeta Isaia da parte di uno dei serafini. In uno dei suoi sermoni sant’Efrem lascia parlare Cristo con queste espressioni: “Il carbone portato santificò le labbra di Isaia. Sono Io che, portato adesso a voi per mezzo del pane, vi ho santificato. Le molle che ha visto il profeta e con le quali fu preso il carbone dall’altare, erano la figura di Me nel grande sacramento. Isaia ha visto Me, così come voi vedete Me adesso stendendo la Mia mano destra e portando alle vostre bocche il pane vivo. Le molle sono la Mia mano destra. Io faccio le veci del serafino. Il carbone è il Mio corpo. Tutti voi siete Isaia”. Questa descrizione permette di concludere che nella Chiesa siriaca al tempo di sant’Efrem la sacra Comunione era distribuita direttamente in bocca. Ciò si può constatare anche nella liturgia detta di san Giacomo, che era ancora pi antica di quella detta di san Giovanni Crisostomo. Nella liturgia di san Giacomo, prima di distribuire ai fedeli la sacra Comunione, il sacerdote recita questa preghiera, Il Signore ci benedica e ci renda degni di ricevere con mani immacolate il carbone acceso, mettendolo nella bocca dei fedeli”. […]
Parecchi ani fa il cardinale Joseph Ratzinger ha fatto la seguente constatazione preoccupante  riguardi al momento della Comunione in parecchi luoghi: “Noi non ascendiamo più alla grandezza dell’evento della Comunione, ma trasciniamo il dono del Signore giù all’ordinario della libera disposizione, alla quotidianità”. Queste parole dell’allora cardinale Joseph Ratzinger sono quasi un’eco delle ammonizioni dei Padri della Chiesa riguardo al momento della Comunione come lo si può percepire per esempio nelle seguenti espressioni di San Giovanni Crisostomo, dottore eucaristico:”Pensa quanta santità è necessaria che tu abbia, dal momento che hai ricevuti dei segni ancora più grandi  di quelli che i Giudei ricevettero nel Santo dei Santi? Ad abitare in te, infatti, non tieni i Cherubini, ma il Signore degli stessi Cherubini,  non hai né l’arca, né la manna, né le tavole di pietra e neppure la verga di Aronne, ma il corpo e il sangue del Signore, lo Spirito al posto della lettera, un dono inenarrabile. Ebbene, con quanti più grandi segni  e più venerabili misteri sei stato onorato, di tanta maggiore santità sei tenuto a rendere conto”. […] La Santa Sede in una recente Istruzione per le Chiese orientali cattoliche, parlando del modo di distribuire la Comunione, specialmente dell’usanza che soltanto i sacerdoti tocchino il pane eucaristico, esprime un criterio che è in se se stesso valido per la prassi liturgica di tutta la Chiesa: “Anche se ciò esclude la valorizzazione di altri criteri, pur legittimi, e implica la rinuncia a qualche comodità, una modifica dell’usanza  tradizionale rischia di comportare un’intrusione non organica rispetto al quadro spirituale che si è richiamato”. Nella misura in cui si è constatata una cultura , che si è allontanata dalla fede e che non conosce più Colui di fronte al quale inginocchiarsi, il gesto liturgico dell’inginocchiarsi “è il gesto giusto, anzi quello interiormente necessario”, come osservava il cardinale Joseph Ratzinger.  Il grande papa Giovanni Paolo II insisteva sul fatti che, in vista della cultura anti-sacrale del tempo modero, la Chiesa di oggi  debba sentire uno speciale dovere riguardo alla sacralità dell’Eucaristia: “Bisogna ricordarlo sempre, e forse soprattutto nel nostro tempo, nel quale osserviamo una tendenza a cancellare la distinzione tra “sacrum” e “profanum”, data la generale diffusa tendenza (almeno in certi luoghi) alla dissacrazione di ogni cosa. In tale realtà la Chiesa ha il particolare dovere di assicurare e corroborare il “sacrum” dell’eucaristia. Nella nostra società pluralistica, e spesso anche deliberatamente secolarizzata, la viva fede della comunità cristiana garantisce a questo “sacrum” il diritto di cittadinanza” (Lettera apostolica “Dominicae cenae”, n. 8).

La questione, come ben si capisce, travalica alquanto il fatto, strettamente materiale, di ricevere la sacra Eucarestia direttamente in bocca, oppure di prenderla sulla mano. La posta in gioco non è di tipo estetico e nemmeno simbolico: è di tipo teologico.Da sempre, la liturgia è l’espressione del soprannaturale nella realtà terrena della Chiesa, cioè di quella parte della Chiesa che vive nella dimensione terrena (mentre una parte è formata dalle anime dei sacerdoti e dei fedeli defunti; e un’altra, la più importante, dalla presenza dello Spirito santo, dagli Angeli e dai Santi, che ispira e sostiene i vivi e che garantisce l’infallibilità (ma non l’impeccabilità) del sommo Magistero ecclesiastico. Il fatto di ricevere l’Ostia direttamente sulla mano – e vi sono dei sacerdoti i quali, abusando indegnamente della loro autorità e della loro veste, sgridano addirittura i fedeli, spesso di una certa età, i quali si accostano all’altare aprendo la bocca, ed impongono loro di prendere la sacra Particola con le mani! – non è una questione di ordine puramente personale, né puramente esteriore, perché implica un preciso atteggiamento nei confronti dell’atto più importante della santa Messa, la quale, a sua volta, è l’atto più importante - sia in senso liturgico, sia in senso teologico – di tutto il culto cristiano.
Ora, sappiamo bene che Gesù Cristo, quando ha istituito questo Sacramento, non ha preteso di mettere in bocca agli apostoli il pane consacrato, ma li ha esortati a mangiare e bere, consapevoli che si trattava del suo corpo (e, per il vino, del suo sangue). Tuttavia, i comuni fedeli non sono gli Apostoli: questi ultimi ebbero l’immenso privilegio di vedere Gesù e di condividere, per qualche tempo, la sua presenza sulla terra; i comuni fedeli delle epoche successive, no. Quindi, il richiamo all’Ultima cena, che taluni fanno, per giustificare l’uso liturgico di consegnare in mano la divina Particola ai fedeli, è sbagliato. Non solo. A partire dal sesto secolo, sia nelle Chiese latine che in quelle greche si diffuse la Tradizione di distribuire la santa Comunione direttamente in bocca i fedeli; e tale uso è stato confermato e corroborato da autorevolissimi pararei teologici di svariati Padri della Chiesa, e ribadito, anche recentemente, dai pontefici, fino a Benedetto XVI. Come abbiamo visto, secondo molti di essi non solo è più giusto ricevere la Comunione in bocca, per manifestare quella umiltà, quel rispetto, quel “farsi fanciulli”, secondo l’esortazione evangelica (e i bambini piccoli ricevono, appunto, il cibo direttamente dai genitori), ma sarebbe doveroso ritornare anche all’usanza di ricevere la Comunione non stando ritti in piedi, ma inginocchiandosi, per sottolineare l’atteggiamento di umiltà e di rispetto: come facevano i nostri nonni.
Anche Benedetto XVI, la Messa, la celebrava così: distribuendo la Comunione ai fedeli che stavano in ginocchio. Forse che Benedetto XVI era un fanatico, oppure un uomo affetto da una scrupolosità morbosa, e quasi patologica? Lo dicano apertamente, tutti coloro i quali trovano cosa normalissima, e anzi una sorta di “diritto” dei cristiani che si auto-definiscono adulti, e non bambini, quello di ricevere la Comunione sulla mano, standosene ben ritti in piedi davanti al sacerdote: sacerdote che, in quel momento, è Cristo stesso. Sì, è vero: il centurione disse a Gesù: O Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa, ma di’ soltanto una parola…; ma questo non ci autorizza a trarne la conclusione di essere “degni” che Gesù venga a noi come farebbe un amico qualsiasi, e che noi ci permettiamo con Lui una familiarità eccessiva e, comunque, sconveniente. Al contrario: più si riflette sul mistero eucaristico, e più, a nostro avviso, si arriva alla conclusione che si tratta di un dono talmente immenso, anzi, di un dono così incommensurabile, che le manifestazioni di umiltà, di rispetto, di auto-mortificazione, da parte dei fedeli, per quanto grandi, non saranno mai esagerate.
Non è un fatto di pura discrezionalità soggettiva, ma un qualcosa che investe direttamente la sostanza della relazione fra Dio e l’uomo.
Il cristiano, certamente, è stato chiamato da Gesù ad essere suo “amico” (Vi ho chiamati amici, e non servi, perché il servo non sa cosa fa il padrone, mentre io vi ho fatto conoscere tutto quel che mi ha rivelato il Padre mio, dice Gesù durante l’Ultima Cena, secondo il Vangelo di Giovanni); nondimeno, l’amicizia di Dio non può voler dire che la differenza ontologica fra Lui e noi sia stata abolita, e neppure sospesa. Di quella differenza, noi siamo e dobbiamo restare ben consapevoli, e, quindi, accostarci a Lui con timore e tremore. Questa è la parte che spetta a noi, nel momento in cui riconosciamo la nostra piccolezza, la nostra fragilità e la nostra natura di peccatori penitenti: sarà Lui, poi, a farci alzare in piedi, e ad abbracciarci con l’amore che il Padre ha mostrato per il ritorno del figlio perduto…
  
Ancora sulla questione della sacra Comunione in bocca o sulla mano

di Francesco Lamendola Articolo d'Archivio

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