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lunedì 17 febbraio 2020

Una pia illusione?

GIORGIA L’AMERICANA – ambiguità del conservatorismo nazionale – di Luigi Copertino

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GIORGIA L’AMERICANA

SULLE AMBIGUITA’ CULTURALI E POLITICHE DEL CONSERVATORISMO NAZIONALE
Ero ancora adolescente quando, nella mia giovanile militanza politica, in polemica con il  liberalismo ed il comunismo, imparai a pensare la “patria”, l’“appartenenza”, l’“identità”, nei termini di una comunità nazionale organica e socialmente integrata nella equa redistribuzione della ricchezza tra tutti i ceti. Quella che, in quegli anni, imparai ad amare era la “patria di popolo”, la “patria comunità”. Nulla a che vedere, dunque, con l’aggressivo sciovinismo né con imperialismi di alcun genere. Nulla a che vedere neanche  con un Occidente a guida statunitense, quanto piuttosto con l’Europa intesa quale millenaria tradizione spirituale romano-cristiana. 

Il mio patriottismo sociale, all’epoca infarcito di “confusione evoliana” poi diluita e che più tardi sarebbe diventato un patriottismo non solo sociale ma anche cattolico, era però molto distante dal conservatorismo retorico del patriottismo liberale e “savoiardo”, quello del “Piave mormorante” per intenderci. Certo mi apparteneva anche una forma atipica di “conservatorismo” nella misura in cui esso era inteso come radicamento  nell’identità spirituale e storica di un popolo, ma mi era chiaro, già allora, che l’innaturale innesto del liberismo, ossia dell’individualismo che è l’esatto contrario della comunità, della patria sociale, sul tronco del conservatorismo, se appunto inteso come difesa e sviluppo delle proprie radici – quindi come Tradizione – rappresenta un’edulcorazione, una contraffazione, un inganno.
Memore di quella formazione spirituale e politica, e soprattutto alla luce dei suoi successivi sviluppi religiosi, ho azzardato nello sperare che nella Meloni  fosse rimasta una qualche continuità ideale con il retaggio della concezione “comunitaria” della nazione che ha il suo ascendente filosofico e storico nell’“organicismo”. Una filosofia politica e sociale, l’organicismo, che è la risposta all’individualismo rivoluzionario, foriero del liberismo capitalista, e che forgiò, lungo due secoli, una visione critica della modernità, ad essa antitetica ma non meramente nostalgica di un mondo passato quanto invece riproponente il principio spirituale dell’idealtypus della comunità in forme tuttavia adeguate ai tempi moderni (1).
Quella speranza era, a quanto pare, una pia illusione e già lo si poteva capire dal fatto che la Meloni era stata inserita dal Times tra i «venti volti che potrebbero plasmare il mondo nel 2020». Quando il potere globale ti corteggia vuol dire che ha visto in te un utile idiota. La conferma è arrivata qualche giorno fa. Il 3 febbraio la Meloni ha aperto i lavori della conferenza organizzata a Roma dalla Edmund Burke Foundation intitolata “Dio, Onore e Patria: Ronald Reagan, Papa Giovanni Paolo II e la Libertà delle Nazioni”, con la presenza dell’ungherese Viktor Orban e della francese Marion Marechal-Le Pen, accreditandosi così come la referente italiana dei conservatori statunitensi. La Meloni, con tale iniziativa, ha fatto una chiara scelta di campo per la linea anglo-americana, liberale e liberista, del conservatorismo e contro la linea europea dello stesso, comunitaria e organicista, nella quale il patriottismo si ricollega direttamente all’identità romano-cristiana dell’Europa. Nella scelta di campo della Meloni, forse senza che la stessa se ne rendesse conto, è implicata anche una opzione in favore del protestantesimo – conservatore ma sempre protestantesimo – in luogo del Cattolicesimo. Non è stato un caso dunque se nei giorni immediatamente successivi la Meloni si è precipitata a ricevere l’investitura di Donald Trump, benché pare non l’abbia incontrato di persona, alla “National Prayer Convention”, un raduno dei repubblicani americani, di quelli per i quali Dio è “white anglo-saxon and protestant”, insomma “americano”, e si palesa nel “destino manifesto” della Nazione a stelle e strisce.
Prendiamo quindi atto che il partito della Meloni ha deciso di arruolarsi nelle “legione straniera” del conservatorismo a tinte liberiste e che questo induce fortissimi dubbi sul suo rivendicato sovranismo, che dovrebbe in primis significare piena sovranità anche sul piano delle alleanze geopolitiche e, quindi, in coerenza con la nostra storia millenaria ed anche con la nostra posizione geografica, fuoriuscita dalla Nato oltre che da una UE realizzata nel modo franco-tedesco attuale. Invece il sovranismo della Meloni si sta rivelando troppo drammaticamente simile a quello di un Trump o di un Bolsonaro. Si tratta probabilmente dello sbocciare dei fiori velenosi i cui semi sono stati sparsi da Steve Bannon.
Questa inevitabile presa d’atto è chiaramente confermata dal riferimento al pensiero di un liberal-conservatore come Edmund Burke e dal richiamo esplicito a Ronald Reagan ed implicito a Margaret Thatcher. Alla luce di questi riferimenti culturali si spiega anche l’accoglienza delle tesi dello storico israeliano Yoram Hazony sul nazionalismo “virtuoso”. Qui il discorso, però, potrebbe assumere una piega ambigua: conosce la Meloni i rapporti storici intercorsi tra il nazionalismo tedesco e quello sionista o pensa, in tal modo, di scrollarsi da addosso i sospetti di “antisemitismo” abilmente usati ad arte dalla sinistra fucsia per delegittimare gli avversari?
Del discorso della Meloni – reperibile sul web (si consulti il sito del quotidiano “Il Secolo d’Italia”) – non è certamente possibile criticare gli accenni alla difesa nazionale contro i vincoli esterni di una eurocrazia a guida franco-tedesca. Infatti uno dei pochi passaggi condivisibili del suo discorso, perché sanamente in linea con la concezione sociale e comunitaria della Nazione, è il seguente: «Il nostro principale nemico è oggi la deriva mondialista di chi reputa l’identità, in ogni sua forma, un male da combattere e agisce costantemente per spostare il potere reale dal popolo a entità sovrannazionali guidate da presunte élite illuminate. Ricordiamocelo, perché non abbiamo combattuto e sconfitto il comunismo per sostituirlo con un nuovo regime internazionalista. Ma per consentire a nazioni indipendenti di tornare a difendere la libertà, l’identità e la sovranità dei loro popoli. Con questo stesso spirito oggi Fratelli d’Italia si batte per una Europa di nazioni libere e sovrane come seria alternativa al superstato burocratico che si è andato imponendo da Maastricht in poi con la logica del “vincolo esterno”, quella per cui c’è sempre qualcuno che si arroga il diritto di decidere al posto dei popoli sovrani e dei governi nazionali. E questo qualcuno a Bruxelles o a Francoforte, a Davos o nella City londinese, pur non avendo alcuna legittimazione democratica, condiziona ogni giorno le scelte economiche e quindi le scelte politiche di chi invece quella legittimazione l’ha ottenuta dal voto popolare. (…). Quando le scelte dei governi nazionali si rivelano incompatibili con il vincolo esterno si attiva subito il processo di normalizzazione. O il Governo si piega ai diktat sovrannazionali oppure sarà rimosso e sostituito, usando come armi i vincoli economici europei da rispettare, le azioni mirate sui mercati finanziari, l’influenza sui media. (…) solo difendendo lo Stato nazionale si difende la sovranità politica in capo ai cittadini di quello Stato».
Ma, al di là di questo e di qualche altro passaggio, la Meloni ha passivamente assecondato tutti gli equivoci culturali che erano alla base dell’evento romano. In un crescendo di richiami alla cultura conservatrice di marca anglo-americana, come quando ha citato Roger Scruton, la Meloni ha asseverato l’accostamento di Papa Wojtila a Ronald Reagan con il quale gli organizzatori dell’iniziativa hanno inteso tradurre l’assolutamente falsa equiparazione della teologia sociale del Cattolicesimo al liberalismo conservatore nato e cresciuto nell’“anglosfera”. L’uso strumentale di Giovanni Paolo II indebitamente accostato, secondo la moda teo-conservatrice inaugurata da Michael Novak, a Reagan ed, implicitamente, alla Thatcher, è non solo illegittimo ma anche abusivo. Se è vero che, da patriota polacco che ebbe a che fare con due occupazioni straniere, la tedesco nazista e la sovietico comunista, Papa Wojtila ha fatto spesso richiamo, nel suo magistero sociale, all’idea di nazione e di identità cristiana della nazione, è però altrettanto vero, e non si può affatto sottacerlo, che egli non ha mai perorato le politiche economiche liberiste. Anzi ne è sempre stato un critico attento nella linea del tradizionale primato dal Cattolicesimo assegnato alla Verità, e non dunque alla libertà individuale. Il primato della Verità si manifesta, sul piano sociale, in un insieme di principi etici di comunione e condivisione, da tradurre in norme giuridiche di vista associata, dai quali la stessa economia, nella visione cattolica, non deve prescindere. Il personalismo comunitario cristiano cui si richiamava il Papa polacco non a nulla da spartire con l’individualismo metodologico ed economico della cultura liberale e liberista. Papa Wojtila non è stato solo il papa anticomunista, come lo dipingono Antonio Socci o George Weigel, ma un papa in continuità con il tradizionale antiliberismo della teologia sociale cattolica. Egli è stato anche un pungente critico del liberismo.
EDMUND BURKE
Per capire i motivi alla base di questa illegittima equiparazione è necessario tener conto della storia fattuale e di quella della filosofia. Con il richiamo ad Edmund Burke gli organizzatori del convegno hanno voluto indicare una precisa linea storico-filosofica che è quella del liberalismo conservatore. Una linea importata in Italia, nel nome del “conservatorismo tradizionalista”, da associazioni cattoliche teoconservatrici e propagandata sui loro quotidiani siti bussolanti. Alla deriva neoconservatrice di questi gruppi lo scrivente dedicò anni fa un libro critico (2).
Edmund Burke (1729-1797), avvocato latifondista irlandese di padre protestante e madre cattolica, è stato il rappresentante della linea anglicano-conservatrice del liberalismo inglese. Le sue “Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia” sono un classico del pensiero liberal-conservatore avverso al totalitarismo giacobino scaturito, con la sua violenza ed i suoi orrori, dal 1789 e colpevole di perseguire una politica costruttivista anziché conforme all’“ordine naturale” ossia di lento sviluppo dei principi tradizionali facendo attenzione a non tagliare i rami dal tronco vitale e pertanto dalle radici della tradizione. C’è in Burke, senza dubbio, un qualcosa di organico al tradizionalismo identitario e religioso – abile scrittore sapeva anellare il suo pensiero con affascinanti frasi come questa tratta dalle “Riflessioni” «L’età della cavalleria è finita. Quella dei sofisti, degli economisti e dei contabili è giunta; e la gloria dell’Europa giace estinta per sempre» – e tuttavia i conti non tornano. Perché – benché si facesse paladino della “tradizione” e del “pregiudizio” inteso, quest’ultimo, come il “common sense” della cultura popolare impregnata di richiami consuetudinari, atavici, non razionali (in questo ponendosi anche come tramite in Inghilterra di un umbratile romanticismo) e benché fosse un critico del razionalismo illuminista e delle sue astrazioni quali i “diritti dell’uomo” e la “libertà astratta contrapposta alle libertà concrete”, cui contrapponeva i concetti teologici del peccato originale e di divina provvidenza – egli, quando il suo partito di origine si divise tra i new whigs di Charles James Fox e gli old whigs di William Windham tra i quali si collocò, passando dai liberali Whig ai conservatori Tories, sposò un conservatorismo liberale tipicamente anglosassone ossia, nonostante una superficiale tinteggiatura organicista, a base gius-contrattualista con una forte propensione, protestante, ad eccedere nel pessimismo antropologico in contrapposizione all’ottimismo antropologico di un Rousseau (da un punto di vista cattolico si tratta delle due deviazioni, quella di destra e quella di sinistra, dalla corretta antropologia teologica).
Burke, mentre criticava la Costituzione francese del 1791, astratta e rivoluzionaria, ispirata alla ateistica “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, negava ogni possibile  legame di essa con il “Bill of Rights” del 1689 ossia la Costituzione inglese promulgata a seguito della “Glorious Revolution” del 1688. Tuttavia, come egli stesso riconosceva, la Costituzione inglese aveva la propria paternità filosofica nel contrattualismo empirista di John Locke. Pur occhieggiando all’anti-utilitarismo, Burke ha tentato, contro ogni evidenza giacché la “Gloriosa Rivoluzione” fu l’affermazione della borghesia affaristica e speculativa, di tracciare una netta distinzione tra la Rivoluzione inglese, e poi americana del 1775-76, e quella francese del 1789. Le prime due, a suo giudizio, sarebbero in linea con la continuità conservatrice della “tradizione” laddove la seconda è foriera di astrattismo rivoluzionario e di distruzione civile. Questa distinzione tra la “buona” Rivoluzione Inglese ed Americana e la “cattiva” Rivoluzione Francese resterà uno dei leitmotiv fondamentali del pensiero liberal-conservatore.
Sulla scia di questa distinzione Burke difese energicamente, nel parlamento inglese, la libertà religiosa dei cattolici irlandesi ed il diritto all’autonomia delle colonie americane d’oltreatlantico, senza tuttavia minimamente cogliere la differenza tra il giusnaturalismo di eredità tomista ed il giuscontrattualismo di elaborazione protestante che è in sostanza una trasformazione-corruzione, prima deistica e poi ateistica, del primo. Non è possibile comprendere la posizione ambigua di Burke se non si tiene conto del suo anglicanesimo seppur conservatore.
Il conservatorismo liberale, che prende le mosse dal suo pensiero, ritiene la “libertà religiosa” di tipo soggettivista in sostanziale continuità storico-filosofica – per il tramite anglicano e pre-illuminista del giuscontrattualismo di Locke – con l’eredità spirituale della Cristianità medioevale. Tuttavia questa interpretazione sorvola con straordinaria ed inopportuna facilità sull’effettivo significato spirituale del processo storico, e sulle sue conseguenze reali, che maturò in Europa con la Riforma. Un processo che se ha portato ad esiti diversi, rappresentati dalle due Rivoluzioni, quella Inglese/Americana e quella Francese, non è però diverso nella spuria radice teologica e filosofica che ne è all’origine. Ciò che ha differenziato il gius-contrattualismo anglicano dal giusnaturalismo cattolico è stata la cesura del mondo nord-europeo e, in particolare, anglosassone dalla radice apostolica. Nel momento in cui, con la Riforma, parte cospicua della Cristianità fuoriesce dall’alveo apostolico e cattolico, nel quale la conoscenza piena del diritto naturale era maturata come conseguenza dello svelamento cristiano dell’ordine ontico da Dio posto nel mondo, tutti i concetti teologici, filosofici, giuridici e politici, che di quel patrimonio teologico e filosofico facevano parte, cambiano completamente di significato, sia teoretico che pratico, assumendone un altro, di tipo contrattualista ed individualista. Questo mutamento è storicamente registrabile anche laddove, come appunto nel mondo anglicano, si è cercato – si pensi al vano tentativo di Richard Hooker, considerato una sorta di San Tommaso d’Aquino dell’anglicanesimo – di conservare perlomeno l’apparenza delle forme di eredità cattolica e medioevale, senza però riuscirvi, nell’impossibilità non dichiarata di conservarne la sostanza.
I secoli XVI e XVII furono quelli della cosiddetta “proto-globalizzazione”. Essi videro il confronto politico ed economico tra l’emergente potenza protestante, e corsara, dell’Inghilterra di Enrico VIII, prima, e soprattutto di Elisabetta I, dopo, ed un giovane regno cattolico, costituitosi nell’unione personale delle due corone di Castiglia ed Aragona, i cui sovrani avevano avviato la conquista del Nuovo Mondo, in quello che sarà definito il “siglo de oro” (anche nel senso concreto del termine vista l’ingente quantità di metallo pregiato che dalle Americhe prese la via dell’Europa), nutrendo tuttavia ancora sogni medioevali come quello di una rinnovata Monarchia universale – che il Gattinara avrebbe suggerito, quale suo consigliere spirituale, all’imperatore Carlo V erede della corona spagnola – e mossi da una sincera volontà, perlomeno per quanto riguarda gli stessi Reyes Catolicos e la Chiesa, di conversione pacifica dei nativi americani in contrasto, come dimostrò la vicenda del frate domenicano Las Casas e la coeva elaborazione per merito dei teologi di Salamanca dello “jus publicum europaeum” ossia del moderno diritto internazionale, con la prassi di conquista violenta dei conquistadores (la quale tuttavia, per quanto cruenta e per questo combattuta dalla Corona e dalla Chiesa, non determinò il crollo demografico della popolazione india che fu invece causato dallo shock epidemiologico provocato da malattie, di provenienza europea, fino ad allora sconosciute nelle Americhe).
In quei secoli cruciali, nei quali la partita fu vinta dall’Inghilterra anglicana,  mentre per un verso la Chiesa cattolica, al contatto con popoli della cui esistenza fino a quel momento non si sospettava nulla, si universalizzava in senso pieno diventando meno eurocentrica, prese corpo l’inizio dell’estraneazione dell’Europa da sé stessa. La conquista del Nuovo Mondo, infatti, perse ben presto, anche a causa della rottura dell’unità religiosa europea provocata dalla Riforma, ogni dimensione spirituale e religiosamente missionaria, che pur era fortemente presente all’inizio, per trasformarsi esclusivamente in una conquista geopolitica e geo-economica dell’intero globo terracqueo. Un percorso lungo il quale la Cristianità defunse ed al suo posto sorse dapprima l’“Europa cristiana” degli Stati nazionali, ma religiosamente ormai irrimediabilmente disunita, e poi, quando il processo di secolarizzazione arrivò a completamento, l’Occidente liberale il cui centro di gravità, dopo le due guerre mondiali del XX secolo, si spostò dall’Europa stessa verso gli Stati Uniti d’America.
Ebbene, è a questo antefatto epocale che bisogna guardare per comprendere le ambiguità e le aporie del pensiero di Edmund Burke e quindi, in genere, del pensiero liberal-conservatore. L’Europa degli Stati nazionali moderni, che si forma in quei frangenti storici, non è più la Cristianità medioevale. Essa era, come si è detto, un’“Europa cristiana”, ricomprendente tanto i regni cattolici quanto quelli riformati, che tale sarebbe rimasta per un paio di secoli per poi trasformarsi, tra gli inizi e la metà del XX secolo, nell’Occidente post-cristiano che oggi conosciamo.
Le aporie teologiche e storiche che inficiano il pensiero di Burke sono le stesse sulle quali ha fatto successivamente leva il liberalismo per liberarsi anche dai residui scrupoli anti-utilitaristi e religiosi che pur sussistevano nell’autore delle “Riflessioni” e che lo avevano portato a denunciare le grandi operazioni speculative che andavano realizzandosi dietro il paravento della Rivoluzione (3). Il suo percorso intellettuale, che non a caso nel XX secolo ha trovato un continuatore nel presbiteriano americano Russel Kirk, è alla radice della cultura conservatrice statunitense che dallo stesso Kirk giunge fino al Nisbet.
TOLKIEN E LA “CATHOLIC RENAISSANCE”
Ma proprio in Inghilterra tra il XIX ed il XX secolo si assistette ad una “catholic renaissance” che prese le mosse dalla riflessione, impropriamente fatta passare per catto-liberale, del cardinale John Henry Newman, convertitosi dall’anglicanesimo al Cattolicesimo. Da Newman partì una feconda linea di ritorno culturale cattolico che vide protagonisti insigni come Thomas Stearn Eliot, Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc. In questa corrente di ritorno al Cattolicesimo va situato anche il più grande scrittore epico del XX secolo, John Ronald Reuel Tolkien, l’autore della saga del “Signore degli Anelli”. Nato da madre cattolica, cacciata dall’originaria famiglia protestante a causa della sua conversione, e, dopo la scomparsa di quest’ultima, allevato da un sacerdote cattolico, Tolkien ha espresso la fede cattolica, assorbita sin dal seno materno, nella sua opera letteraria. Dietro il velo di una narrazione mitologica e delle conoscenze filologiche di uno straordinario professore oxfordiano quale egli era, è facilmente intuibile la sua fede cattolica. Memorabili, fino alla commozione, le pagine da lui lasciate scritte, nell’epistolario reso noto post mortem dal figlio, sull’Eucarestia.
Nel suo discorso al convegno romano la Meloni ha citato anche Tolkien quale esempio di un patriota conservatore. Tuttavia anche in questo caso la citazione, nel contesto di quel convegno, era palesemente strumentale ed abusiva. Perché Tolkien era sì, senza dubbio, un patriota ed anche un conservatore ma non un liberale e tantomeno un liberista atteso che il suo antimodernismo lo portava ad un’aspra critica, simile a quella di Chesterton e Belloc, i padri del distributivismo, verso il sistema del capitalismo liberale, nel quale egli vedeva soltanto una aberrazione totalitaria al pari del totalitarismo comunista.
ORGANICISMO
La Meloni, nel raduno al quale ha partecipato negli Stati Uniti subito dopo il convegno romano, ha avuto parole di esaltazione del senso religioso manifestato dai conservatori americani senza minimamente domandarsi se tra la religiosità americana e quella che un tempo fu dell’Europa vi è continuità o discontinuità. Come politico la Meloni sembra prestare poca attenzione ai problemi teologici, filosofici e storici. Ma fa molto male. Nel suo discorso romano ha equiparato l’italico “Dio, patria e famiglia”, ovvero la Tradizione Cattolica, l’appartenenza patria e quella famigliare, all’americano ed anglosassone “Dio, libertà, nazione”. La nostra Giorgia non è evidentemente al corrente che, al di là della formale apparenza, questi slogan esprimono due visioni con radici spirituali e filosofiche completamente divergenti che solo l’ignoranza o la malafede possono pretendere di tenere assieme. Il motto italico, infatti, esprime una visione organicista del vivere associato, ossia del Politico, mentre lo slogan americano fa trapelare una concezione contrattualista della nazione intesa non come comunità organica ma come “contratto sociale” secondo la versione liberale, lockiana, del contrattualismo sociale.
La concezione organicista, che è certo conservatrice per alcuni versi e può essere socialmente molto avanzata per altri versi, si oppone frontalmente all’individualismo ed al contrattualismo. Essa non riconosce alcun valore all’individuo il quale, nella teoria contrattualista, è invece il pieno depositario di tutti i diritti. L’individuo totipotente del liberalismo, costretto tuttavia a interagire con le altre mondi individuali,  va alla ricerca di mediazioni ed accordi contrattualistici per generare, per tale via, ossia per contratto, non dunque per natura, la Comunità Politica. In realtà quest’ultima, che abbia la forma dello Stato nazionale, come è a partire dal XVI secolo, o altra forma politica, non è un contratto tra individui atomizzati, senza radici spirituali e storiche, ma è qualcosa di più e di prioritario rispetto alla supposta somma meramente sinallagmatica o reticolare delle monadi individuali.
L’organicismo respinge la nozione astratta di individuo ed invece accoglie quella concreta di persona, nella sua triplice dimensione spirituale, psichica e corporea. Esiste un nesso indissolubile tra organicismo e personalismo. Ecco perché l’organicismo si sposa perfettamente con la Rivelazione cattolica la quale non solo concepisce la Chiesa come “Corpo Mistico di Cristo”, gerarchicamente fondato sul Sacerdozio Regale al modo di Melchisedek, ma soprattutto concepisce la persona sì come soggetto cosciente ma che, per natura ossia per volontà stessa di Dio, non si dà mai senza relazione ed appartenenza, perché è posta all’interno, al centro, di un Kosmos onticamente ordinato. La riflessione sociale cattolica ha, infatti, fatto propria la definizione aristotelica dell’uomo quale essere naturalmente sociale nella prospettiva della valutazione della filosofia degli antichi quale propaideia Christoû ovvero praeparatio evangelica delle genti. Questa “propedeutica preparatoria” – si badi! – non è un escamotage o un accomodamento teologico ma l’essenza medesima del millenario processo di progressivo avvicinamento ed incontro tra Gerusalemme ed Atene, i cui prodomi vanno ricercati nell’età alessandrina ma, soprattutto, secoli prima, in contemporanea all’inizio della riflessione filosofica greca sull’essere, nel misterioso svelarsi ed al tempo stesso celarsi del Dio del roveto ardente il Quale, nella apparente tautologia con la quale si rivela a Mosè come “Io Sono Colui che Sono”, si dichiara Inafferrabile nella Sua Infinità ma, al tempo stesso, accessibile, nella misura del  possibile per le limitate capacità umane, proprio in quanto Egli ha scelto di rivelarsi aprendo all’uomo entrambe le vie, mistiche e teologiche, dell’apofatismo e del catafatismo. Vie che quindi si sostengono a vicenda e non devono essere contrapposte come hanno fatto lungo i secoli le spiritualità, le teologie e le filosofie sfocianti nell’eterodossia.
L’ontologia separata dalla metafisica è soltanto la pretesa dell’autocostruzione religiosa avanzata dall’“individuo assoluto”, niccianamente mosso alla volontà di potenza, che crede di costruirsi da sé il “suo dio” quale feuerbachiana proiezione/alienazione del proprio io ipertrofico. Non a caso Feuerbach è stato basilare sia per Marx che per Nietzsche ed alla lunga ha influenzato anche Heidegger.
La persona, dunque, nella sua effettiva realtà ontica e storica, è soggetto cosciente ma sempre immancabilmente relato, laddove invece l’individuo, ontologicamente inesistente nella realtà oggettiva perché sussistente, come mero concetto, soltanto nelle teorie liberali del contratto sociale, è per definizione una chiusa monade irrelata che si connette con gli altri individui solo per mezzo di una rete sinallagmatica intesa alla reciproca regolazione utilitaristica dei rispettivi diritti ed interessi (4). In una concezione organicista, al contrario, non c’è posto per la cieca fede nella “mano invisibile del mercato”. Una fede secolare che guarda al mercato come al “dio” immanente che spontaneamente redistribuisce risorse a condizione di obbedire alla legge dell’egoismo benefico che è la trasposizione in economia del luterano “peccato salutare”. Qui, in questa fede secolarizzata, non c’è alcuno spazio per l’Autorità politica chiamata, per mezzo di intelligenti e non fagocitanti politiche dirigiste e protezioniste, a coordinare i corpi intermedi al Bene comune della Comunità politica nel suo complesso, della nazione intesa come comunità organica. Affermare, organicisticamente, il primato del Bene Comune significa, evidentemente, sotto il profilo delle politiche economiche,  assegnare una certa prevalenza, del resto naturale, alla domanda interna sul vincolo esterno e sulle esportazioni, senza tuttavia pensare ad impossibili e totali chiusure autarchiche. Il criterio della “preferenza nazionale” non è quel delitto di lesa maestà che presume il liberismo e che, d’altro canto, come le vicende dell’Unione Europea, che pur ha fatto del liberoscambismo assoluto un dogma, dimostrano, nessuno segue quando ci sono di mezzo strategici interessi nazionali.
«Questa visione del mondo (l’organicismo”) – scrive Jean-Yves Camus – (è stata) … politicamente sulla difensiva in epoca recente, in cui erano ideologicamente egemoni il liberalismo classico … e … il conservatorismo moderato (quello che il presidente George W. Bush e David Cameron chiamano “compassionate Conservatorism”, conservatorismo compassionevole). Ma questa egemonia è ampiamente crepata, da una parte per via … (della crisi economica iniziata nel 2008, nda), dall’altra a causa della perdita di forza, a destra, del conservatorismo temperato e del liberalismo. (…). In effetti, (la) … destra conservatrice classica – su alcuni temi sociali come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la procreazione assistita, il fine vita, per non parlare di questioni … come … la natura contrattuale della cittadinanza – professa dei valori liberali nel senso dell’umanesimo ispirato dall’illuminismo, valori che non sono … (propri dell’organicismo). (…). Si può parlare di crisi profonda del pensiero conservatore che contrappone i sostenitori della società secolarizzata al ritorno del pensiero cattolico; gli individualisti agli organicisti; (i globalisti) … agli identitari» (5).
D’altro canto sussiste effettivamente il pericolo, come sempre annota Jean-Yves Camus, del ritorno ad una concezione costruttivista e “tellurica” della comunità nazionale, sul tipo di quella propugnata dai fascismi contro l’idea tradizionale di patria intesa come identità storica e culturale, radicata nella Spiritualità trascendente, di un popolo. Si tratta, in altri termini, del pericolo del ritorno di un «… concetto di Nazione fondato sulla “terra e i morti”, come diceva Maurice Barrès, e su un culto dell’identità immutabile che riposa principalmente su alcune manipolazioni della storia, su delle radici militarizzate e, soprattutto, su una fobia di tutti gli individui e i gruppi che non rientrano nello stampo di queste identità ricostruite» (6).
Orbene, un pericolo del genere, senza per questo abdicare ad un sano concetto comunitario e quindi anche sociale di Patria, è evitabile solo laddove l’organicismo resta ben saldo nel suo Fondamento Trascendente, ossia mettendo al bando ogni organicismo di tipo sociologico, etnocentrico, vitalistico, volontarista, subcosciente, elementale: «Così dice il Signore: Spezza il tuo pane con l’affamato, introduci in casa i miseri, senza tetto, vesti uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua gente. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà» (Isaia 58, 7-10). Accogli dunque lo straniero ma – questo è il punto differenziale con l’umanitarismo globalista! – “senza distogliere gli occhi dalle necessità della tua gente”.
UNA DIFFICILE RICERCA DI “PADRI NOBILI”
D’altronde è possibile ipotizzare che la nostra Giorgia nazionale sia alla ricerca di padri nobili al cui pensiero ancorare il quadro politico di riferimento del suo partito, attualmente in ascesa. Ma, se è così, pensiamo di poterle suggerire di guardare in particolare alle molteplici correnti che nel corso del XIX e del XX secolo hanno animato l’organicismo, anziché farsi dettare la linea da Fondazioni conservatrici anglosassoni ed americane o dagli ambienti del nazionalismo ebraico. Una ricerca intraprendere la quale significa anche separare il grano dal loglio ossia individuare il pericolo del tellurismo, cui poco fa si faceva riferimento, per riaccostare, invece, la Radice Trascendente dell’ideale politico di comunità.
Una rivisitazione consigliabile, che va nel senso di quella ricerca, che solo in Europa può trovare esiti coerenti con le premesse, è quella, tanto per restare ancora in Inghilterra, delle idee distributiviste, intese alla condivisione quanto più ampia della proprietà in forma cooperativistica, di Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc, già citati, o quelle del cosiddetto “guild socialism”, prefiguranti una democrazia sociale e base sindacale e corporativa, che furono fatte proprie dal tradizionalista monarchico ispanico Ramiro De Maeztu.
Certo anche la storia delle idee organiciste in Europa è attraversata, come si accennava, dalla forte presenza di quel pericolo costruttivista e tellurico al quale faceva riferimento Jean-Yves Camus, sicché alla conoscenza storica deve accompagnarsi una metodologia intesa ad enucleare nelle correnti dell’organicismo europeo quei concetti che, debitamente depurati dal “tellurismo” e da “volontà auto-costruttivista di potenza”, e ben rinsaldate sui più solidi e spiritualmente autentici principi spirituali, possano costituire la trama ideale per politiche radicate nella realtà identitaria dei popoli europei, che si ribadisce è quella cristiano-romana.
Per restare nel campo del nazionalismo, nel quale la Meloni è a casa, dovrebbe essere aperta una salutare riflessione sulla trasformazione dell’idea di nazione, nata a sinistra nel 1789 come “contratto sociale” e diventata nella forma vitalistica della “comunità di popolo” (“il plebiscito quotidiano” cui si richiamava Ernest Renan) il cavallo di battaglia della destra rivoluzionaria di massa un secolo dopo. Venute meno le premoderne prospettive dell’alleanza tra “Trono ed Altare”, questa trasformazione ha accompagnato, con l’Action Francaise, la rinascita moderna, dalle pretese “scientifiche”, del conservatorismo nazionale. La piattaforma filosofica del movimento maurrasiano era costituita da un organicismo naturalista mutuato dal positivismo saintsimoniano e comtiano, dalla sociologia di Emile Durkheim e da quella di Pierre Guillaume Frédéric Le Play, dalla filosofia giuridica sociale di Léon Duguit . Un organicismo naturalista, si è detto, quindi “tellurico”. Tuttavia è accaduto che alcuni suoi esponenti,  Frédéric Le Play, ad esempio, e a quanto pare lo stesso Maurras (quest’ultimo, dopo la scomunica, negli ultimi anni della sua vita), dall’originario positivismo sociologico hanno ritrovato la via del Cattolicesimo avendo preso chiara consapevolezza che l’organicismo non regge senza saldi fondamenti spirituali.
La destra maurrasiana incontrò sulla sua strada la sinistra sindacalista rivoluzionaria intrisa di uno pseudo-misticismo irrazionalista di marca soreliana. L’esito fu una riformulazione della prospettiva organicista che intendeva fare dei sindacati, intesi quali nuovi corpi intermedi, la base di una riforma dello Stato nazionale onde superarne l’originario impianto individualista e contrattualista. La convergenza tra maurasiani e sindacalisti rivoluzionari francesi avvenne intorno alla figura  di Pierre-Joseph Proudhon per via del suo socialismo organico, fondato sulla piccola e diffusa proprietà e sulle virtù austere e spartane del popolo produttore. Da questa convergenza nacque, ad esempio, il nazional-sindacalismo di Georges Valois, anarco-sindacalista diventato maurrasiano e successivamente internato nel campo di concentramento di Bergen-Belsen dove sarebbe morto, che auspicava lo Stato sindacale allo scopo di ricostituire i corpi intermedi dell’antica monarchia francese che l’individualismo repubblicano aveva spazzato via.
Il clima, come si vede, è ancora quello tipico dell’organicismo tellurico, naturalistico, e tuttavia è a margine di questi ambienti che devono essere collocati, benché in una posizione più defilata per via del loro profilo marcatamente spirituale e “mistico”, assente nei maurasiani positivisti e nei sindacalisti rivoluzionari, un socialista non marxista convertito al cattolicesimo come Charles Péguy ed il cattolico nazionale Georges Bernanos. Ad ulteriore dimostrazione che, alla fin dei conti, gli spiriti migliori si volgevano alla spiritualità cristiana nella loro ricerca di sicure basi dell’organicismo.
In Italia il sindacalismo nazionale trovò tra i suoi interpreti più autorevoli il sindacalista rivoluzionario Sergio Panunzio, intimo amico di Mussolini nonché principale teorico del corporativismo di sinistra. Il Panunzio, che fu maestro di Costantino Mortati uno dei “padri costituenti” dell’immediato dopoguerra, si avvicinò anche lui al Cattolicesimo nella ricerca di una più salda, metafisicamente parlando, concezione organica. Uno dei suoi figli, Silvano Panunzio, nel dopoguerra in rapporti di figliolanza spirituale con padre Pio da Pietrelcina, è stato tra i maggiori esponenti di un certo, non esente da ambiguità, “esoterismo cristiano”. Lo stesso Giuseppe Bottai, che nel regime fascista fu ministro delle Corporazioni, e che è stato in assoluto il migliore ministro dei beni culturali che l’Italia abbia mai avuto, trovò la strada di Cristo attraverso i suoi sforzi politici per la riforma sociale organicista dello Stato, sulla quale all’epoca si svolsero grandi dibattiti e convegni, da lui stesso promossi, che caratterizzarono la vita culturale del nostro Paese in quegli anni. Bottai morì cattolico rimpianto da un cardinale quale “uno dei migliori figli di Santa Romana Chiesa”.
Pur caratterizzato da faustiane aspirazioni “imperialistiche”, tipiche dell’epoca, anche in Italia il nazionalismo passò ben presto a rivendicare per sé il sindacalismo organicista quale propria piattaforma sociale. Un Alfredo Oriani, ambiguamente sensibile ai rapporti tra fede cattolica e sentimento patriottico, ed un Enrico Corradini lanciarono segnali di apertura ai socialisti patriottici come Filippo Corridoni auspicando la convergenza tra nazionalisti e sindacalisti in un “nazionalismo sociale” che, nella fusione tra dato nazionale e dato sociale, si prefigurasse come il “socialismo della nazione italiana nel mondo”, perché – così sostenne Corradini, con il linguaggio retorico dell’epoca, in una conferenza triestina nel 1909 e ribadì all’Università popolare di Milano nel 1914 – « … il nazionalismo (si) accost(a) alla parte produttrice del popolo italiano … (e) … non parteggiò mai per la borghesia contro il proletariato. Anzi fra alcuni non de’ meno ragguardevoli suoi seguaci e quella riforma del socialismo che si chiama sindacalismo, ci fu uno scambio di amorosi sensi; né i primi rifuggirono dal concepire un futuro ordinamento nazionale a somiglianza di un grande sindacato, composto di tanti piccoli sindacati di lavoratori. E tutti senza esclusione i nazionalisti videro nel popolo, nel proletariato delle officine e dei campi la buona forza generosa e feconda, il gran vivaio di giovinezza onde la civile virilità si alimenta». Fu proprio un nazionalista, Filippo Carli (il padre di Guido, poi, nel dopoguerra, governatore della Banca d’Italia), tra i primi in Italia a parlare di “partecipazione degli operai alle imprese”, tale era il titolo di un suo saggio del 1918 che introduceva nel dibattito il tema di quella che oggi si chiama “democrazia industriale” realizzata, ad esempio, dalla tedesca Mitbestimmung o “codecisione”.
In questo clima sempre contrassegnato da un sostanziale naturalismo di quando in quando si faceva palese qualche barlume per un ripensamento spirituale dell’organicismo, non senza comunque aggiungere a volte ulteriore confusione. In Austria, in polemica con la Scuola austriaca di economia politica e con il marginalismo di Karl Menger, il filosofo, sociologo ed economista Othmar Spann, perseguitato dai nazisti dopo l’Anschluss, approfondiva, nell’opera “Il Vero Stato”, in bilico tra idealismo mistico e filosofia cristiana, l’organicismo ricollegandone le radici da un lato alla ambigua spiritualità romantica dell’ex protestante convertito al cattolicesimo Adam Müller, amico e collaboratore del principe Klemens Metternich, e dall’altro all’eredità corporativista della tradizione cattolica. Ma non in termini meramente nostalgici. Infatti lo Ständerstaat, ossia lo Stato corporativo, di Spann è pensato come Stato cetuale basato sugli stand, o anche “bund”, che nella realtà moderna non potevano che essere i sindacati intesi quali corpi intermedi dell’era industriale. Il pensiero di Spann, nonostante egli criticasse il governo del piccolo austriaco, influenzò profondamente le concezioni del cancelliere anti-nazista Engelbert Dollfuss che inseguiva il sogno di una rinascita dell’Austria nella forma dello Stato Corporativo Cristiano.
Giungiamo così alla linea più apertamente cattolica del pensiero organicista del XX secolo. Essa prende le mosse dalla riflessione post-rivoluzionaria, critica dell’individualismo, e passa da iniziali piattaforme caritative a formulazioni dottrinarie più sociologiche, politiche, economiche – senza d’altro canto mai perdere di vista la radice etico-spirituale – che saranno poi consacrate nelle encicliche sociali dei Papi. Il movimento sociale cattolico, tra XIX e prima parte del XX secolo, si snoda, infatti, lungo un percorso che da Frédéric Ozanam, attraverso il vescovo Wilhelm Emmanuel Von Ketteler e il conservatore Giovanni Battista Paganuzzi, giunge ai moderni corporativisti Jacopo Mazzei e, soprattutto, Giuseppe Toniolo. L’eredità di questi sarà ripresa ed aggiornata, nello spirito dei tempi della società di massa, in avanzato stato di sviluppo, dai corporativisti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore come padre Agostino Gemelli ed Amintore Fanfani, al quale ultimo si deve, in gran parte, il contenuto corporativista, post-fascista, di articoli fondamentali, l’1, il 3, il 39, il 46, il 99 ed altri, della vigente Costituzione del 1948.
Abbiamo tratteggiato questa sintetica ricostruzione dei percorsi più recenti dell’organicismo con l’intento di metterne in evidenza le ambiguità naturalistiche ma anche le sempre aperte potenzialità di ricollegamento con la radice spirituale e trascendente che è alla base stessa della costituzione ontologica dell’essere umano. Sicché laddove l’organicismo misconosce tale radice esso si capovolge in un pericoloso tribalismo, quello richiamato da Jean-Yves Camus. Invece dove esso tale radice trova o ritrova apre inedite vie di riappropriazione sociale ed identitaria dello Spirito.
Dalla nostra ricostruzione, appena accennata, diventa evidente anche un altro punto della questione ossia che il nazional-conservatorismo euro-continentale, a differenza di quello anglo-americano, si è accreditato sulla scena storica moderna cercando, nella linea dell’organicismo, una saldatura corporativista con il sindacalismo. Non con il liberalismo né con il liberismo. Sicché se La Meloni ed il suo partito vogliono caratterizzarsi per una proposta culturale e politica “rivoluzionario-conservatrice” dovrebbero lasciar perdere le sirene burkiane, kirkeriane, hazonyane, insomma “anglicano-sioniste”, per guardare alle autentiche radici della cosiddetta “destra sociale”.
CONSERVATORISMO E’/O SOVRANISMO?
La Meloni, invece, nel suo discorso nel convegno romano, ha innestato su principi sani – l’appartenenza, l’identità, la comunità nazionale – elementi assolutamente spuri ossia il liberismo, l’esaltazione dell’occidente mercantile, l’adesione al sionismo. Giorgia entra in conflitto con sé stessa quando parla contro la globalizzazione e al tempo stesso difende un Occidente comprensivo di entrambe le sponde oceaniche, quella europea e quella nord-atlantica, dimenticando la vocazione mediterranea ed orientale dell’Europa e dell’Italia in particolare. Una saggia politica euro-mediterranea dovrebbe fondarsi proprio su questa misconosciuta vocazione per la quale come europei ed italiani dovremmo guardare, anche a costo – Dio volesse! – di uscire dalla Nato, alla Russia di Putin ed agli Stati che nel Vicino Oriente contendono il controllo geopolitico della “culla della civiltà” agli Stati Uniti ed ai suoi alleati, ovvero Israele e l’Arabia Saudita fondamentalista, che appoggiano il terrorismo tagliagole salafita.
Bisogna che qualcuno chieda alla Giorgia nazionale cosa può tenere insieme l’individualismo thatcheriano – la cosiddetta lady di ferro era convinta che esistono solo gli individui e non le comunità – con la sua appassionata difesa del senso di appartenenza identitario sia pure declinato in senso conservatore. Cosa può accomunare la conservazione politica del patrimonio spirituale e storico di una nazione, ovvero ciò che la Meloni chiama conservatorismo nazionale, che necessita di continuità tradizionale e che viene meno laddove la pianta venisse sradicata, alla sfrenatezza liberista dei mercati concorrenziali, all’edonismo reaganiano? Un conservatore nazionale non può accettare l’individualismo mercantile e dovrebbe essere piuttosto propenso ad una politica sociale che nella redistribuzione del prodotto nazionale impedisca lo scontro sociale distruttivo dell’identità spirituale di una nazione. La Meloni crede che il reaganismo sia stato un sorta di sovranismo ante litteram ma si sbaglia. Perché – a parte l’ovvia considerazione che se mai lo fosse stato lo sarebbe stato pro domo sua ovvero nel senso oggi trumpiano del “prima l’America” – in realtà il reaganismo, con la sua fallimentare piattaforma economica monetarista suggerita a Reagan da Milton Friedman, ha dato la stura alla finanziarizzazione dell’economia ed alla globalizzazione, anche se si è poi dovuto attendere il crollo dell’Urss perché il processo assumesse una veste pienamente mondiale.
« … uno dei padri nobili della “destra sociale” italiana, Giano Accame, – è stato puntualmente osservato –  …  sarebbe … perpless(o) di fronte alle coordinate liberiste che hanno innervato la politica economica di Ronald Reagan, e che la Meloni sembra aver fatto proprie. La stessa leader di Fratelli d’Italia, del resto, nel suo intervento ha ribadito di puntare su “libertà d’impresa, riduzione delle tasse e della burocrazia, investimenti pubblici in infrastrutture, difesa degli interessi nazionali: è la ricetta con la quale anche il Presidente Trump oggi sta facendo volare l’economia americana ed è quella che vogliamo portare in Italia e in Europa come alternativa alla cieca austerità. Benissimo, ma l’austerità è proprio una di quelle ricette ultra-liberiste che tanto piacciono all’Unione europea e che sarebbero piaciute anche a Reagan e alla Thatcher, se negli anni Ottanta vi fosse stata una recessione economica. Insomma, non si possono tenere insieme il diavolo e l’acqua santa. (…). Per essere ancora più chiari, se i concetti di sovranismo e conservatorismo hanno evidenti punti di contatto, non sono però affatto sovrapponibili. Lo stesso dicasi per il liberalismo, che impregna buona parte dell’ideologia nazional-conservatrice. Il liberalismo è individualista, mentre un corretto sovranismo dovrebbe essere comunitario. Il liberalismo concepisce la società come un aggregato di atomi “desideranti”, laddove il sovranismo concepisce la nazione come una comunità di destino. Il liberalismo si fonda sugli animal spirits e la “ricerca della felicità”, il sovranismo dovrebbe invece basarsi su solidarietà e mutua assistenza. La lista potrebbe continuare, ma l’antifona sembra chiara. (…) la Meloni intende aggregarsi al pensiero liberal-conservatore di matrice anglosassone o mira, invece, a portare il sovranismo Oltre Atlantico? Nella risposta a questa domanda, sta molto del destino del sovranismo italiano» (7).
QUALI I CONTENUTI DI UNA POLITICA SOVRANISTA?
Questa adozione del conservatorismo liberista alla Reagan ed alla Thatcher, in evidente contraddizione con la polemica contro l’austerità liberista egemone nell’Unione Europea ordoliberale, ci costringe a guardar bene in faccia anche le proposte di politica economica del partito della Meloni per verificarne la coerenza con quell’organicismo comunitario che il citato Giano Accame, inascoltato già ai tempi di Alleanza nazionale e del quale la Meloni dovrebbe leggere attentamente qualche libro, rivendicava per una piattaforma economica di “destra sociale”.
Nel discorso romano della Meloni infatti non è dato rinvenire alcun cenno ad una politica sociale in senso organicista e quindi partecipativa e redistributiva. Il cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia sembra, al momento, soltanto la riduzione del peso fiscale, che è un modo tutto liberale di sostegno della domanda. Un modo, tuttavia, in genere fallimentare perché cose come la flat tax portano maggiori vantaggi ai più ricchi che, però, sono proprio quelli con una minore propensione alla spesa. Ridurre le tasse ai ceti medio-bassi è invece quel che bisognerebbe fare sia perché giusto sia perché economicamente è più efficace, se però contestualmente si mantiene il livello del prelievo fiscale sui più ricchi proporzionalmente al loro reddito. Infatti, come spiegano gli economisti e dicono le statistiche, sussiste una abissale differenza tra i ceti popolari e quelli al vertice della piramide sociale in quanto a propensione alla spesa. Questa, per evidenti necessità di vita, è più alta tra i primi e del tutto marginale tra i secondi. I ceti abbienti piuttosto tendono ad accumulare improduttivamente e magari ad usare la maggior liquidità, che una riduzione del peso fiscale renderebbe loro disponibile, in rischiose operazioni speculative. Abbassare le tasse ai ricchi non produce alcun effetto espansivo della domanda mentre questo effetto sarebbe ottenuto se il peso fiscale fosse ridotto soltanto ai meno abbienti.
Anche in merito al problema della alla denazionalizzazione della ricchezza, con la conseguente sottrazione al fisco delle risorse introitate dalle multinazionali, nulla è trapelato nel discorso della Meloni. E’ noto che le multinazionali, approfittando dell’occasione offerta dalla globalizzazione, pongono la propria sede legale nei “paradisi fiscale” – nell’Unione Europea, ad esempio, il Lussemburgo, il quale in tal modo fa dumping commerciale agli altri partner europei – sottraendo agli Stati ingenti introiti fiscali. Onde sopperire al mancato introito causato da queste fughe fiscali, il fisco nazionale è poi costretto ad accanirsi sui lavoratori ed i piccoli imprenditori residenti. E’ un effetto della globalizzazione dei capitali, liberi di circolare come e dove vogliono. Il capitale, ormai finanziarizzato, quindi volatile piuttosto che patrimonializzato e territorialmente immobilizzato, agisce oggi globalmente mentre gli Stati restano, per forza di cose, localizzati. Qual è dunque la posizione del “nazional-conservatorismo” su una così fondamentale questione che, attenzione!, coinvolge direttamente la sovranità nazionale? La Meloni non lo ha spiegato. Non ci è dato di sapere, ad esempio, se la Meloni è favorevole alla tassazione in base al luogo dove si produce, piuttosto che in base al luogo di fissazione della sede legale, e se, quando ella parla di accordi confederali inter-statuali da opporre al super-Stato europeo, intende lavorare per giungere alla definizione di un quadro di regole condivise internazionalmente che, imponendo il principio per il quale le tasse si pagano dove si produce, riconducano anche le multinazionali sotto l’imperio della stessa legge fiscale valida per tutti e reprima la tentazione degli Stati verso la pratica del dumping fiscale.
A parte dunque la, ingiusta e poco efficace, flat tax non sembra proprio che nel programma del partito della Meloni facciano capolino strumenti di politica fiscale intesi ad aumentare l’occupazione mediante, ad esempio, un sistema di premi per le aziende che investono per aumentare la produzione. Mentre il reddito del capitale azionario non può essere sottratto ad un giusto livello di tassazione, è certamente buono detassare gli utili reinvestiti, dalle imprese, non solo nella ricerca e nell’acquisizione di tecnologia ma soprattutto nella misura in cui le aziende contribuiscono a ridurre la disoccupazione, premiando, a consuntivo, con una proporzionale decurtazione fiscale ogni assunzione stabile a tempo indeterminato di personale. Si noti: a consuntivo, ossia prima assumi e poi sarai premiato con la riduzione del peso fiscale. Dal silenzio della Meloni, su temi come questi, non ci è dato sapere, ad esempio, se è favorevole, una volta dimostrato che l’azienda ha prodotto nuova occupazione, a detassare gli utili reinvestiti da Mediaset ma non le entrate personali del suo alleato Silvio Berlusconi.
La nostra Giorgia nazionale va fiera del suo ottimo rapporto con Victor Orban, il premier sovranista ungherese, il quale sostiene di aver fatto del suo Paese una democrazia nazionale e cristiana. Non sappiamo quanto però corrisponda a questo modello sovranista la politica economica praticata dal governo ungherese tutta volta al lato dell’offerta, del capitale. Nei mesi scorsi i suoi stessi elettori sono scesi in piazza allorché Orban ha fatto varare un provvedimento per autorizzare le imprese a chiedere unilateralmente ed ottenere prestazioni di lavoro straordinario in misura molto superiore agli attuali limiti e, contestualmente, per consentire alle stesse di pagare queste prestazioni con tariffe agevolate e con una tempistica che può arrivare addirittura ad un posticipo di tre anni, ossia con moneta svalutata. Le multinazionali tedesche, installatesi nel Paese, premono sul governo “sovranista” di Orban per un aumento di produttività onde far fronte alla concorrenza cinese e quindi chiedono un aumento delle ore lavorative a salario quasi invariato. Sembra che l’unica alternativa a questi provvedimenti sarebbe stata quella di permettere una selezionata immigrazione di lavoratori stranieri dato che in Ungheria – ed è questo, certo, un merito di Orban – si viaggia intorno alla piena occupazione. Ma aprire le frontiere, sia pure alla sola manodopera straniera qualificata, sarebbe stato per Orban un cedimento alle contestazioni, in tema di immigrazione, dei suoi critici globalisti. Quindi il premier ungherese ha preferito cedere alle pressioni del capitale multinazionale, anche nel timore di possibili delocalizzazioni.
Qui tocchiamo un punto nevralgico, al di là degli slogan tipo “prima gli italiani” buoni solo per la piazza. Quale deve essere l’effettivo atteggiamento di un governo sovranista di fronte al predominio del capitale apolide e multinazionale che è la forma ormai tipica del capitalismo terminale? Una coerente politica sovranista dovrebbe mirare a favorire la formazione o la sopravvivenza di un capitale nazionale, territorializzato, allo scopo di combattere la dipendenza da quello estero o apolide delle multinazionali, le quali investono in un Paese solo se sono accolte le loro condizioni capestro ovvero bassi salari, pochissime o nessuna tutela legale e sindacale dei lavoratori, bassa pressione fiscale et similia. Una politica intesa a proteggere o rinforzare il capitale nazionale, il quale anche se privato è in qualche modo il patrimonio comune di un popolo, avrebbe bisogno di un contesto storico ed internazionale adeguato che, nelle attuali circostanze, non c’è. Quindi, ecco il fatto!, i sovranisti al governo, è il caso sopra visto di Orban, finiscono per elemosinare benevolenza dal capitale multinazionale a danno del lavoro nazionale. Sotto questo profilo rischiano di non differenziarsi dai globalisti i quali se non altro non avanzano pretese di indipendenza economica e si dichiarano apertamente al servizio del potere economico delle multinazionali.
Se è questo il tipo di politica economica che la Meloni intende applicare anche in Italia sappia che non andrà molto lontano. E’ bene che scelga, al più presto, consiglieri economici i quali, a differenza di quelli di matrice liberal-nazionale che ha attualmente, la dissuadano, ad esempio, dal perorare il pareggio di bilancio o dal rivendicare il limite al 3% di deficit secondo la prospettiva eurocratica di Maastricht. Perché l’Italia, casomai, per far ripartire la sua economia, ha sovranamente bisogno di liberarsi da qualsiasi limite in ordine alla spesa pubblica di investimento e di porre, se proprio necessario, un limite del 3%, o meglio ancora del 5%, alla sola spesa corrente.
Una politica sovranista, intesa a mettere le briglie alla prepotenza del capitale multinazionale, prenderebbe inoltre in considerazione la necessità di, finalmente, promulgare una legge sindacale in applicazione dell’articolo 39 della vigente Costituzione. Soprattutto ora che persino la Cgil auspica una legislazione in tal senso onde costringere il capitale multinazionale quantomeno a sedersi al tavolo delle trattative contrattuali e a non approfittare, in modo ricattatorio, della sua dimensione transnazionale che lo rende capace di svincolarsi da legami territoriali e nazionali (8). Emblematico di questo strapotere del capitale multinazionale è stato il gesto, qualche anno fa, di Marchionne, l’amministratore delegato della FCA, la ex Fiat globalizzatasi, che decise di far uscire le aziende operanti in Italia della sua impresa multinazionale dalla nostra Confindustria e di non riconoscere più alcun diritto alle Confederazione Sindacali Nazionali di intraprendere trattative con la sua organizzazione industriale, il cui centro ormai gravitava negli Stati Uniti dove le trattative sindacali si svolgono solo all’interno delle singole aziende, con evidente prevalenza dei desiderata del capitale, e dove il contratto aziendale prevale su quello nazionale che in America è del tutto pleonastico. Marchionne voleva, anche in polemica con la nostra Confindustria, importare in Italia il modello americano di relazioni sindacali che è un modello connotato da una cultura individualista e liberista la quale concepisce i rapporti tra impresa e lavoro come meramente utilitari, senza alcun coinvolgimento di tipo organico o comunitario. In questo, va riconosciuto, il modello renano, tedesco, di tipo cogestionario, è certamente più europeo ed è quello che una politica sovranista degna di tal nome dovrebbe perseguire allo scopo di porre limiti allo strapotere delle multinazionali anziché, come fa Orban in Ungheria, cedere ad esse a danno dei lavoratori. Giorgia Meloni, che è erede di una famiglia politica che della “cogestione” ha fatto il suo vessillo sociale e nazionale, dovrebbe porsi, in proposito, le opportune domande quando si vanta, con eccessivo entusiasmo, della sua amicizia con Viktor Orban.
DAL LATO DELL’OFFERTA O DELLA DOMANDA?
Alla radice della crisi economica iniziata nel 2008 ci sono le politiche neoliberiste, inaugurate quarant’anni fa dalla Thatcher e da Reagan, le quali, per dirla in termini macroeconomici, hanno favorito l’offerta a discapito della domanda, ossia il capitale a danno del lavoro. Queste politiche, riacutizzando il divario sociale e riportando le disuguaglianze a livelli pre-welfaristi, hanno depresso la domanda interna spingendo l’economia nel baratro della deflazione. L’egoismo accumulatore, agevolato dalle liberalizzazioni, ha posto le basi epocali della crisi economica. Non è però soltanto una questione economica, perché permettere l’accumulazione della ricchezza, che poi diventa capitale improduttivo, anziché favorire la sua circolazione e redistribuzione è contrario all’etica sociale cattolica alla quale, ci sembra, la Meloni, commemorando Giovanni Paolo II, voglia ancorare il suo nazional-conservatorismo sulla scia, per l’appunto, “demo-nazional-cristiano” di Orban.
Vogliamo dare un consiglio alla Giorgia nazionale, perché in fondo ci è simpatica e la vorremmo più attenta nelle sue scelte politiche. Il conservatorismo storicamente ha avuto due declinazioni, quella liberale, e liberista, e quella nazionale. Orbene, fino agli anni ’30 del secolo scorso il nazional-conservatorismo, privo di una propria dottrina economica adeguata ai tempi moderni, è andato a rimorchio del conservatorismo liberista, accettando come programma una politica economica di tipo “offertista”, che, in altri termini, guarda dal lato dell’offerta, del capitale, e mai dal lato della domanda, del lavoro. Tuttavia, proprio a partire dagli anni ’30 del XX secolo, la rivoluzione keynesiana ha demolito l’economia ortodossa, classica, neoclassica e marginalista, riscoprendo il ruolo fondamentale, anzi il primato, della domanda. Laddove la domanda recede, come accade puntualmente in presenza di politiche “offertiste” di bassi salari o di precarizzazione del lavoro, la produzione resta invenduta. Le crisi da sovraproduzione, come sono definite dalla teoria classica, per la quale è l’eccessiva capacità produttiva che innesca la crisi, lette nel verso giusto sono in realtà crisi da crollo della domanda. Perché non appena quest’ultima trova modo di recuperare terreno, attraverso gli investimenti pubblici onde riassorbire disoccupazione o attraverso aumenti dei livelli salariali e delle tutele dei lavoratori, immediatamente la presunta sovraproduzione scompare e si torna all’equilibrio tra offerta e domanda. Un equilibrio però che il mercato non è capace di ritrovare e conservare spontaneamente sicché laddove fallisce la mano invisibile deve immediatamente intervenire, e poi non lasciare la presa, la mano visibile dello Stato.
Il quesito che allora poniamo a chi si vuole nazional-conservatore è il seguente: come può un conservatore nazionale non aderire senza riserve alla prospettiva keynesiana che è una prospettiva, insieme, sovranista e conservatrice, benché Keynes sia stato indebitamente monopolizzato dalla sinistra laburista o socialdemocratica? Sappia la nostra Giorgia nazionale che Keynes si riteneva un conservatore. Lo afferma a chiare lettere nel libro VI del capitolo 24 della sua “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936). Non è stato un caso, infatti, se nel dopoguerra, tanto in America che in Inghilterra, i partiti conservatori fecero delle politiche keynesiane la propria base programmatica. Anche oggi un tories, della corrente “uninazionale” che è come dire “nazional-conservatrice”, quale è Boris Johnson non segue certo le ricette della Thatcher ma un insieme di politiche di ispirazione keynesiana, dagli investimenti pubblici all’aumento del salario minimo. La Brexit, ossia il sottrarsi dal “vincolo esterno”, è stata funzionale a questo tipo di politica economica, tanto che lo stesso laburista Jeremy Corbyn si è trovato preso in contropiede avendo egli ben chiaro che il ritorno alla piena sovranità nazionale avrebbe favorito una politica economica interventista ma dovendo al tempo stesso fare i conti con la base “globalista” del suo partito, perdendo, per le sue indecisioni, le elezioni. Johnson Boris viene criticato dalle componenti liberiste del suo partito per le scelte di politica economica che, consentendo, quale effetto della ritrovata sovranità di bilancio statale, ai salari di crescere a detrimento del profitto capitalista, metterebbero a rischio l’accumulazione capitalista. In realtà non c’è crescita, neanche del capitale, senza aumenti del reddito da lavoro.
Keynes, che pubblicò la sua opera principale nel 1936, fu tuttavia anticipato, lui scettico di matrice russelliana, da uno dei più grandi Pontefici del XX secolo ossia Pio XI. Infatti Papa Ratti nella fondamentale enciclica “Quadragesimo Anno”, del 1931, con approccio teologico al problema, ha rivendicato se non il primato quanto meno la parificazione del lavoro al capitale ovvero, in termini macroeconomici, della domanda aggregata all’offerta: «Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a sé stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano, ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurre. Giacché andavano dicendo che per una legge economica … ineluttabile, tutta la somma del capitale apparteneva ai ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè a un tenore di vita precario e meschino. (…) non si può negare che gli istituti economico-sociali avevano mostrato di piegare verso quei principi ( … dei liberali, che volgarmente si denominano di Manchester …) con vero e constante sforzo» (Quadragesimo Anno, n. 55).
La “legge economica ineluttabile” che Pio XI criticava era quella formulata, nel 1803, da  Jean-Baptiste Say. Essa costituì per un secolo la base teorica dell’economia classica. Secondo tale paradigma l’offerta crea la domanda ossia la produzione trova sempre necessariamente uno sbocco di mercato dato che i produttori mirano a vendere i loro prodotti e con il ricavato monetario della vendita ad acquistarne altri. Keynes smontò detta legge dimostrando che, al contrario, il detentore di moneta tende piuttosto a tesaurizzarla, soprattutto in tempi di crisi, invece che ad investirla o spenderla in consumi e questo provoca insufficienza della domanda aggregata e quindi recessione. L’assunto di Keynes si dimostra ancor più vero se, alla luce della critica morale di Pio XI, l’insufficienza della domanda aggregata è determinata, più che dalla sola tesaurizzazione monetaria, dall’insufficienza di potere d’acquisto per via dei bassi salari o della disoccupazione. Sicché solo lo Stato – lo Stato nazionale al quale si presume guardano i sovranisti ed i nazional-conservatori nella loro rivendicazione di indipendenza dai vincoli esterni – è in grado di sostenere la domanda aggregata, sia attraverso la spesa pubblica di investimento sia attraverso la mediazione concertativa tra le parti sociali per la fissazione di equi livelli salariali o per la redistribuzione in favore del lavoro di parte degli utili della produttività, e quindi – qui sta il “conservatorismo” di Keynes – conservare gli aspetti positivi del capitalismo “socializzandolo” ossia trasformandolo in un sistema nazionale di economia sociale.
La Meloni dovrebbe sapere, per via delle sue radici politiche, che quel tentativo di dotare lo Stato di poteri di intervento e di direzione dell’economia che fu il corporativismo negli anni ’30 – un tentativo, siamo d’accordo, solo in parte riuscito e per molti altri aspetti maldestro, imperfetto, disequilibrato dalla parte del capitale, aggiustato al potere del dittatore piuttosto che all’effettivo bene nazionale: ma non è questo ora il punto – fu un inedito esperimento dal quale bisognerebbe trarre spunti di principio ed idee che, opportunamente, adeguate al diverso contesto storico, possano essere di aiuto nella lotta contro la übris globalista del capitale. Il problema dello strapotere del capitale, ed in particolare di quello finanziario, del resto è vivo oggi come allora. Vi e una menzione non negativa del corporativismo italiano da parte di Keynes. L’economista inglese, in un discorso radiofonico del 14 marzo 1932, avente ad oggetto “La pianificazione statale”, considerò il corporativismo italiano tra gli esperimenti con l’obiettivo di risolvere i problemi economici di quel momento, i quali, come detto, sono per molti aspetti simili a quelli attuali sia in ordine alla crisi da crollo della domanda interna sia in ordine alla necessità di porre limiti al capitale multinazionale (9).
NULLA E’ DUNQUE CAMBIATO
Non è possibile chiudere questo contributo senza una nota allo sperticato elogio meloniano dello Stato di Israele. La Meloni sembra essersi del tutto allineata alla vulgata dell’“unica democrazia del medio-oriente” che tanto piace a Trump. In realtà quella israeliana è una democrazia molto difettosa per quanto riguarda il grado di parità dei diritti civili tra i cittadini ebrei ed i cittadini arabi, trattati, questi ultimi, quasi come ospiti, appena tollerati, da uno Stato che – forse è questo che piace ai sovranisti pro Israele – collega la cittadinanza allo jus sanguinis e mai ammetterebbe lo jus soli. Eppure la stessa Meloni in occasione dell’assassinio del generale Soleimani aveva mantenuto, rispetto a Salvini, un atteggiamento prudente senza appoggiare apertamente l’omicidio orchestrato da Trump. Non solo, qualche anno fa, ella si fece molto apprezzare per il coraggio dimostrato ricordando a tanti occidentali che la vita e la libertà dei cristiani medio-orientali sono difese, in quelle terre, da organizzazioni che l’Occidente si ostina a definire “terroristiche” come Hamas. Sembrano ormai alle spalle, forse per il timore di restare irretita in qualcosa di simile dell’orchestrata operazione giudiziario-mediatica dei presunti fondi russi a Salvini, i tempi nei quali la Meloni si mostrava attenta verso la Russia di Putin piuttosto che verso l’America di Trump. Ora, invece, ha sposato la logica huntigtoniana dello scontro di civiltà. Israele, secondo questa logica, è la testa di ponte dell’Occidente a trazione americana e pertanto va sempre sostenuto nelle sua politica estera anche quando calpesta il diritto altrui.
Ho sulle mie spalle abbastanza anni per ricordare i fatti di Sigonella e l’orgogliosa difesa che Bettino Craxi, nel nome del “socialista tricolore” (10), fece della nostra sovranità nazionale contro l’arroganza di Ronald Reagan che, come fosse padrone in casa nostra, pretendeva di gestire da Washington la resa dei dirottatori dell’aereo atterrato sul suolo italiano. Ne scaturì un acceso dibattito parlamentare, attualmente visionabile su youtube, durante il quale contro un Craxi che, pur riconoscendo il diritto di Israele ad esistere nei limiti, da esso non rispettati, del mandato Onu, aveva preso le difese delle ragioni dei palestinesi – egli non esitò a definirli un popolo in lotta per la liberazione della propria patria – si scagliarono, schiuma alla bocca, proprio i deputati del Msi, molti dei quali avevano combattuto in armi contro gli americani. Anche allora la destra identitaria entrava in cortocircuito perché allineava e subordinava il preteso sovranismo ai voleri degli Stati Uniti. Fu quella una delle tante occasioni nelle quali il tradimento politico consumato ai danni della base militante anti-americana di quel partito si rese palese convincendo molti a lasciare quelle sponde per ben altri e migliori lidi culturali e spirituali. Le radici, anziché essere tolkienanamente profonde e non gelate, erano evidentemente già marcite sicché pochi dei transfughi restarono sorpresi, qualche anno più tardi, del successivo rocambolesco capovolgimento di fronte, in senso liberal-conservatore, di Gianfranco Fini a Fiuggi. Sembra, a distanza di quindici anni, che nulla sia cambiato dai tempi dello sdoganamento berlusconiano del Msi in An. La Meloni va ripetendo gli stessi tragici errori di Gianfranco Fini.
Luigi Copertino

NOTE
  1. Una riformulazione – sia qui detto en passant – che non sembra così facile riproporre nel contesto post-moderno caratterizzato dalla trasformazione digitale che esalta l’ipertrofia egoica all’interno di una globalità reticolare nella quale ciascuno è ad un tempo isolato ed in costante connessione anonima con il mondo. Il problema che l’umanità dovrà a breve affrontare è l’eliminazione del lavoro dall’orizzonte sociale. La rivoluzione digitale e robotica ha questo di differente dalle precedenti rivoluzioni tecnologiche ossia che mentre in passato le innovazioni si imponevano solo in un settore per volta, sicché i lavoratori espulsi da un settore, perché resi obsoleti dalle innovazioni tecniche, potevano trovare occupazione in altri settori o adattandosi a nuove mansioni nello stesso settore innovato – con la Rivoluzione industriale i contadini e gli artigiani divennero operai, con la locomotiva i vetturini che conducevano carrozze a cavalli diventarono macchinisti di treni – , attualmente l’innovazione cibernetica colpisce contemporaneamente tutti i settori togliendo agli espulsi dal ciclo produttivo qualsiasi possibilità di riconversione in altri settori. Ma proprio questo pone un gigantesco problema di futuro crollo generalizzato della domanda e, quindi, in prospettiva di fine del capitalismo come finora conosciuto. L’esito più probabile sarà quello di un mondo gerarchizzato nel quale ad un piccolo numero che avrà il più totale potere economico, dominando la produzione automatizzata ed i meccanismi finanziari che la alimenteranno, corrisponderà la sterminata massa di uomini “liberati dal lavoro” e mantenuti da un, magari sostanzioso, reddito di cittadinanza universale onde permettere lo sbocco di mercato alla produzione automatizzata e mantenere i privilegi dell’élite mondiale. L’utopia della liberazione dal lavoro si trasformerà così in una schiavitù globale nel perfetto totalitarismo orwelliano.
  2. Luigi Copertino “Spaghetticons – la deriva neoconservatrice della destra cattolica italiana”, Il Cerchio, Rimini, 2008.
  3. Nelle “Riflessioni” Burke annota che dietro i “chierici” rivoluzionari, ossia i philosophes illuministi, si celavano le ancor più sinistre figure degli “speculatori” che egli vedeva all’opera nella secolarizzazione dei beni ecclesiastici presi a garanzia per gli assegnati. In questo colpendo nel segno, Burke denunciò la Rivoluzione non solo come l’opera delle folli filosofie costruttiviste dei Diderot, dei Voltaire e dei Rousseau, ma anche come “cospirazione finanziaria” dei creditori dello Stato volti ad impossessarsi dei beni della Chiesa. Burke denunciò l’intesa tra i gruppi rivoluzionari, cresciuti all’ombra dei “Lumi” e delle logge massoniche, e la lobby finanziaria che aveva indebitato tutti gli Stati europei. Non si pensi però ad un atteggiamento di Burke contrario alla massoneria in generale. La nota setta, infatti, aveva visto la luce, per mediazione rosacruciana, agli inizi del XVII secolo proprio in Inghilterra e nessun esponente colto della Chiesa anglicana e della politica inglese poteva esimersi dall’appartenenza o comunque dalla vicinanza ad un qualche loggia massonica. Burke, così come più tardi Joseph De Maistre, si limitava ad accusare la massoneria naturalistica, ateistica, ossia quella francese o quella degli Illuminati di Baviera, che egli riteneva un gruppo scismatico della massoneria, non pertanto la massoneria esoterica, occultista, spiritualista. Tuttavia partendo dalle sue posizioni anglicano-conservatrici la sua denuncia dell’operato dei grandi creditori bancari della Corona francese che agivano dietro i rivoluzionari per conquistare lo Stato, non poteva che essere condizionata dal precedente storico inglese. Costoro, i creditori della Corona francese, erano l’equivalente continentale della lobby finanziaria che durante il regno di Guglielmo III, fondando la Banca d’Inghilterra, aveva creato il debito pubblico, ossia indebitato tutti i sudditi, al posto dell’antico debito della sola Corona britannica. Burke, dunque, fece propria la critica dei tories alla politica liberale dei whigs, prona ai poteri finanziari, ma entra in contraddizione con la sua convinzione per la quale la Gloriosa Rivoluzione del 1688 sarebbe stata l’apoteosi della tradizione giusnaturalistica cristiana. Proprio il retroscena finanziario comune alle due Rivoluzioni, l’Inglese e la Francese, gli avrebbe dovuto suggerire l’insostenibilità della sua distinzione tra la “rivoluzione buona” e la “rivoluzione cattiva” e convincerlo che si trattava di due diverse forme dello stesso processo di scristianizzazione. La lettura che viene data da Burke di queste vicende finanziarie, pur cogliendo sicure evidenza storiche, segue tuttavia, né poteva non seguire date le ancora limitate cognizioni della scienza economica del tempo, una concezione monetaria “quantitativista” che attribuiva all’invenzione, all’epoca relativamente recente, della carta moneta, in luogo dell’oro, gravi responsabilità inflattive. Le quali sembravano confermate dal fallimento, in quegli anni, dell’esperimento rivoluzionario degli assegnati (le cui cause in realtà avevano ragioni più profonde del presunto eccesso di banconote in circolazione, dovendosi individuare innanzitutto nella sfiducia riposta da parte della popolazione nel governo rivoluzionario e nell’eccedenza della domanda sull’offerta, con consequenziale aumento dei prezzi, provocata dalla corsa a disfarsi degli assegnati per sostituirli con beni concreti resi sempre più scarsi dagli stessi eventi rivoluzionari e dalle guerre in corso). Va segnalato che questa posizione anti-finanziaria della cultura conservatrice anglosassone resterà viva nel mondo di lingua inglese trovando la sua vitale continuazione, a partire dal Jefferson, nelle correnti populiste e ruraliste dell’Ottocento americano tanto democratiche che conservatrici. Da questo humus prese le mosse anche la riflessione di un Ezra Pound che, tuttavia, si sarebbe poi caratterizzata per ben più ampie aperture culturali in una sorta di ritorno al vero e miglior spirito europeo.
  4. Come la persona concreta non è l’individuo astratto, l’organico non è il meccanico e la comunità politica non è il contratto sociale, così, analogamente, l’idea della parità spirituale ed ontologica degli uomini non è l’egalitarismo. Una antica polemica anti-cristiana risalente a Nietzsche, che di tanto in tanto è rinfocolata dagli stanchi e ripetitivi epigoni del filosofo tedesco, è quella per la quale il Cristianesimo – “religione degli schiavi” (già questo è un falso storico, dato che il Cristianesimo si diffuse soprattutto tra le classi urbane, alte e colte dell’impero romano) – sarebbe il portatore di una visione egalitaria e quindi uniformante e distruttiva, dalla quale deriverebbero, per una presunta diretta continuità, l’egalitarismo politico ed economico, liberale e socialista, della modernità, in connessione con individualismo e universalismo. La polemica, infondata, va a cozzare contro la realtà storica e spirituale. Nella concezione cristiana la fratellanza umana presuppone una radicale diversità tra i figli dello stesso Padre, pur nella identità dell’unica natura umana. La diversità trova il suo fondamento ultimo proprio nella comunanza dell’origine che consente di considerare i diversi pari tra loro senza che questo infici il “differenzialismo orizzontale” reso possibile dall’agire dell’“Unità verticale”, ossia dello Spirito. L’unicità di natura non nega la diversità delle sue possibili e infinite articolazioni immanenti proprio perché sussiste sul piano spirituale e trascendente il comune Padre. Del resto anche nell’ambito antropologico della famiglia naturale, i figli dello stesso padre sono diversi e su questa diversità si fonda, data la comune origine, la parità orizzontalmente differenziata degli stessi. Solo laddove si perde di vista l’Origine verticale, il comune Padre, l’unicità di natura non è più suscettibile di essere materia in-formata per l’articolazione nell’immanente dell’Unità trascendente e si trasforma in un concetto astratto, che oscilla tra idealismo e materialismo, dando origine all’idea di “umanità”, sulla quale si basa la filosofia umanitaria, intesa come collettivo egalitario, formato da individui uniti da legami contrattuali. Un collettivo umano globale e senza differenziazioni identitarie, forgiate dallo Spirito, dalla cultura e dalla storia. Qui, infatti, non è più questione di “universalismo” perché le differenziazioni nazionali, sul piano naturale, sono radicalmente negate laddove, al contrario, l’Universalità – la “cattolicità” – quelle differenziazioni non solo riconosce ma richiede, pretende, perché senza di esse, articolazioni partecipi dello Spirito trascendente, non ci sarebbe neanche l’Universalità, non ci sarebbe alcun Kosmos ordinato. L’assunto è valido non solo in relazione alle differenze orizzontali ma anche, e forse a maggior ragione, per le differenze verticali, comprese quelle sociologiche. Se, da un lato, la struttura a fondazione sacerdotale della Chiesa è gerarchica proprio in virtù di una gerarchizzazione dei tre “carismi” di Cristo, Sacerdozio, Regalità, Profezia, e per questo la Chiesa stessa non può avere struttura assembleare ed egalitaria, dall’altro lato la Rivelazione cristiana non ha mai, eterodossie e millenarismi settari a parte, negato legittimità alle stesse differenze di status socioeconomico in quanto derivanti dalle differenze attitudinali contemplate dalla natura, come ordinata da Dio: «togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, …, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio … perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato» (Leone XIII, Rerum Novarum, parte II, A, n. 1). Per questo è dalla trasformazione interiore del cuore umano, nel fuoco spirituale della Carità (nel senso mistico della parola), che la fede cristiana si aspetta la trasformazione esteriore delle stesse relazioni sociali. Nei secoli la Chiesa, esperta di realismo antropologico e storico, ha sempre spinto i forti ad abbassarsi sui deboli, i più fortunati sugli sfortunati, in modo da consentire un riavvicinamento tra gli uomini senza meccaniche forzature e senza astratti egalitarismi che, in genere, si risolvono in peggiori dispotismi. Benché questa via possa sembrare, in un approccio antropologico radicalmente pessimista o in quello del furore rivoluzionario, un peloso buonismo o un mero insufficiente palliativo, a dimostrarne la possibilità, ed anche l’“efficacia”, sta lungo i secoli cristiani la straordinaria storia della santità e della carità che si dipana non tanto in trattati teoretici quanto nella vita stessa di quegli uomini e quelle donne, denominati “santi”, resisi disponibili alla trasformazione in interiore. Questo naturalmente non significa che non sia possibile praticare cristianamente anche la via politica. Sotto questo profilo la politica cristiana, di contro ai vari liberismi individualistici ed ai vari egalitarismi contrattualistici, è sempre stata fondata su una concezione organica della Comunità politica che, lungo i secoli, ha affinato, a secondo delle circostanze storiche, i suoi strumenti. Sulla concezione cattolica del Politico si veda Heinrich Rommen “Lo Stato nel pensiero cattolico”, Milano, Giuffrè, 1964.
  5. “La sovranità del popolo omogeneo: i populismi in Europa. Intervista a Jean-Yves Camus” in Diorama Letterario Novembre-Dicembre 2018 n. 346, pp.28 e 32.
  6. “La sovranità del popolo omogeneo …” op. cit., p. 32.
  7. Valerio Benedetti “Giorgia Meloni sposa il conservatorismo Usa. Questo matrimonio s’ha da fare?” in Il Primato Nazionale, reperibile sul web.
  8. AA.VV. “L’attuazione degli articolo 39 e 46 della Costituzione – tre proposte a confronto” in “Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale” n. 1/2016, Ediesse. Si tratta della raccolta degli atti di un convegno, svoltosi a Roma il 13 aprile 2016, per mettere a confronto tre proposte di legge sindacale, ai sensi dell’articolo 39 della Costituzione, di cui una elaborata dal Centro Studi della Cgil. L’articolo 39 della Costituzione afferma «L’organizzazione sindacale è libera./Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge./È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica./I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». I “padri costituenti”, con questo articolo, espressero la volontà di democratizzare il precedente sistema corporativo, del quale, prevedendo un organismo denominato “rappresentanza unitaria” formato, in proporzione degli iscritti, dai diversi sindacati, dello stesso settore economico, che si sarebbe confrontato con la “rappresentanza unitaria” dei sindacati datoriali di quel settore, si voleva conservare una importante conquista ossia la cosiddetta “efficacia erga omnes” dei contratti collettivi. Questi, infatti, senza tale accorgimento normativo, restano, come sono rimasti per la non attuazione di detto articolo costituzionale, meri contratti di diritto comune, ossia privato, che in linea di principio vincolano esclusivamente gli iscritti ai sindacati, datoriali e dei lavoratori, sottoscriventi. Ma non chi non è iscritto a nessun sindacato o chi lo è ad un sindacato non sottoscrittore. Negli anni immediatamente successivi al varo della vigente Costituzione diversi tentativi di approvare una legge sindacale, in applicazione del predetto articolo 39, fallirono per l’opposizione stessa dei sindacati che temevano di essere sottoposti a controlli governativi. La Cisl e La Uil, inoltre, diffidavano di un organismo di “rappresentanza unitaria” perché la Cgil, almeno in alcuni importanti settore industriali, aveva più iscritti ed avrebbe quindi egemonizzato quell’organismo. Una prospettiva, questa, che non piaceva neanche a Confindustria. Tuttavia, questo vuoto normativo, ora che i sindacati hanno perso molto della loro forza contrattuale a causa della globalizzazione del capitale, rischia di diventare un cavallo di Troia del capitalismo transnazionale insensibile all’appartenenza nazionale ed in grado di dettare unilateralmente le proprie condizioni.
  9. J.M. Keynes, “Come uscire dalla crisi”, a cura di P. Sabbatini, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 67-68.
  10. Craxi al marxismo ufficiale del suo partito aveva sostituito la linea nazionale Mazzini-Pisacane-Ferrari, di matrice proudhoniana, babeufiana e buonarrotiana, e ben prima di Berlusconi aveva sdoganato l’allora Msi conscio di certe comunanze ideali, in ordine all’eredità del patriottismo sociale, tra il suo Psi e il Msi se quest’ultimo fosse stato coerente con sé stesso.
   

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