Pubblicato su SISINONO del 31 gennaio 2020
PADRE LOUIS BOUYER
Nel 1964 padre Bouyer scriveva: «Il Canone romano risale, tale e qual è oggi, a San Gregorio Magno (†604). Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità!
Agli occhi non solo degli Ortodossi, ma anche degli Anglicani e persino dei Protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della Tradizione, gettarlo a mare [com’è stato fatto con la “Nuova Messa di Paolo VI”, ndr] equivarrebbe, da parte degli uomini della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica» (LOUIS BOUYER, Mensch und Ritus, 1964).
E’ quello che ora, purtroppo, sta facendo apertamente papa Bergoglio (in questo soltanto, “viva la faccia della sincerità” …) e che hanno iniziato a fare nascostamente Giovanni XXIII, Paolo VI (di cui ci occupiamo nel presente articolo per rapporto alla Nuova Messa montiniana), Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
MONSIGNOR KLAUS GAMBER
L’ex Vescovo di Ratisbona Monsignor Klaus Gamber, nel 1979, scriveva: «La Liturgia Romana è rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma risalente ai primi Cristiani. Essa s’identifica con il Rito più antico.
Nel corso dei secoli, molti Papi hanno contribuito alla sua configurazione: San Damaso papa (†384), per esempio, e successivamente soprattutto San Gregorio Magno (†604) […]. La Liturgia damasiano/gregoriana è quella che è stata celebrata nella Chiesa latina sino alla Riforma liturgica dei nostri giorni [30 novembre 1969, ndr]. Non è quindi esatto parlare di abolizione del “Messale di San Pio V”.
A differenza di quanto è avvenuto oggi in maniera spaventosa, i lievi cambiamenti apportati al Missale Romanum nel corso di quasi 1500 anni [sino a S. Pio V, ndr] non hanno toccato il Rito della Messa: si è bensì trattato solo di arricchimenti, per l’aggiunta di feste, di Propri di Messe e di singole preghiere […].
«Non esiste in senso stretto una “Messa Tridentina” o “di San Pio V”, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae in séguito al Concilio di Trento da San Pio V. Il Messale che San Pio V fece approntare nel 1570 fu il Messale della Curia Romana, in uso a Roma da molti secoli, risalente all’era apostolica e che i Francescani avevano già introdotto in gran parte dell’Occidente: un Messale, tuttavia, che prima di Pio V non era mai stato imposto universalmente, in modo unilaterale dal Papa e che Pio V impose alla Chiesa universale, salvo i riti che vantavano un’antichità di almeno 200 anni: rito ambrosiano, mozarabico, cartusiano, domenicano ... […].
«Sino a Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo Missae, ma solo ai “Propri” delle Messe per le singole festività. […]. Noi parliamo piuttosto di Ritus Romanus e lo contrapponiamo al Ritus Modernus. […]. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal secolo V in poi, hanno insistito è stato l’estensione di questo Canone Romano alla Chiesa universale, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro, che visse gli ultimi anni della sua vita a Roma e vi morì nel 64. […].
«Il rito Romano si può definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto che, risalenti in ultima analisi a N. S. Gesù Cristo e agli Apostoli, si sono sviluppate nei dettagli a partire da una Tradizione apostolica comune, e sono state più tardi sancite dall’Autorità ecclesiastica. […]. Un Rito che nasce da una Tradizione apostolica comune […] non può essere rifatto “ex novo” nella sua globalità. […].
«Ha il Papa il diritto di mutare un Rito che risale alla Tradizione apostolica e che si è formato nel corso dei secoli? […]. Con l’Ordo Missae del 1969 è stato creato un nuovo Rito [in rottura scismatica con la Tradizione apostolica, ndr]. L’Ordo tradizionale è stato totalmente trasformato e addirittura, alcuni anni dopo [estate del 1976, ndr], proscritto. Ci si domanda: un così radicale rifacimento è ancora nel quadro della Tradizione della Chiesa? No. […] (1).
«Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale.
Alla “plena et suprema potestas” del Papa sono chiaramente posti dei limiti […]. Più di un autore (Gaetano, Suarez) esprime l’opinione che non entri nei poteri del Papa l’abolizione del Rito tradizionale. […]. Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo. […].
«Nella Chiesa orientale e occidentale non si è mai celebrato versus populum, ma ci si è volti ad Orientem […]. Che il celebrante debba rivolgere il viso al popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero [e poi da Paolo VI, ndr]. […].
In alcune basiliche romane, l’altare era orientato versus populum, poiché l’ingresso era situato ad Oriente [Oriente dove sorge il sole, che è il simbolo di Gesù, quindi l’altare si volgeva verso l’Oriente ossia ad Dominum, ndr]. I Cristiani, dopo l’Omelia, si alzavano per la Preghiera successiva e si volgevano ad Oriente. […]. Affinché i raggi del sole sorgente ad Oriente potessero entrare all’interno delle chiese durante la Messa, nei secoli IV e V, a Roma e altrove, l’ingresso fu posto ad Oriente. Durante la preghiera le porte dovevano essere lasciate aperte e la preghiera doveva avvenire necessariamente in direzione delle porte. Il celebrante stava dietro l’altare in modo da potere, al momento del Sacrificio, volgere lo sguardo ad Oriente. Perciò la sua non era una celebrazione versus populum perché anche i fedeli, durante la Prece, si volgevano ad Oriente. […].
Inoltre i fedeli prendevano posto nelle navate laterali a destra e a sinistra dell’altare e l’altare durante la Prece Eucaristica veniva occultato da cortine. Perciò se i fedeli non guardavano l’altare non gli davano neppure le spalle, poiché erano nelle navate laterali ed avevano l’altare alla loro destra o alla loro sinistra, formando un semicerchio aperto a Oriente col celebrante» (KLAUS GAMBER, La riforma della Liturgia Romana. Cenni Storici – Problematica, [1979], tr. it., Roma, Una Voce, giugno/dicembre 1980, pp. 10, 19-20, 22, 26- 29, 30, 53-56); per fare un esempio, si veda la collocazione della Basilica di San Pietro (= Sacerdote) col Colonnato del Bernini (= fedeli), che guarda dal Colle del Vaticano verso via della Conciliazione ove sorge il sole.
In un vecchio libro sulla Messa del 1921, Fortescue, asseriva: «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) [...]. La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla più antica liturgia comune. Essa serba ancora il profumo di quella Liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la Fede cristiana: i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio (cfr. PLINIO JUNIOR, Ep. XCVI). Non vi è, in tutta la Cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. FORTESCUE, La Messe, Parigi, Lethielleux, 1921).
PADRE PATRICK FAHEY
Recentemente, padre PATRICK FAHEY dell’Augustinianum di Roma, nel Dizionario patristico e di antichità cristiane, diretto da ANGELO DI BERARDINO (Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1994, II vol., coll., 2232-2338) scrive: «Dall’età apostolica a Ippolito (2), nei primi 4 secoli del Cristianesimo, le Comunità cristiane parlavano di “frazione del pane” (I Cor., X, 6; Atti, II, 42; XX, 7; Didaché (3), XIV, 1; S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA (4), Epistola agli Efesini, XX, 2). […].
La combinazione della “Liturgia della parola” [Letture della S. Scrittura e Predica, ndr] con la “frazione del pane” [Consacrazione sacramentale del pane e del vino, ndr] apparve abbastanza presto (Atti, II, 42; XX, 7 (5)); molto probabilmente, all’inizio dell’era cristiana, l’azione eucaristica era quella del pane/calice/pasto, tuttavia la “frazione del pane” prese il primo piano quando (I Cor., XI, 20-21; 33-34 (6)) si separò l’azione eucaristica [o Consacrazione del pane e del vino, ndr] dal pasto vero e proprio o agape fraterna. […].
L’azione rituale era composta di quattro parti: 1) preparazione o offerta del pane e del vino [Offertorio, ndr]; 2) preghiera di ringraziamento [Canon Missae, ndr]; 3) frazione del pane [Consacrazione del pane e del vino, ndr]; 4) Comunione eucaristica. Fu così che il “pasto in comune o agape” assunse un altro significato (per i poveri).
Già alla fine del I secolo, il termine “Eucharistia” cominciò a designare la “frazione del pane” (S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA, Smirne, VII, 1; VIII, 1; Efesini, XIII, 1; Filippesi, IV, 1) e quest’azione fu trasferita principalmente alla Domenica mattina. Ciò condusse ad un ulteriore indebolimento dell’aspetto di pasto. […], [che fu messo in primo piano da Lutero [e sullo stesso piede del Sacrificio eucaristico dalla Nuova Messa di Paolo VI, ndr].
«La prima descrizione concreta della Liturgia eucaristica è quella di San Giustino (7), c.ca 150 (I Apol., 65-67): Letture degli Apostoli o dei Profeti; Omelia; Preghiera; Bacio di pace; Offerta del pane e del vino; Comunione; Colletta o raccolta delle offerte. La lingua liturgica è il greco. La Liturgia descritta da Ippolito (Traditio Apostolica) comprende: Offerta del pane e del vino, Canone eucaristico, Consacrazione eucaristica, distribuzione della Comunione eucaristica, con le Letture e l’Omelia. […].
«Il Canone dovrebbe aver ricevuto la sua forma definitiva durante l’epoca di S. Gregorio Magno († 604). Certamente il Gloria esisteva in latino a Roma prima del VI secolo. Il canto dell’Agnus Dei fu introdotto alla fine del VII secolo da papa Sergio I (687-701) (8)».
NOTE
1- Questo problema è analogo a quello che si pone oggi con Bergoglio, il quale con l’Esortazione Amoris laetitia (19 marzo 2016) ha autorizzato la partecipazione alla Comunione eucaristica da parte di coloro che vivono in stato di peccato mortale (divorziati risposati) e che non vogliono abbandonare questo stato; mentre con il Sinodo amazzonico (inverno 2020) si appresterebbe ad abrogare la norma di origine divino/apostolica del celibato ecclesiastico. Molti Cardinali, Vescovi e persino il Pontefice dimissionario, Benedetto XVI, gli hanno detto che non ha questo potere, dovendo lui conservare la Tradizione divino/apostolica e non cambiarla o distruggerla, come insegna pure il Concilio Vaticano I. Tuttavia sembra che egli tiri dritto e ostinatamente non solo per la Comunione ai divorziati risposati, ma anche per quanto riguarda il celibato ecclesiastico.
2 - IPPOLITO è uno Scrittore ecclesiastico, non un Padre della Chiesa, vissuto nella prima metà del III secolo. Fu Vescovo, ma non si sa di quale Diocesi, di lui ne parlano Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl.) e San Girolamo (De virib. ill.). L’opera più famosa che gli viene attribuita è il Philosophumena, ossia Syntagma o Elenco di tutte le eresie, in cui ne tratta 32 confutandole; essa ci è stata tramandata da Epifanio Vescovo di Salamina (365-403), nato in Palestina verso il 315 nel suo Panarion, in cui tratta addirittura ben 80 eresie e le confuta. Inoltre sono attribuiti a Ippolito vari Commenti ai Libri della S. Scrittura, tra cui i più attuali sono Commento all’Apocalisse e il Trattato Su Cristo e l’Anticristo. Cfr. M. SIMONETTI, Prospettive escatologiche della Cristologia di Ippolito: Bessarione I, La Cristologia nei Padri della Chiesa, Roma, 1979, pp. 85-101; A. ZANI, La Cristologia di Ippolito, Brescia, 1984; ANGELO DI BERARDINO, diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1994, 2° vol., coll. 1791-1798, voce “Ippolito” a cura di P. NAUTIN; ID., cit., 1° vol., coll. 1162-1164, voce “Epifanio di Salamina” a cura di C. RIGGI.
3 - La “DIDACHÉ” è uno scritto di un Autore anonimo, tuttavia l’opera è assai importante poiché ci permette di conoscere le abitudini religiose del popolo cristiano nel I-II secolo. Essa fu composta probabilmente tra il 130 e il 150 (cfr. A. FLICHE – V. MARTIN, Storia della Chiesa, vol. I, La Chiesa primitiva, III ed., 1958, Cinisello Balsamo, San Paolo, cap. X, I Padri apostolici, a cura di P. ORTIZ DE URBINA, p. 430).
4 - IGNAZIO, VESCOVO D’ANTIOCHIA, poco prima del 100 fu arrestato e condotto a Roma, dove si aspettava di subire il martirio. Dopo aver attraversato l’Asia Minore arrivò a Smirne, il cui Vescovo allora era San Policarpo ancora giovanissimo. Da lì scrisse una Lettera a ciascuna delle chiese di Efeso, di Tralli e di Magnesia, poi scrisse anche ai Romani annunciando il suo prossimo arrivo; indi giunse nella Troade e qui scrisse una Lettera alla chiesa di Filadelfia, una a quella di Smirne e un’altra a Policarpo Vescovo di Smirne. Queste sette Epistole sono state conservate e sono giunte sino a noi. Esse sono posteriori di circa dieci anni a quella di S. Clemente (96-98) e furono scritte mentre Ignazio viaggiava da Antiochia di Siria verso Roma ove morì attorno al 107.
5 - Gli ATTI DEGLI APOSTOLI furono scritti da San Luca attorno al 62. Al capitolo II versetto 42 San Luca scrive che i Cristiani «erano assidui alle istruzioni degli Apostoli, alle opere di carità, alla comune frazione del pane e all’orazione». Padre Marco Sales commenta: «Le occupazioni dei primi Cristiani erano essenzialmente quattro: 1°) assistevano con assiduità alle istruzioni fatte dagli Apostoli sulla vita e gli insegnamenti di Gesù; 2°) si davano alle opere di carità fraterna (“tè koinoìa”) con eguale diligenza, giacché sin da allora essi formavano una Comunità ben separata dai Giudei; 3°) perseveravano nella fractio panis, ossia nella celebrazione dell’ Eucarestia, come si legge nella versione siriaca. E’ certo che la frazione del pane indichi l’Eucarestia, la quale è chiamata così a motivo di quanto narrato sulla sua istituzione (“prese il pane, lo spezzò…”: Mt., XXVI, 26; Mc., XIV, 22; Lc., XXII, 19); 4°) erano anche assidui nelle orazioni. Si tratta di orazioni determinate e proprie della liturgia dei Cristiani, le quali essendo qui congiunte con le istruzioni o prediche degli Apostoli e con la partecipazione all’Eucarestia, è molto probabile che fossero quelle usate durante la celebrazione del Sacrificio eucaristico» (Commento agli Atti degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 30, nota n. 42; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).
Inoltre al capitolo XX versetto 7 gli Atti riportano: «Il primo giorno della settimana, essendosi adunati per spezzare il pane, Paolo parlava ad essi e allungò il discorso sino alla mezzanotte». Padre Sales chiosa: «Il primo giorno della settimana è la Domenica, che già sin dai primi tempi si consacrava in modo speciale al Signore, Risorto di Domenica (I Cor., XVI, 2; Apoc., I, 10) per spezzare il pane, ossia per celebrare la SS. Eucarestia. La celebrazione del Santo Sacrificio della Messa aveva luogo la sera, come lascia comprendere il contesto», infatti San Paolo che sta celebrando di sera inizia la predica e la protrae sino alla mezzanotte (M. SALES, Commento agli Atti degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 119, nota n. 7; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).
6 - San Paolo nella I EPISTOLA AI CORINZI (XI, 20-21; 33-34), la quale fu scritta tra il 55 e il 57 ad Efeso, rimprovera i Cristiani, affermando: «Quando vi riunite in comune per la celebrazione eucaristica, non mangiate degnamente la Cena del Signore. Infatti ognuno nel mangiare, consuma prima la propria agape, e così uno ha fame, invece un altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case ove magiare e bere? […]. Perciò, o fratelli, quando vi riunite per mangiare l’agape aspettatevi a vicenda. Se qualcuno ha fame, mangi prima a casa sua, affinché non vi riuniate a vostra condanna». Monsignor Settimio Cipriani commenta: «La “Cena del Signore” è l’Eucarestia, che viene nettamente distinta dalla “cena propria o agape fraterna”. Infatti l’Eucarestia non è una “egoistica agape o cena privata”. Se “l’agape privata” deve ridursi ad un baccanale per i ricchi, (i quali portano da casa loro ogni ben di Dio per la “agape comunitaria”, ma poi lo mangiano loro stessi e non lo spartiscono con gli altri) e ad un digiuno umiliante per i poveri, (i quali non hanno quasi nulla da portare e restano a guardare i ricchi, che mangiano lautamente ciò che hanno portato); allora ognuno mangi a “casa sua” e così non offenderà i fratelli poveri. […]. Quindi non si celebri l’Eucarestia prima che tutta la Comunità sia riunita ed ogni agape o banchetto privato, che non sia il Convivio eucaristico, sia escluso dalla riunione sacra, perciò si elimini l’agape fraterna, che servirebbe solo allo sfogo intemperante della golosità dei più ricchi ed affamati» (Le Lettere di San Paolo, Assisi, Cittadella Editrice, 1965, p. 191, nota n. 20; p. 195, nota n. 33). Padre Marco Sales chiosa così: «Ciascuno di voi, invece di mettere in comune i cibi portati per l’agape fraterna, li riserva per sé e per i suoi, e comincia a mangiare la sua agape, senza aspettare gli altri con i quali avrebbe dovuto condividerla. Allora ecco che i poveri, venuti senza abbondanti provvigioni, patiscono la fame; mentre i ricchi, invece di soccorrerli, si abbandonano alle intemperanze della golosità e si ubriacano. I fedeli, infatti, in teoria avrebbero dovuto portare da casa, ciascuno secondo le proprie possibilità, i cibi necessari per tutti e per il pasto comune e fraterno, ma, poi all’atto pratico, ciascuno pretendeva di mangiare ciò che aveva portato personalmente anche se era destinato per il pasto comune e fraterno. […]. Io - continua l’Apostolo - non posso lodarvi, poiché il modo in cui celebrate l’Eucarestia è in opposizione con la natura e la dignità di questo Sacramento. […]. Infatti, o Cristiani, ogni volta che partecipate all’Eucarestia, compite un atto, che è un memoriale vivo, della morte del Signore. […]. Essendo così severo il giudizio di Dio verso chi si comunica indegnamente, allorché voi, o Cristiani, vi radunate per magiare l’agape, “aspettatevi gli uni gli altri”, evitando l’abuso sopra accennato. Inoltre se “qualcuno si scusa dicendo di aver fame” e non vuole aspettare gli altri, allora se proprio non riesce a frenare la fame mangi prima di venire alla Messa a casa sua. Infatti l’agape non fu istituita per saziare la fame, ma soprattutto per manifestare la carità fraterna e mutua tra fedeli» (M. SALES, Commento alle Lettere degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 227-229, note n. 21-34; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).
7 - GIUSTINO è un Padre apostolico del II secolo, nacque in Palestina e passò dallo stoicismo al Cristianesimo nel 132/135. Quindi si recò a Roma dove scrisse le sue due Apologie (c.ca 148/161) indirizzate ad Antonino Pio (138/161) e poi il Dialogo con Trifone, che è la più antica apologia del Cristianesimo rimasta a noi e indirizzata contro l’errore del Giudaismo talmudico. Giustino fu martirizzato sotto il Prefetto di Roma, Rustico, tra il 163 e il 167. Egli fu il primo cristiano a servirsi della filosofia aristotelica per fare teologia, conciliando fede e ragione, filosofia e teologia. Egli organizzò la più antica raccolta di dottrine eretiche nella sua opera chiamata Syntgma (andata perduta) che confuta circa 80 eresie del suo tempo. Cfr. A. DI BERARDINO diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1994, II ed., vol. II, coll. 1628-1632, voce «Giustino filosofo e martire» a cura di R. J. DE SIMONE; E. BELLINI, Dio nel pensiero di San Giustino, La Scuola Cattolica, n. 90, 1962, pp. 387-406; G. JOSSA, La teologia della storia nel pensiero cristiano del secolo secondo, Napoli, 1965; G. OTRANTO, Esegesi biblica e storia in Giustino, Bari, 1979; B. BAGATTI, San Giustino e la sua Patria, Augustinianum, n. 19, 1979, pp. 319-331; C. NOCE, Giustino: il nome di Dio, Divinitas, n. 23, 1979, pp. 220-238.
8 - F. X. FUNK, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Paderborn, 1935, 2 voll.; M. RIGHETTI, Storia liturgica, Milano, III ed., 1966, 4 voll.
Nel 1964 padre Bouyer scriveva: «Il Canone romano risale, tale e qual è oggi, a San Gregorio Magno (†604). Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità!
Agli occhi non solo degli Ortodossi, ma anche degli Anglicani e persino dei Protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della Tradizione, gettarlo a mare [com’è stato fatto con la “Nuova Messa di Paolo VI”, ndr] equivarrebbe, da parte degli uomini della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica» (LOUIS BOUYER, Mensch und Ritus, 1964).
E’ quello che ora, purtroppo, sta facendo apertamente papa Bergoglio (in questo soltanto, “viva la faccia della sincerità” …) e che hanno iniziato a fare nascostamente Giovanni XXIII, Paolo VI (di cui ci occupiamo nel presente articolo per rapporto alla Nuova Messa montiniana), Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
MONSIGNOR KLAUS GAMBER
L’ex Vescovo di Ratisbona Monsignor Klaus Gamber, nel 1979, scriveva: «La Liturgia Romana è rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma risalente ai primi Cristiani. Essa s’identifica con il Rito più antico.
Nel corso dei secoli, molti Papi hanno contribuito alla sua configurazione: San Damaso papa (†384), per esempio, e successivamente soprattutto San Gregorio Magno (†604) […]. La Liturgia damasiano/gregoriana è quella che è stata celebrata nella Chiesa latina sino alla Riforma liturgica dei nostri giorni [30 novembre 1969, ndr]. Non è quindi esatto parlare di abolizione del “Messale di San Pio V”.
A differenza di quanto è avvenuto oggi in maniera spaventosa, i lievi cambiamenti apportati al Missale Romanum nel corso di quasi 1500 anni [sino a S. Pio V, ndr] non hanno toccato il Rito della Messa: si è bensì trattato solo di arricchimenti, per l’aggiunta di feste, di Propri di Messe e di singole preghiere […].
«Non esiste in senso stretto una “Messa Tridentina” o “di San Pio V”, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae in séguito al Concilio di Trento da San Pio V. Il Messale che San Pio V fece approntare nel 1570 fu il Messale della Curia Romana, in uso a Roma da molti secoli, risalente all’era apostolica e che i Francescani avevano già introdotto in gran parte dell’Occidente: un Messale, tuttavia, che prima di Pio V non era mai stato imposto universalmente, in modo unilaterale dal Papa e che Pio V impose alla Chiesa universale, salvo i riti che vantavano un’antichità di almeno 200 anni: rito ambrosiano, mozarabico, cartusiano, domenicano ... […].
«Sino a Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo Missae, ma solo ai “Propri” delle Messe per le singole festività. […]. Noi parliamo piuttosto di Ritus Romanus e lo contrapponiamo al Ritus Modernus. […]. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal secolo V in poi, hanno insistito è stato l’estensione di questo Canone Romano alla Chiesa universale, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro, che visse gli ultimi anni della sua vita a Roma e vi morì nel 64. […].
«Il rito Romano si può definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto che, risalenti in ultima analisi a N. S. Gesù Cristo e agli Apostoli, si sono sviluppate nei dettagli a partire da una Tradizione apostolica comune, e sono state più tardi sancite dall’Autorità ecclesiastica. […]. Un Rito che nasce da una Tradizione apostolica comune […] non può essere rifatto “ex novo” nella sua globalità. […].
«Ha il Papa il diritto di mutare un Rito che risale alla Tradizione apostolica e che si è formato nel corso dei secoli? […]. Con l’Ordo Missae del 1969 è stato creato un nuovo Rito [in rottura scismatica con la Tradizione apostolica, ndr]. L’Ordo tradizionale è stato totalmente trasformato e addirittura, alcuni anni dopo [estate del 1976, ndr], proscritto. Ci si domanda: un così radicale rifacimento è ancora nel quadro della Tradizione della Chiesa? No. […] (1).
«Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale.
Alla “plena et suprema potestas” del Papa sono chiaramente posti dei limiti […]. Più di un autore (Gaetano, Suarez) esprime l’opinione che non entri nei poteri del Papa l’abolizione del Rito tradizionale. […]. Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo. […].
«Nella Chiesa orientale e occidentale non si è mai celebrato versus populum, ma ci si è volti ad Orientem […]. Che il celebrante debba rivolgere il viso al popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero [e poi da Paolo VI, ndr]. […].
In alcune basiliche romane, l’altare era orientato versus populum, poiché l’ingresso era situato ad Oriente [Oriente dove sorge il sole, che è il simbolo di Gesù, quindi l’altare si volgeva verso l’Oriente ossia ad Dominum, ndr]. I Cristiani, dopo l’Omelia, si alzavano per la Preghiera successiva e si volgevano ad Oriente. […]. Affinché i raggi del sole sorgente ad Oriente potessero entrare all’interno delle chiese durante la Messa, nei secoli IV e V, a Roma e altrove, l’ingresso fu posto ad Oriente. Durante la preghiera le porte dovevano essere lasciate aperte e la preghiera doveva avvenire necessariamente in direzione delle porte. Il celebrante stava dietro l’altare in modo da potere, al momento del Sacrificio, volgere lo sguardo ad Oriente. Perciò la sua non era una celebrazione versus populum perché anche i fedeli, durante la Prece, si volgevano ad Oriente. […].
Inoltre i fedeli prendevano posto nelle navate laterali a destra e a sinistra dell’altare e l’altare durante la Prece Eucaristica veniva occultato da cortine. Perciò se i fedeli non guardavano l’altare non gli davano neppure le spalle, poiché erano nelle navate laterali ed avevano l’altare alla loro destra o alla loro sinistra, formando un semicerchio aperto a Oriente col celebrante» (KLAUS GAMBER, La riforma della Liturgia Romana. Cenni Storici – Problematica, [1979], tr. it., Roma, Una Voce, giugno/dicembre 1980, pp. 10, 19-20, 22, 26- 29, 30, 53-56); per fare un esempio, si veda la collocazione della Basilica di San Pietro (= Sacerdote) col Colonnato del Bernini (= fedeli), che guarda dal Colle del Vaticano verso via della Conciliazione ove sorge il sole.
In un vecchio libro sulla Messa del 1921, Fortescue, asseriva: «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) [...]. La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla più antica liturgia comune. Essa serba ancora il profumo di quella Liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la Fede cristiana: i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio (cfr. PLINIO JUNIOR, Ep. XCVI). Non vi è, in tutta la Cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. FORTESCUE, La Messe, Parigi, Lethielleux, 1921).
PADRE PATRICK FAHEY
Recentemente, padre PATRICK FAHEY dell’Augustinianum di Roma, nel Dizionario patristico e di antichità cristiane, diretto da ANGELO DI BERARDINO (Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1994, II vol., coll., 2232-2338) scrive: «Dall’età apostolica a Ippolito (2), nei primi 4 secoli del Cristianesimo, le Comunità cristiane parlavano di “frazione del pane” (I Cor., X, 6; Atti, II, 42; XX, 7; Didaché (3), XIV, 1; S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA (4), Epistola agli Efesini, XX, 2). […].
La combinazione della “Liturgia della parola” [Letture della S. Scrittura e Predica, ndr] con la “frazione del pane” [Consacrazione sacramentale del pane e del vino, ndr] apparve abbastanza presto (Atti, II, 42; XX, 7 (5)); molto probabilmente, all’inizio dell’era cristiana, l’azione eucaristica era quella del pane/calice/pasto, tuttavia la “frazione del pane” prese il primo piano quando (I Cor., XI, 20-21; 33-34 (6)) si separò l’azione eucaristica [o Consacrazione del pane e del vino, ndr] dal pasto vero e proprio o agape fraterna. […].
L’azione rituale era composta di quattro parti: 1) preparazione o offerta del pane e del vino [Offertorio, ndr]; 2) preghiera di ringraziamento [Canon Missae, ndr]; 3) frazione del pane [Consacrazione del pane e del vino, ndr]; 4) Comunione eucaristica. Fu così che il “pasto in comune o agape” assunse un altro significato (per i poveri).
Già alla fine del I secolo, il termine “Eucharistia” cominciò a designare la “frazione del pane” (S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA, Smirne, VII, 1; VIII, 1; Efesini, XIII, 1; Filippesi, IV, 1) e quest’azione fu trasferita principalmente alla Domenica mattina. Ciò condusse ad un ulteriore indebolimento dell’aspetto di pasto. […], [che fu messo in primo piano da Lutero [e sullo stesso piede del Sacrificio eucaristico dalla Nuova Messa di Paolo VI, ndr].
«La prima descrizione concreta della Liturgia eucaristica è quella di San Giustino (7), c.ca 150 (I Apol., 65-67): Letture degli Apostoli o dei Profeti; Omelia; Preghiera; Bacio di pace; Offerta del pane e del vino; Comunione; Colletta o raccolta delle offerte. La lingua liturgica è il greco. La Liturgia descritta da Ippolito (Traditio Apostolica) comprende: Offerta del pane e del vino, Canone eucaristico, Consacrazione eucaristica, distribuzione della Comunione eucaristica, con le Letture e l’Omelia. […].
«Il Canone dovrebbe aver ricevuto la sua forma definitiva durante l’epoca di S. Gregorio Magno († 604). Certamente il Gloria esisteva in latino a Roma prima del VI secolo. Il canto dell’Agnus Dei fu introdotto alla fine del VII secolo da papa Sergio I (687-701) (8)».
NOTE
1- Questo problema è analogo a quello che si pone oggi con Bergoglio, il quale con l’Esortazione Amoris laetitia (19 marzo 2016) ha autorizzato la partecipazione alla Comunione eucaristica da parte di coloro che vivono in stato di peccato mortale (divorziati risposati) e che non vogliono abbandonare questo stato; mentre con il Sinodo amazzonico (inverno 2020) si appresterebbe ad abrogare la norma di origine divino/apostolica del celibato ecclesiastico. Molti Cardinali, Vescovi e persino il Pontefice dimissionario, Benedetto XVI, gli hanno detto che non ha questo potere, dovendo lui conservare la Tradizione divino/apostolica e non cambiarla o distruggerla, come insegna pure il Concilio Vaticano I. Tuttavia sembra che egli tiri dritto e ostinatamente non solo per la Comunione ai divorziati risposati, ma anche per quanto riguarda il celibato ecclesiastico.
2 - IPPOLITO è uno Scrittore ecclesiastico, non un Padre della Chiesa, vissuto nella prima metà del III secolo. Fu Vescovo, ma non si sa di quale Diocesi, di lui ne parlano Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl.) e San Girolamo (De virib. ill.). L’opera più famosa che gli viene attribuita è il Philosophumena, ossia Syntagma o Elenco di tutte le eresie, in cui ne tratta 32 confutandole; essa ci è stata tramandata da Epifanio Vescovo di Salamina (365-403), nato in Palestina verso il 315 nel suo Panarion, in cui tratta addirittura ben 80 eresie e le confuta. Inoltre sono attribuiti a Ippolito vari Commenti ai Libri della S. Scrittura, tra cui i più attuali sono Commento all’Apocalisse e il Trattato Su Cristo e l’Anticristo. Cfr. M. SIMONETTI, Prospettive escatologiche della Cristologia di Ippolito: Bessarione I, La Cristologia nei Padri della Chiesa, Roma, 1979, pp. 85-101; A. ZANI, La Cristologia di Ippolito, Brescia, 1984; ANGELO DI BERARDINO, diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato, Marietti, II ed., 1994, 2° vol., coll. 1791-1798, voce “Ippolito” a cura di P. NAUTIN; ID., cit., 1° vol., coll. 1162-1164, voce “Epifanio di Salamina” a cura di C. RIGGI.
3 - La “DIDACHÉ” è uno scritto di un Autore anonimo, tuttavia l’opera è assai importante poiché ci permette di conoscere le abitudini religiose del popolo cristiano nel I-II secolo. Essa fu composta probabilmente tra il 130 e il 150 (cfr. A. FLICHE – V. MARTIN, Storia della Chiesa, vol. I, La Chiesa primitiva, III ed., 1958, Cinisello Balsamo, San Paolo, cap. X, I Padri apostolici, a cura di P. ORTIZ DE URBINA, p. 430).
4 - IGNAZIO, VESCOVO D’ANTIOCHIA, poco prima del 100 fu arrestato e condotto a Roma, dove si aspettava di subire il martirio. Dopo aver attraversato l’Asia Minore arrivò a Smirne, il cui Vescovo allora era San Policarpo ancora giovanissimo. Da lì scrisse una Lettera a ciascuna delle chiese di Efeso, di Tralli e di Magnesia, poi scrisse anche ai Romani annunciando il suo prossimo arrivo; indi giunse nella Troade e qui scrisse una Lettera alla chiesa di Filadelfia, una a quella di Smirne e un’altra a Policarpo Vescovo di Smirne. Queste sette Epistole sono state conservate e sono giunte sino a noi. Esse sono posteriori di circa dieci anni a quella di S. Clemente (96-98) e furono scritte mentre Ignazio viaggiava da Antiochia di Siria verso Roma ove morì attorno al 107.
5 - Gli ATTI DEGLI APOSTOLI furono scritti da San Luca attorno al 62. Al capitolo II versetto 42 San Luca scrive che i Cristiani «erano assidui alle istruzioni degli Apostoli, alle opere di carità, alla comune frazione del pane e all’orazione». Padre Marco Sales commenta: «Le occupazioni dei primi Cristiani erano essenzialmente quattro: 1°) assistevano con assiduità alle istruzioni fatte dagli Apostoli sulla vita e gli insegnamenti di Gesù; 2°) si davano alle opere di carità fraterna (“tè koinoìa”) con eguale diligenza, giacché sin da allora essi formavano una Comunità ben separata dai Giudei; 3°) perseveravano nella fractio panis, ossia nella celebrazione dell’ Eucarestia, come si legge nella versione siriaca. E’ certo che la frazione del pane indichi l’Eucarestia, la quale è chiamata così a motivo di quanto narrato sulla sua istituzione (“prese il pane, lo spezzò…”: Mt., XXVI, 26; Mc., XIV, 22; Lc., XXII, 19); 4°) erano anche assidui nelle orazioni. Si tratta di orazioni determinate e proprie della liturgia dei Cristiani, le quali essendo qui congiunte con le istruzioni o prediche degli Apostoli e con la partecipazione all’Eucarestia, è molto probabile che fossero quelle usate durante la celebrazione del Sacrificio eucaristico» (Commento agli Atti degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 30, nota n. 42; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).
Inoltre al capitolo XX versetto 7 gli Atti riportano: «Il primo giorno della settimana, essendosi adunati per spezzare il pane, Paolo parlava ad essi e allungò il discorso sino alla mezzanotte». Padre Sales chiosa: «Il primo giorno della settimana è la Domenica, che già sin dai primi tempi si consacrava in modo speciale al Signore, Risorto di Domenica (I Cor., XVI, 2; Apoc., I, 10) per spezzare il pane, ossia per celebrare la SS. Eucarestia. La celebrazione del Santo Sacrificio della Messa aveva luogo la sera, come lascia comprendere il contesto», infatti San Paolo che sta celebrando di sera inizia la predica e la protrae sino alla mezzanotte (M. SALES, Commento agli Atti degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 119, nota n. 7; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).
6 - San Paolo nella I EPISTOLA AI CORINZI (XI, 20-21; 33-34), la quale fu scritta tra il 55 e il 57 ad Efeso, rimprovera i Cristiani, affermando: «Quando vi riunite in comune per la celebrazione eucaristica, non mangiate degnamente la Cena del Signore. Infatti ognuno nel mangiare, consuma prima la propria agape, e così uno ha fame, invece un altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case ove magiare e bere? […]. Perciò, o fratelli, quando vi riunite per mangiare l’agape aspettatevi a vicenda. Se qualcuno ha fame, mangi prima a casa sua, affinché non vi riuniate a vostra condanna». Monsignor Settimio Cipriani commenta: «La “Cena del Signore” è l’Eucarestia, che viene nettamente distinta dalla “cena propria o agape fraterna”. Infatti l’Eucarestia non è una “egoistica agape o cena privata”. Se “l’agape privata” deve ridursi ad un baccanale per i ricchi, (i quali portano da casa loro ogni ben di Dio per la “agape comunitaria”, ma poi lo mangiano loro stessi e non lo spartiscono con gli altri) e ad un digiuno umiliante per i poveri, (i quali non hanno quasi nulla da portare e restano a guardare i ricchi, che mangiano lautamente ciò che hanno portato); allora ognuno mangi a “casa sua” e così non offenderà i fratelli poveri. […]. Quindi non si celebri l’Eucarestia prima che tutta la Comunità sia riunita ed ogni agape o banchetto privato, che non sia il Convivio eucaristico, sia escluso dalla riunione sacra, perciò si elimini l’agape fraterna, che servirebbe solo allo sfogo intemperante della golosità dei più ricchi ed affamati» (Le Lettere di San Paolo, Assisi, Cittadella Editrice, 1965, p. 191, nota n. 20; p. 195, nota n. 33). Padre Marco Sales chiosa così: «Ciascuno di voi, invece di mettere in comune i cibi portati per l’agape fraterna, li riserva per sé e per i suoi, e comincia a mangiare la sua agape, senza aspettare gli altri con i quali avrebbe dovuto condividerla. Allora ecco che i poveri, venuti senza abbondanti provvigioni, patiscono la fame; mentre i ricchi, invece di soccorrerli, si abbandonano alle intemperanze della golosità e si ubriacano. I fedeli, infatti, in teoria avrebbero dovuto portare da casa, ciascuno secondo le proprie possibilità, i cibi necessari per tutti e per il pasto comune e fraterno, ma, poi all’atto pratico, ciascuno pretendeva di mangiare ciò che aveva portato personalmente anche se era destinato per il pasto comune e fraterno. […]. Io - continua l’Apostolo - non posso lodarvi, poiché il modo in cui celebrate l’Eucarestia è in opposizione con la natura e la dignità di questo Sacramento. […]. Infatti, o Cristiani, ogni volta che partecipate all’Eucarestia, compite un atto, che è un memoriale vivo, della morte del Signore. […]. Essendo così severo il giudizio di Dio verso chi si comunica indegnamente, allorché voi, o Cristiani, vi radunate per magiare l’agape, “aspettatevi gli uni gli altri”, evitando l’abuso sopra accennato. Inoltre se “qualcuno si scusa dicendo di aver fame” e non vuole aspettare gli altri, allora se proprio non riesce a frenare la fame mangi prima di venire alla Messa a casa sua. Infatti l’agape non fu istituita per saziare la fame, ma soprattutto per manifestare la carità fraterna e mutua tra fedeli» (M. SALES, Commento alle Lettere degli Apostoli, Torino, Berruti, 1911, p. 227-229, note n. 21-34; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2016).
7 - GIUSTINO è un Padre apostolico del II secolo, nacque in Palestina e passò dallo stoicismo al Cristianesimo nel 132/135. Quindi si recò a Roma dove scrisse le sue due Apologie (c.ca 148/161) indirizzate ad Antonino Pio (138/161) e poi il Dialogo con Trifone, che è la più antica apologia del Cristianesimo rimasta a noi e indirizzata contro l’errore del Giudaismo talmudico. Giustino fu martirizzato sotto il Prefetto di Roma, Rustico, tra il 163 e il 167. Egli fu il primo cristiano a servirsi della filosofia aristotelica per fare teologia, conciliando fede e ragione, filosofia e teologia. Egli organizzò la più antica raccolta di dottrine eretiche nella sua opera chiamata Syntgma (andata perduta) che confuta circa 80 eresie del suo tempo. Cfr. A. DI BERARDINO diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1994, II ed., vol. II, coll. 1628-1632, voce «Giustino filosofo e martire» a cura di R. J. DE SIMONE; E. BELLINI, Dio nel pensiero di San Giustino, La Scuola Cattolica, n. 90, 1962, pp. 387-406; G. JOSSA, La teologia della storia nel pensiero cristiano del secolo secondo, Napoli, 1965; G. OTRANTO, Esegesi biblica e storia in Giustino, Bari, 1979; B. BAGATTI, San Giustino e la sua Patria, Augustinianum, n. 19, 1979, pp. 319-331; C. NOCE, Giustino: il nome di Dio, Divinitas, n. 23, 1979, pp. 220-238.
8 - F. X. FUNK, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Paderborn, 1935, 2 voll.; M. RIGHETTI, Storia liturgica, Milano, III ed., 1966, 4 voll.
di Gregorius
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