L’Europa verso la guerra civile: il bubbone scoppierà? Con la benedizione del neoclero bergogliano, stanno sostituendo la popolazione europea: siamo come una gigantesca "sala parto" di tutta l’Africa e di un bel pezzo dell’Asia
di Francesco Lamendola
Prima o dopo il nodo arriverà al pettine e il bubbone scoppierà: è inevitabile. Sotto la sapiente regia occulta della élite finanziaria globale, l’Europa si sta spaccando a metà: la metà favorevole alla invasione africana ed islamica, spacciata per accoglienza umanitaria, e la metà che vi si oppone, o meglio, che vorrebbe opporvisi, se lo potesse, cioè se vi fosse una sola forza di governo disposta a tanto. Attualmente, cioè è possibile solo in alcuni Paesi del centro-est, come la Polonia, la Slovacchia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, mentre nei Paesi fondatori dell’Unione (Germania, Francia, Italia e Benelux) è semplicemente impossibile anche solo formulare a voce alta e per esteso un programma di opposizione a tale progetto. Al massimo si può ancora parlare, e con difficoltà sempre più grandi, di rimpatriare i clandestini; ma nessuno osa discutere il diritto di milioni di africani e asiatici di entrare nei Paesi europei e di stabilirvisi in maniera perfettamente legale: ove, a causa del loro tasso d’incremento demografico, nel giro di nemmeno due generazioni avranno dominato il continente. E invece il problema è tutto lì. Perché è chiaro che i clandestini, in un modo o nell’altro, dovranno essere rimpatriati, perfino da Paesi super-accoglienti, come l’Italia (la quale, ingenuamente, si aspetta la riconoscenza del resto dell’Europa proprio per il fatto di essere così accogliente); ma ciò che costituisce un problema, realisticamente, non solo loro, bensì i milioni e milioni di “regolari”, i quali pacificamente, silenziosamente, stanno sostituendo la popolazione europea, una strada dopo l’altra, un quartiere dopo l’altro, una città dopo l’altra.
E per agevolare il loro disegno, i parlamenti legiferano nel senso di rendere sempre più breve l’iter per la concessione della cittadinanza; e alcune forze politiche, come il Partito Democratico, pur rappresentando circa un italiano e mezzo su dieci che vanno a votare, e probabilmente uno su venti del totale, ha provato sino all’ultimo a far approvare dal Parlamento una legge che avrebbe regalato la cittadinanza a tutti i bambini stranieri nati in Italia, per il solo “diritto” derivante dal territorio: ius soli. La legge, caldeggiata a suo tempo dalla signora Kyenge, farebbe dell’Italia – e non ci vuole un genio per capirlo - la sala parto di tutta l’Africa e di un bel pezzo dell’Asia: tutte le donne incinte desiderose di diventare cittadine europee prenderebbero d’assalto le nostre coste e i nostri confini terrestri, che, di fatto, non esistono più: perché i confini esistono quando c’è qualcuno disposto a difenderli e quando vige la norma che violarli è un grave reato, condizioni che da noi son venute meno da quel 28 marzo 1997 un cui il comandante Fabrizio Laudadio speronò una nave della mafia albanese carica di migranti e venne poi messo in croce per aver eseguito gli ordini del governo, miranti appunto alla difesa dei confini marittimi. Parlare di un blocco, o anche solo di una limitazione, dei cosiddetti migranti regolari, però, è divenuto impossibile; si viene immediatamente accusati di razzismo; specialmente se si è cattolici, perché il neoclero bergogliano ha eretto a dogma di fede (abusivamente ed ereticamente) il dovere di accogliere milioni di straneri, di farli entrare in casa, in chiesa e perfino partecipare alla Messa, loro, gli islamici che considerano i cattolici alla stregua d’infedeli, e che, nel Corano, leggono ogni giorno che Gesù Cristo non è Dio, non è il Figlio di Dio, ma solo un uomo, e che chi afferma il contrario è un miscredente (cosa che non impedisce al signor Bergoglio di prendere in mano il Corano e di deporvi sopra, per la gioia delle telecamere e dei fotografi, un bacio devoto, che è tutto un programma ideologico mondialista).
I popoli dell’Europa, tuttavia, si stanno svegliando. Un numero crescente di persone si sta destando dal sonnambulismo, si sta riscuotendo dal plagio e dal condizionamento ideologico, si sta perfino liberando dal ricatto morale. Queste persone non sono d’accordo sulle politiche di auto-invasione, né sulla generosità all’ingrosso nei confronti di masse di falsi profughi, specie di questi tempi, con milioni e milioni di europei impoveriti e proletarizzati dalla crisi finanziaria del 2007. Nascono delle correnti di opinione, dei movimenti sociali, delle forze politiche decisi a difendere l’identità, la civiltà, la tradizione del nostro continente. Naturalmente sono subito etichettati come razzisti, populisti e anche fascisti; ed essere definito “populista”, nel linguaggio del politicamente corretto, equivale a una sentenza di bando perpetuo. Perciò, quando i giornali e i telegiornali (tutti a libro paga dellaélite finanziaria) designano un leader o un movimento con la parola “populista”, la cosa equivale a una sentenza di morte civile e a una condanna morale inappellabile e inestinguibile. Ciò nonostante, rifiutando di lasciarsi ricattare e porre sotto scacco ideologico, i popoli europei si vanno organizzando, incominciano a reagire. Le tanto deprecate forze “populiste” avrebbero forse vinto le elezioni del 2017 in Francia, se, per fermarle, non si fosse creata una crociata universale di tutti gli altri partiti, da destra a sinistra, contro di esse, col risultato di aver portato all’Eliseo una perfetta nullità come il signor Macron, il quale, però, a differenza di Marine Le Pen, fa e continuerà a fare tutto quel che vogliono le banche, e specialmente la Banca Centrale Europea, compresa la politica di auto-invasione islamista. Perfino nei due Paesi maggiormente sottoposti a pressione e a ricatto, la Germania e l’Italia – l’una per via del passato nazista, che le viene e le verrà rinfacciato in saecula saeculorum, l’altra per via della forte presenza di una neochiesa sempre più migrazionista e filo-islamica – le forze “populiste” sono in rapida crescita e, in prospettiva, potrebbero anche andare al governo. Centinaia di milioni di europei non ne possono più della retorica buonista e filantropica della quale squali e sciacalli come il miliardario George Soros si servono per travestire questa sporca operazione di alto tradimento: una serie di politiche, da parte delle classi dirigenti, che non hanno per fine il bene e l’interesse nazionale dei rispettivi popoli, ma un bene per qualcun altro o per qualcos’altro, ossia per un potere occulto, innominabile, quello dell’alta finanza mondiale. Essa, ed essa sola, ha interesse e trae vantaggio dalla politica di snazionalizzazione, distruzione della identità europea e di scomparsa del cristianesimo dall’orizzonte spirituale del mondo moderno. In un primo tempo se ne avvantaggerà anche l’islam, ma esso è solo una pedina nelle mani della élitefinanziaria, che non è certo islamica, semmai in prevalenza ebreo-americana; e verrà anche la sua volta di essere aggredito, eroso, svuotato, liofilizzato, fatto evaporare: come ora sta toccando al cattolicesimo, sotto le amorevoli cure del neoclero progressista, buonista e “misericordioso”. L’obiettivo finale è costruire (o meglio, decostruire) un’umanità senza più tradizioni, né radici, né punti di riferimento culturale, morale e spirituale; un’umanità di proletari sottopagati, disposti ad ammazzarsi a vicenda pur di accaparrarsi un lavoro sempre più precario, sempre più nocivo alla salute, sempre più ingrato. Altro che liberazione dell’uomo per mezzo delle macchine. I cantori della civiltà industriale non avevano capito proprio niente - o forse avevano capito anche troppo -, e Marx aveva capito meno di tutti. Sarà per questa curiosa circostanza che gli eredi della cultura marxista, oggi, e specialmente i neopreti di sinistra, sono i più zelanti fautori del Nuovo Ordine Mondiale, e magari – questo è il bello – in nome dei “poveri”?
L’Europa verso la guerra civile?
di Francesco Lamendola
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ORBAN E DEMOCRAZIA ILLIBERALE
Il risultato di Orban e il suo Fidesz (affiliato al Ppe?) alle elezioni col 50 per cento dei consensi è straordinario. La piccola Ungheria ha il coraggio di affermare che il re è nudo e il liberalismo politico è una scatola vuota
di Roberto Pecchioli
L’Ungheria, per la quarta volta, la terza consecutiva, ha dato fiducia a Viktor Orbàn e al suo partito Fidesz, attestato al 50 per cento dei consensi nel giorno della più alta affluenza al voto dalla fine del comunismo. Il secondo partito magiaro, Jobbik, di estrema destra, è in crescita al 20 per cento, mentre la sinistra, assai sostenuta dalle élite europee, dalla stampa internazionale e dal peggior ungherese del mondo, Gyorgy Soros (George è il nome anglicizzato del vegliardo finanziere nemico delle nazioni) è ridotta ad un umiliante 12 per cento. Il risultato è straordinario, e impone di riflettere sul modello di Budapest, che, ricordiamolo, è lo stesso della Slovacchia, della Repubblica Ceca, dell’Austria e della Polonia.
Si riaffaccia alla storia l’Europa centrale, unita nel patto di Visegrad, addirittura con qualche reminiscenza dell’Impero degli Asburgo, di cui ricorre quest’anno il centenario della fine. L’Ungheria, oggi una piccola nazione di 10 milioni di abitanti con una superficie di soli 93.000 chilometri quadrati, meno di un terzo dell’Italia, fu duramente punita dal trattato di pace del Trianon. Il diktat che dissolse gli imperi centrali sottrasse alla nazione magiara più di metà del suo territorio e lasciò senza patria milioni di ungheresi, sparsi da allora tra Slovacchia, Romania, ex Jugoslavia. Non è solo aneddotica ricordare il legame della città di Fiume, italiana di lingua e sentimenti, con la nazione magiara, di cui era lo sbocco al mare e della quale i fiumani erano cittadini.
Orbàn è tutt’altro che un estremista. Fidesz è affiliato al Partito Popolare Europeo, ma è considerato la bestia nera degli eurocrati e delle oligarchie apolidi che ci tengono in pugno. Con lui l’Ungheria ha aumentato il benessere, sconfitto la disoccupazione, posto divieti alle attività antinazionali ed immigrazioniste delle ONG (Organizzazioni Non Governative), in particolare alla famigerata Open Society di Soros, restituito al controllo pubblico i fondi pensione. In più, assoggetta a un severo regime fiscale le corporazioni straniere, attive anche in Ungheria nella finanza, nelle assicurazioni, nell’industria e nella distribuzione. Pur rispettando l’iniziativa privata, Viktor Orbàn ha cercato di impedire che il paese diventasse terra di conquista per gli interessi della manifattura “debole” tedesca. Tutto questo non viene perdonato all’ex giovane studente anticomunista, già attivo nel 1989, al momento del crollo dell’Unione Sovietica.
Il suo torto più grande, agli occhi dell’oligarchia, è aver fatto approvare una costituzione nella quale si pongono al centro della vita nazionale la famiglia naturale, Santo Stefano, fondatore e evangelizzatore dell’Ungheria, con il cristianesimo a fondamento della Patria. Le sue posizioni contrarie all’immigrazione sono un modello per tutti gli europei. Citiamo di seguito alcune frasi pronunciate negli ultimi mesi da Viktor Orbàn: “noi siamo tra quelli che pensano che l’ultima speranza d’ Europa sia il cristianesimo “. Magari analoga convinzione albergasse in Vaticano. “Noi vediamo [gli immigrati islamici] non come rifugiati, ma come invasori musulmani. Bruxelles vuole trasformare l’Ungheria in un paese di immigrazione. “Politicamente scorrettissimo, il leader magiaro difende senza complessi la sovranità della sua nazione: “un paese che non può proteggere le sue frontiere non è un paese”, affermazione che dovrebbe essere scolpita nel marmo di fronte al nostro parlamento.
Un’altra delle sue convinzioni, che lo rende inviso alle oligarchie avverse alle nazioni e nemiche degli Stati è la seguente: “il più importante dei confini tra gli esseri umani è il confine spirituale che denominiamo nazione, che ci eleva tutti alla condizione di partecipanti di una cultura e tradizione condivisi. La nostra cultura nazionale è quello che ci rende ciò che siamo. “Aggiunge che il globalismo pretende di rendere uguali tutte le nazioni del mondo. Basta questo florilegio di opinioni a rendere Orbàn il bersaglio favorito del pensiero dominante.
Pochi giorni fa è stato oggetto di un velenoso attacco da parte del Sole 24 Ore, il foglio economico di Confindustria, in cui si lamenta che Orbàn è l’alfiere di una di “democrazia illiberale in cui i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sulla libertà delle persone.” E’ sin troppo facile ribattere al giornalista a libro paga degli industriali che l’amore della Patria (scritto con la maiuscola) e il rispetto di sé sono elementi fondanti della libertà, e non certo principi ad essa alternativi. Quanto al termine conservatore, rispondiamo con Moeller van den Brucke che il conservatore ha dalla sua parte l’eterno. Il disprezzo stupisce un po’ nella penna dei liberali, così attenti a conservare la grande proprietà privata dei loro mandanti.
Assai più importante è l’altro riferimento, quello relativo alla “democrazia illiberale.” Il giornale confindustriale si riferisce ad un importante discorso tenuto da Viktor Orbàn nel luglio dello scorso anno, allorché constatò il fallimento del modello democratico occidentale, diventato una maschera di vuote procedure dietro le quali dominano le centrali industriali, finanziarie e tecnologiche transnazionali. Il leader ungherese arrivò a sostenere l’eresia massima: “Dobbiamo abbandonare i metodi e i principi liberali nell’organizzazione di una società. Stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale, uno stato non liberale, perché i valori liberali dell’occidente oggi includono la corruzione, il sesso e la violenza”.
Massimo sdegno per affermazioni tanto sgradite alle orecchie progressiste, a partire da un duro attacco di Internazionale, il settimanale dei salotti altoborghesi. Il termine illiberale non gode di buona reputazione nella nostra lingua. Per quanto di ascendenza latina, dunque non sospettabile di significati politici moderni, indica attitudini e comportamenti che il sentimento dominante considera negativi, reazionari, regressivi. Tuttavia, al di là dei termini e delle traduzioni capziose degli intellettuali a tariffa, Orbàn ha semplicemente smascherato una delle più resistenti menzogne del nostro tempo, proclamando che democrazia (governo del popolo) e liberalismo non sono sinonimi, e negando che solo la società di mercato produca regimi politici democratici. La truffa è di portata storica, smentita dai fatti, pensiamo al regime cinese, e, per converso, all’esperienza russa, turca e perfino iraniana. Dovremmo pur ricordare che il libero mercato domina in parti del mondo dove vigono monarchie assolute teocratiche.
La piccola Ungheria ha il coraggio di affermare che il re è nudo e il liberalismo politico è una scatola vuota contenente, sotto l’apparente tolleranza, un unico principio, la privatizzazione del mondo, la sua omogeneizzazione planetaria e il trasferimento di ogni potere reale ad un sinedrio da cui sono esclusi i popoli. Dunque, il liberismo è il contrario della democrazia.
Paradossale è imputare a Orbàn o ai populismi di varia ispirazione di aver preso atto di verità negate, silenziate o bollate come false (fake news), ma enunciate sin dal Duemila da Ralf Dahrendorf, un’icona del progressismo, l’ultimo dei francofortesi. “Le decisioni stanno migrando dallo spazio tradizionale della democrazia”, fu l’allarme inascoltato del filosofo tedesco, unito ad una considerazione di capitale importanza, “la democrazia non ha senso al di fuori dello Stato- Nazione, ai molti livelli nazionali e multinazionali in cui si forma la decisione politica”. Decisione, aggiungiamo noi, quasi sempre legata alla sfera economica o finanziaria, gli elementi centrali del secolo. Da tempo, tuttavia, anche le voci più autorevoli vengono ridotte al silenzio: per chi detiene la proprietà del sistema culturale e di intrattenimento è facile spegnere l’audio.
La storia si è rimessa in movimento, come dimostra l’esperienza di Orbàn, di altri esponenti di governo dell’Europa Centrale e di Vladimir Putin, l’ orco secondo l’Impero angloamericano. La democrazia, intesa come partecipazione del popolo al proprio destino, deve ridiventare illiberale, cioè scrollarsi di dosso l’ideologia del denaro che annulla tutto il resto della condizione e dell’esperienza umana. Deve altresì recuperare un sistema di principi forti, in assenza dei quali il potere del denaro svuota qualunque rappresentanza o partecipazione popolare.
Ha ragione Viktor Orbàn a utilizzare senza paura certi termini e ribaltare i significati correnti. La dittatura del politicamente corretto, con la ripugnante riduzione dell’uomo a doppio schiavo, delle pulsioni e dei desideri da un lato, della mega macchina tecnologica, finanziaria ed industriale dall’altro, deve essere contrastata a partire dalla riappropriazione delle parole. In quest’ottica, uomini come il presidente magiaro rappresentano la fiamma di una speranza che si riaccende, le cui luci tentano di rischiarare il tetro orizzonte in cui è chiamata libertà la sottomissione all’impero dell’usura. Viva la democrazia illiberale, dunque, qualunque reazione isterica susciti tale affermazione nel lobo frontale dei servitori degli iperpadroni, i liberali.
VIKTOR ORBAN E LA DEMOCRAZIA ILLIBERALE
di Roberto Pecchioli
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