ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 19 novembre 2018

“Non ci mettere alla prova”

A proposito del “non ci indurre in tentazione” del Padre nostro


Foto di Luigi Colonna


Ieri sera ero presente alla catechesi mensile di mons. Nicola Bux, Consultore della Congregazione Cause dei Santi e già consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede. Tra le tante domande è emersa una che chiedeva quale fosse la giusta interpretazione da dare alla frase della preghiera del Padre nostro “non ci indurre in tentazione”, visto che è stata cambiata in “non abbandonarci alla tentazione”.

Mons. Nicola Bux ha detto che la giusta interpretazione da dare è: “non ci mettere alla prova”. Per farci capire meglio, ha detto che la parola “tentazione” deve intendersi, volendo usare una parola moderna, come “test”. Non “testare”, cioè non mettere alla prova la nostra fede.



Dunque, la frase “non ci indurre in tentazione” non deve affatto interpretarsi come se noi implorassimo Dio affinché non ci spinga alla tentazione del peccato. Poiché ciò sarebbe semplicemente contraddittorio.
Ad integrazione di quanto detto da mons. Bux, riprendo dalla sua pagina Facebook un parere di Moreno Morani, professore ordinario di glottologia dell’Università degli Studi di Genova, dove è stato anche direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, del Medioevo e geografico-ambientali (DISAM) e del Dipartimento di Scienze Glotto-etnologiche (Disglet).
Ecco la sua posizione:
“Anche se persone molto più titolate di me hanno già espresso il loro parere, vorrei dire anch’io la mia sulla questione del “non indurci in tentazione”.
1. Non sono un teologo, ma ho amici teologi, e tutti unanimemente hanno espresso più di una perplessità sulla nuova “traduzione”.
2. Di lingue e traduzioni invece penso di intendermene un po’ di più. Quindi mi permetto di esprimere alcune considerazioni.
a. I. Le traduzioni possono cambiare nel tempo, perché seguono il mutare delle lingue. Pertanto un cambiamento della traduzione in sé non sarebbe scandaloso. Da piccolo nell’Ave Maria dicevo “il Signore è teco”, oggi tutti diciamo “il Signore è con te”: eliminazione di una forma ormai uscita dall’uso e sostituzione col suo equivalente. Nessun problema.
a. II. Le traduzioni possono cambiare, ma devono rimanere traduzioni, non possono essere sostituite da parafrasi. Se un testo ha bisogno di chiarimenti, si scrivono note a piè di pagina o in appositi scritti, ma il testo non è soggetto a cambiamenti, altrimenti abbiamo quella che tecnicamente si chiama una interpolazione. Il testo del Nuovo Testamento in particolare, proprio per il valore che esso riveste per la comunità cristiana, richiede al traduttore un grande equilibrio. Si ricordi  come Gerolamo, santo patrono dei traduttori, nella Lettera a Pammachio inviti i traduttori del NT alla massima cautela e rispetto del testo, perché nel testo biblico anche la disposizione delle parole “mysterium est”. Un conto è tradurre Omero o Virgilio o qualunque altro testo di letteratura o meno, un altro conto è tradurre la Bibbia (e anche su molte versioni correnti ci sarebbe moltissimo da dire).
b. Per il Padre Nostro, il testo a cui fare riferimento è il greco del Nuovo Testamento. Gesù parlava in aramaico, e anche apostoli, discepoli, evangelisti avevano l’aramaico come lingua materna (ma forse Luca no) e usavano (con qualche fatica e approssimazione) il greco in quanto lingua veicolare di tutto il Medio Oriente. Tuttavia l’unica fonte certa che possediamo (l’unica fonte autorizzata, per usare un’espressione moderna!) è il greco del Vangelo. Ipotizzare possibili errori e fraintendimenti dei due evangelisti (Mt. 6, 13 = Lc. 11,4) che hanno riportato in greco le parole in aramaico di Gesù è fatica inutile, perché non vi sono elementi sui quali impostare una discussione seria.
c. Il verbo (εἰσενέγκηῃς) è chiaro e non ammette discussioni: εἰσφέρω è ‘portare dentro’ o ‘portare verso’ (‘bring on or upon, introduce’ secondo il Liddell-Scott; ‘llevar, conducir’ secondo il DGE, che cita fra gli altri proprio questo passo). Anche i testi non letterari dell’epoca (papiri) mettono in luce nettamente questo valore. Corretta quindi la traduzione della Vulgata ‘inducas’, sulla quale è basata la traduzione italiana corrente.
d. Sul sostantivo(περισαμόν) si sarebbe potuto lavorare con più frutto: περισαμός vale ‘prova’; la traduzione della Vulgata (temptatio) è corretta, ma nella tradizione italiana sulla parola ‘tentazione’ si sono sovrapposte delle incrostazioni moralistiche che hanno allontanato la parola dal suo valore primitivo, abbastanza chiaro e circostanziato: temptatio è ‘prova, esperimento’, anche in senso fisico (‘attacco di una malattia’). In sostanza ‘inducas in temptationem’ è ‘introdurci alla prova, metterci alla prova’, che, se proprio si voleva cambiare, sarebbe stato cambiamento molto più agevole.
Infine, oltre all’intervento di mons. Bux e del prof. Mareno Morani, è veramente molto interessante, e direi chiaramente espressa, anche la spiegazione data da padre Giuseppe Barzaghi, OP, sacerdote domenicano (Bologna 1988). Dottore in Filosofia (Università Cattolica di Milano, dove ha avuto come maestri G. Bontadini e A. Bausola) e Teologia (Pontificia Università San Tommaso d’Aquino in Roma). Docente di filosofia teoretica presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di teologia fondamentale e dogmatica presso la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna.
Per vedere il video, consigliato, cliccate sull’immagine:
Foto: padre Giuseppe Barzaghi, OP
https://gloria.tv/video/6qmk2AVVD99f2EYFu1myHgWA4
Foto: padre Giuseppe Barzaghi, OP
Sabino Paciolla
https://www.sabinopaciolla.com/a-proposito-del-non-ci-indurre-in-tentazione-del-padre-nostro/



Le preghiere ritradotte e i limiti della riforma liturgica







L'assemblea della Cei ha approvato la terza edizione del messale in italiano, suscitando vivo interesse per via delle nuove traduzioni del Padre Nostro, ampiamente prevista, accanto a quella del Gloria, inaspettata.

Già mesi fa dicemmo che questi cambi di traduzioni lasciano straniti e che, nei fatti, certificano la volontà di mettere tutto in discussione, per mantenere la Chiesa in uno stato di rivoluzione permanente.

Nelle traduzioni delle due preghiere però c'è anche un ulteriore elemento su cui riflettere. Nei fatti, la necessità di dover aggiornare le traduzioni ogni tot anni per renderle più comprensibili alle orecchie dei laici, è la certificazione notarile del fallimento della messa in lingua volgare. Tralasciando la forma liturgica o l'orientamento dell'altare, l'abbandono stesso del latino risulta fallimentare perché il linguaggio parlato si evolve e le parole assumono e perdono significati nel volgere delle generazioni, nascono neologismi e alcuni vocaboli escono invece dall'uso comune. Il tentativo ingrato di rincorrere il linguaggio corrente porterà a stravolgere completamente tutto il messaggio che dovrebbe essere veicolato dalla Messa.

Nello specifico, le traduzioni proposte per Padre Nostro e Gloria saranno sicuramente filologicamente corrette, ma siamo sicuri che siano davvero utili alla comprensione del messaggio? Il Padre non induce la persona in tentazione, ma la abbandona? Come vediamo, ogni parola in italiano ha sfumature e significati cangianti, inoltrarsi su questo percorso, apparentemente obbligato dalla riforma liturgica degli anni '70, è sostanzialmente problematico.

In tutto questo, prendiamo atto che un vescovo, di cui non si conoscono le generalità, all'assemblea  Cei avrebbe attaccato frontalmente il Motu Proprio Summorum Pontificum. Mentre nelle chiese si balla, si cantano e suonano buffonate, ci si dimena e via dicendo, sembra che il rito antico sia un problema per qualcuno e che il documento di Benedetto XVI non abbia fondamento giuridico. Posto che se dovessimo controllare il fondamento giuridico dei Motu Proprio, qualche canonista avrebbe qualcosa da dire riguardo ad alcuni fra i più recenti, il tentativo risibile di proporre nei fatti una marcia indietro sulla liturgia tridentina tradisce un notevole distacco dalla realtà. Ignorare che centinaia di miglia di persone in tutto il mondo sono ormai legate al messale antico e che attorno ad esso sono nate comunità e centinaia di vocazioni, vuol dire negare un pezzo di Chiesa viva e attiva. Chi ha attaccato il Summorum Pontificum farebbe meglio a guardarsi intorno.
di Francesco Filipazzi
http://campariedemaistre.blogspot.com/2018/11/le-preghiere-ritradotte-e-i-limiti.html

Sono ben formulate le sette domande del Padre Nostro?

La preghiera del Padre Nostro è perfettissima: poiché, come dice Agostino, “se preghiamo bene non possiamo dire altro che quanto è stato formulato in questa preghiera del Signore”. Infatti nella preghiera chiediamo rettamente quello che siamo capaci di rettamente desiderare, poiché la preghiera è come l'interprete del nostro desiderio presso Dio.
Ora, nella Preghiera del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma anche nell'ordine in cui vanno desiderate: per cui questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma altresì plasma tutti i nostri affetti.
Ora, è evidente che il primo oggetto del desiderio è il fine, a cui seguono i mezzi per raggiungerlo. Ma il nostro fine è Dio, al quale il nostro affetto può tendere in due modi: primo, volendo la gloria di Dio; secondo, desiderando di godere della sua gloria. Il primo di questi atti si riferisce all'amore col quale amiamo Dio per se stesso, il secondo invece all'amore col quale amiamo noi stessi in Dio. Da cui la prima domanda: Sia santificato il tuo nome, con la quale chiediamo la gloria di Dio, e subito dopo la seconda: Venga il tuo regno, con la quale chiediamo di raggiungere la gloria del suo regno.
Ma al fine suddetto una cosa può predisporci o direttamente o indirettamente. Direttamente ci predispone il bene utile al raggiungimento del fine. Ora, una cosa può essere utile per il fine, che è la beatitudine, in due modi. Primo, direttamente e principalmente, mediante il merito, che ci fa guadagnare la beatitudine con l'obbedienza a Dio. E ad esso si riferisce la domanda: Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Secondo, strumentalmente e quasi aiutandoci a meritare. E a ciò si riferisce la domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano; sia che essa venga intesa nel pane sacramentale, il cui uso quotidiano è vantaggioso per l'uomo, e nel quale vengono inclusi anche tutti gli altri sacramenti; sia che venga intesa anche del pane materiale, indicando col pane “qualsiasi cibo necessario”, secondo la spiegazione di Agostino: poiché l'Eucarestia è il principale sacramento, e il pane il principale alimento. Infatti in Mt (6, 11) si parla del pane soprasostanziale, cioè “principale”, come spiega Girolamo.
Indirettamente invece veniamo predisposti alla beatitudine mediante la rimozione degli ostacoli. Ora, tre sono gli ostacoli che ci allontanano dalla beatitudine. Primo, il peccato, che esclude direttamente dal Regno, come è detto in 1 Cor 6: Né immorali, né idolatri... erediteranno il regno di Dio. Da cui la domanda: Rimetti a noi i nostri debiti.
Secondo, la tentazione, che ci trattiene dall'adempiere la divina volontà. E ad essa si riferisce la domanda: Non ci indurre in tentazione, con la quale non chiediamo di non essere tentati in alcun modo, ma di non essere vinti dalla tentazione.
Terzo, le penalità della vita presente che sottraggono il necessario per vivere. E a ciò si riferisce la domanda: Liberaci dal male.

Tommaso D'Aquino - La Somma Teologica (Q.83, A.9)

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