ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 9 marzo 2020

La “morte della patria”

Il papa e l’Italia prostrata dal Coronavirus. Così vicina, così lontana



FRANCESCO, PRIMO PAPA NON ITALIANO
di Roberto Pertici
Domenica 5 maggio 1940, Pio XII si recò solennemente nella basilica di Santa Maria sopra Minerva per ricordare con rito solenne santa Caterina e san Francesco patroni d'Italia. In quell’occasione, elevò una preghiera per il paese di cui era primate:
“O Gesù, Verbo onnipotente, Re dei secoli, che al dividere che faceste le genti e al separare i figli di Adamo, fissaste i termini dei popoli (Deut 22,8) e entro i confini d’Italia eleggeste e stabiliste il luogo santo, ove siede il vostro Vicario, guardate benigno questo popolo e questa terra da voi prediletta, bagnata dal sangue dei Principi dei vostri Apostoli e di tanti martiri, consacrata dalle virtù e dall’opera di tanti vostri Vicari, vescovi, sacerdoti, vergini e servi buoni e fedeli. Qui la fede in voi brillò sempre immacolata, santificò gli antri e i rifugi dei vostri credenti, purificò i templi dei falsi dèi e innalzò a voi basiliche d’oro dall’una all’altra sponda dei mari che ne circondano; qui il vostro popolo più e più si strinse intorno ai vostri altari, dimentico dei dissensi, ansioso della concordia degli animi; e qui questo medesimo popolo implora da Voi, o Re divino delle nazioni, che corroboriate della vostra grazia e del vostro favore l’intercessione, che a protezione nostra in modo più alto e particolare affidiamo, presso il vostro trono di benignità e di misericordia, ai vostri due gran Servi Francesco e Caterina. Ascoltate, o Gesù, la nostra preghiera, che per le loro mani presentiamo a voi".

Si trattava di una preghiera per la pace: cinque giorni dopo, la Germania avrebbe attaccato il fronte francese e iniziato quella che sembrava la fase conclusiva della guerra in Europa. Pregare per la pace significava in quei giorni auspicare che l’Italia, ancora “non belligerante”, rimanesse fuori del conflitto, secondo la linea seguita dalla diplomazia pontificia nei mesi precedenti e propagandata da “L’Osservatore Romano” e dalla stampa cattolica.
Questa campagna aveva fortemente irritato i vertici del regime e lo stesso Mussolini, che invece stava cercando di preparare il paese alla guerra: secondo le testimonianze degli ambasciatori inglese e francese presso la Santa Sede, Osborne e d’Ormesson, durante il percorso verso Santa Maria sopra Minerva, a un incrocio, l’auto del papa avrebbe rallentato e sarebbe stata oggetto di varie contumelie da parte di gruppi di giovani fascisti: “Il papa fa schifo!”, «”Abbasso il papa!”. Non a caso Pio XII sarebbe di nuovo uscito per le strade della città di cui era vescovo solo il 19 luglio 1943, dopo il primo bombardamento alleato sulla capitale: troppo noto è questo episodio perché si debba qui narrarlo di nuovo.
L’attenzione di lui e dei suoi successori per la “cara e diletta Italia”, come nella retorica pontificia veniva in genere indicato il nostro paese, sarà stata spesso anche eccessiva e avvertita da molti nostri connazionali come una tutela asfissiante, ma è indubbio che nei momenti veramente difficili gli italiani (credenti e non) abbiano spesso rivolto lo sguardo al vescovo di Roma, ricevendone parole non dimenticabili. I più anziani ricordano ancora Paolo VI che celebra la messa di Natale nel duomo di Firenze a un mese e mezzo dall’alluvione del 4 novembre 1966 e il suo messaggio agli “uomini delle Brigate Rosse” durante il rapimento di Aldo Moro nel 1978.
Si dirà che quelli erano papi italiani, anzi di sentimenti notoriamente patriottici fin dalla giovinezza, come nel caso di Angelo Giuseppe Roncalli e dello stesso Montini, eredi della tradizione “conciliatorista” lombarda. Per loro – a differenza di tanti cattolici “intransigenti” – l’Italia unita era un dato assodato, un punto di non ritorno. Ma anche un papa non italiano come Giovanni Paolo II fu autore nel 1994 di una memorabile preghiera per l’Italia, non a caso, perché per il papa polacco le nazioni sono profonde realtà spirituali: basta rileggere il suo grande discorso all’assemblea dell’ONU del 5 ottobre 1995. E si deve fortemente sottolineare che le forti radici nazionali di questi pontefici si coniugarono sempre con una capacità straordinaria di incarnare l’universalità del cattolicesimo e del loro ruolo.
Tutti questi ricordi e queste riflessioni mi hanno accompagnato domenica 8 marzo mentre ascoltavo papa Francesco nel primo Angelus che recitava di fronte a un’Italia prostrata, “divisa in due” dall’epidemia di coronavirus.
Ebbene, Francesco ha speso più parole, anche aggiunte a braccio, per una lontana città siriana…
(“Saluto le Associazioni e i gruppi che si impegnano in solidarietà con il popolo siriano e specialmente con gli abitanti della città di Idlib e del nord-ovest della Siria – vi sto vedendo qui – costretti a fuggire dai recenti sviluppi della guerra. Cari fratelli e sorelle, rinnovo la mia grande apprensione, il mio dolore per questa situazione disumana di queste persone inermi, tra cui tanti bambini, che stanno rischiando la vita. Non si deve distogliere lo sguardo di fronte a questa crisi umanitaria, ma darle priorità rispetto ad ogni altro interesse. Preghiamo per questa gente, questi fratelli e sorelle nostri, che soffrono tanto al nord-ovest della Siria, nella città di Idlib”).
… che per il paese della cui capitale è vescovo.
(“Sono vicino con la preghiera alle persone che soffrono per l’attuale epidemia di coronavirus e a tutti coloro che se ne prendono cura. Mi unisco ai miei fratelli vescovi nell’incoraggiare i fedeli a vivere questo momento difficile con la forza della fede, la certezza della speranza e il fervore della carità. Il tempo di Quaresima ci aiuti a dare tutti un senso evangelico anche a questo momento di prova e di dolore”).
Come si vede – se si deve dar retta al testo – per papa Francesco la crisi umanitaria siriana ha “priorità rispetto ad ogni altro interesse”.
Certo non è mancato poi lo strappo al cerimoniale (la breve apparizione alla finestra su piazza San Pietro), ma un’opinione pubblica smarrita e inquieta poteva – diciamolo francamente - aspettarsi qualcosa di più.
Il papa – si sa – legge in genere dei discorsi predisposti, ma più volte l’attuale pontefice ha mostrato la capacità di alzare gli occhi e di parlare a braccio sulle questioni che più gli stanno a cuore. Se non a lui, il difetto di percezione lo si deve imputare ai suoi più diretti collaboratori: dicono che in Vaticano è ormai costantemente all’opera una pluralità di “esperti della comunicazione”, che però in quest’occasione non hanno trovate le parole giuste.
Qualcosa di analogo si può dire anche della conferenza episcopale italiana, che al di là dello zelo dimostrato nel seguire le regole igieniche prescritte dalle autorità, ha avuto difficoltà a pronunciare parole non generiche, “cattoliche” vorrei dire, sulla crisi attuale. Forse mi sbaglio, ma la sua voce non è riuscita ad assumere un risalto specifico fra le tante che i media hanno rovesciato sugli italiani. Questo sul piano del discorso pubblico, perché sono sicuro che i sacerdoti delle zone colpite siano in trincea accanto ai loro fedeli e si siano impegnati “usque ad effusionem sanguinis” nella loro cura e assistenza, materiale e spirituale.
Questo silenzio significa qualcosa? Non entro in questioni teologiche che esulano dalla mia competenza. Riformulo allora la domanda in un’altra forma: quando e come l’Italia ha finito di significare qualcosa per il nostro clero?
Mi si opporrà – come in tutti gli spot per l’8 per mille - che i sacerdoti italiani sono attivissimi nel sociale, dispensano un’attività caritativa e assistenziale di enorme portata. Tutto vero, tanto che anche papa Francesco ha messo più volte in guardia dalla tentazione di trasformare le strutture ecclesiastiche in una enorme ONG.
Ma tutto questo grande sforzo caritativo non riesce poi a trasformarsi in un progetto culturale consapevole, perché mancano alcune domande di fondo sulla realtà italiana, la sua storia, le sue tradizioni culturali, le sue vicende. Per molti sacerdoti e vescovi, la società in cui operano con tanta alacrità è senza storia e soprattutto non mostrano alcun rapporto empatico con la civiltà che essa ha espresso ed esprime.
Si dirà che questo è comune alla maggior parte degli italiani, ed è vero. Che il clero non ha fatto altro che condividere quell’esperienza collettiva che si è chiamata la “morte della patria”: e anche questo è vero. Che insomma il futuro cardinale Giulio Bevilacqua, combattente sull’Ortigara nel 1916, era coetaneo dei suoi coetanei, e i preti di oggi dei loro.
Ciononostante, quello che resta dell’Italia, in questi giorni di smarrimento, si sente inevitabilmente un po’ più solo.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 09 mar

Prete denunciato per aver celebrato la Messa: “Non lo faccio più”


Don Alberto Antonioli non si aspettava certo l’arrivo dei carabinieri, costretti a denunciarlo per non aver rispettato le disposizioni ministeriali sull’emergenza coronavirus.
Aveva cancellato tre delle quattro Messe domenicali ma alle 9:30, senza suonare le campane, ha aperto le porte della chiesa di Trevenzuolo e ha celebrato la Santa Messa davanti ad un’ottantina di fedeli, seduti a più di un metro di distanza l’uno dall’altro.
Nessuna stretta di mano in segno di pace, nessun contatto diretto, nessun affollamento, ma il decreto del governo vieta le cerimonie religiose e in tal senso è andata la comunicazione del vescovo arrivata a tutti i parroci della diocesi di Verona, a firma del vicario generale.
Don Alberto è distrutto, parla con un filo di voce, fatica a trattenere le lacrime: “Mi spiace aver fatto del male, ho disubbidito. Non lo faccio più, adesso dobbiamo andare avanti ma c’è molta paura” ha detto il prete al microfono di Telenuovo.
In paese non si parla d’altro. Don Alberto riceve la solidarietà di tutti, perché – dicono i suoi parrocchiani — l’ha fatto con le più buone intenzioni.
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Fonte: Telenuovo

I cattolici al tempo del coronavirus / 12


Qui Milano
Benvenuti nell’Italia senza Messe. Noi qui in Lombardia vi abbiamo anticipato. Rattrista che la Cei si sia adeguata alle decisioni del governo con totale remissività, senza avanzare neppure una proposta alternativa. I vescovi avrebbero potuto proporre, per esempio, Sante Messe suddivise per categorie, con un numero limitato di presenze e distanze di sicurezza tra una persona e l’altra. Così invece passa l’idea che la Messa sia solo una “cerimonia”, non un atto di culto.
Lettera firmata
Milano
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Qui Varese
Il fenomeno delle Messe clandestine ci sta avvicinando all’esperienza cinese. Chi vuole restare cattolico, e non aderire a una sorta di Chiesa di Stato piegata alle direttive governative, deve scendere nelle catacombe. Prima di eliminare del tutto le Messe con concorso di pubblico, la Cei avrebbe potuto fare qualche proposta per salvaguardare il diritto dei fedeli al culto. Invece i vescovi sembrano più attenti alle esigenze di buon vicinato con il governo che ai diritti dei fedeli.
Lettera firmata
Varese
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Qui Roma / 1
Mi chiedo: la Messa è una semplice “cerimonia” o un atto di culto? Il decreto governativo dice che sono sospese “le cerimonie civili e religiose”, ma la Messa può rientrare tra le “cerimonie”?
Le chiese sono luoghi di culto e come tali sono aperte. Ci si può entrare per pregare, ma allora perché non per la Messa?
Capisco la sospensione di matrimoni e funerali, che sono in effetti cerimonie, alle quali partecipano anche non credenti e non praticanti, ma la Messa non può essere equiparata a tali cerimonie.
Prima di sospendere le Messe con concorso di pubblico la Cei avrebbe potuto proporre soluzioni alternative. Invece nulla.
Lettera firmata
Roma
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Qui Roma / 2
Capisco che la situazione è seria e tutti dobbiamo collaborare per fermare il contagio ed evitare il collasso delle strutture sanitarie, però il modo in cui la Chiesa si è immediatamente allineata alle direttive dello Stato suscita l’impressione che la Chiesa stessa abbia come proprio referente il mondo politico e non i fedeli. Anche nell’uso del linguaggio non c’è molta differenza tra i comunicati dei vescovi e quelli governativi. Da parte della Chiesa un vero e proprio cedimento.
Lettera firmata
Roma
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Qui Roma / 3
“L’accoglienza del Decreto è mediata unicamente dalla volontà di fare, anche in questo frangente, la propria parte per contribuire alla tutela della salute pubblica”.
La Cei scrive così nel comunicato che sospende le Messe con il concorso di pubblico. Prendiamo atto che “contribuire alla tutela della salute pubblica”, non contribuire alla salvezza dell’anima, è diventato il compito dei vescovi.
Lettera firmata
Roma
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Qui Friuli Venezia-Giulia
Sono una semplice cristiana, arrabbiata con i pastori. Volevo ringraziarla perché con le sue parole ha dato voce al mio pensiero che da qualche giorno cerco di trasmettere a qualche sacerdote e vescovo in cui avevo riposto grande fiducia.
Siamo in Carnia: paesini di montagna, dove il coronavirus ancora non è arrivato e la gente che crede si sente presa in giro dai rappresentanti della Chiesa.
Noi ci siamo, noi crediamo, e per il nostro bene vogliamo Santa Messa ed Eucaristia.
Lettera firmata
Tolmezzo (Udine)
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Qui Mantova
L’esperienza della nostra Messa clandestina è terminata nel peggiore dei modi, con la delazione e il rimprovero del vescovo. Allo sconforto del nostro bravo sacerdote vorrei unire il mio stato d’animo, e non c’è una parola che può descriverlo meglio di desolazione.
Quando ripenso a periodi più tragici del passato, a san Giovanni Bosco e ai suoi ragazzi, a san Carlo Borromeo e tanti altri che avendo fede in Dio portavano al popolo cristiano il santo conforto senza paura, che desolazione nel vedere preghiere e celebrazioni via streaming!
E ancora: sentire sacerdoti giustificare la sospensione delle Messe col popolo per un discorso di prudenza, che desolazione!
Veramente Dio abbia pietà di noi e di questa Chiesa.
Lettera firmata
Mantova

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