Nell’epoca in cui la teologia ha perso la capacità di divenire sapienza, cioè “sapida scientia”, è bene ripercorrere brevemente la vicenda del Dottore Serafico, che ha percorso la via dell’umiliazione e dell’obbedienza alla verità rivelata e tramandata.
San Bonaventura da Bagnoregio
San Bonaventura da Bagnoregio

di Silvio Brachetta

Non solo san Bonaventura da Bagnoregio si fa francescano, ma anche sant’Antonio da Padova, ad esempio, o il beato Cesario da Spira: tutti in qualche modo grandi teologi. Già prima della morte di san Francesco d’Assisi, l’Ordine francescano si stava lentamente (e stranamente) clericalizzando. E non si deve intendere “chierico” nell’accezione moderna, come sinonimo di “prete”. I chierici, nel medioevo, erano solitamente i letterati, i dotti, coloro che avevano studiato in una qualche schola.
Il chierico era contrapposto al medievale “idiota”, all’illetterato, a colui che non sapeva leggere né scrivere. È dunque strano che tra le fila dei seguaci di san Francesco, il quale si era presentato al mondo come ignorans et idiota, trovassero sempre maggiore spazio e vocazione frati istruiti o, comunque, amanti dello studio e della conoscenza.

Ci fu chi protestò con forza (ad esempio Jacopone da Todi) contro la clericalizzazione dell’Ordine, che apparve come un tradimento, non tanto e non solo della vocazione francescana, ma addirittura di San Paolo, che aveva preferito la stoltezza della Croce alla sapienza dei pagani: «E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1, 22-23).
Eppure il santo d’Assisi, forse dopo qualche titubanza, a chi richiedeva un suo parere circa la presenza dei letterati nell’Ordine e lo studio della Sacra Scrittura, rispondeva: «Sì, a me piace, purché, secondo l’esempio di Gesù Cristo, – del Quale sappiamo che attese più a pregare che a leggere – non trascurino di applicarsi alla preghiera. Né debbono studiare soltanto per saperne parlare, ma per mettere in pratica le verità apprese e, dopo averle praticate, insegnarle agli altri». Così, almeno, riferisce lo stesso san Bonaventura nella Legenda Maior (XI, 1).

Jacques Guy Bougerol (1908-1997), uno tra i maggiori studiosi francescani, scrive che il Poverello pose due condizioni all’ingresso dei chierici nell’Ordine: innanzitutto, che «i frati siano liberati dallo spirito di possesso, totalmente»; poi, che «essi siano teologi “in ginocchio”» (da Introduzione generale alle opere di San Bonaventura). C’è chi prese alla lettera le parole di san Francesco e, fra i teologi, frate Bonaventura, futuro Dottore Serafico della Chiesa, fu tra coloro che seppero meglio incarnare lo spirito della povertà e dell’obbedienza, tanto nel vestire il saio della penitenza, quanto nel sottomettere le pose superbe della ragione e della volontà alla verità rivelata.
Nel Breviloquium – una sorta di breve summa del suo pensiero teologico – Bonaventura manifesta il proprio umiliarsi dinnanzi al mistero divino, a cominciare dal metodo: per ogni questione egli enuncia ciò che si deve credere (hoc tenendum est) e poi dà una spiegazione logica di quanto esposto (ratio autem ad intelligentiam praedictorum). È l’esatto contrario – è bene evidenziarlo – della prassi di certi teologi odierni, i quali prima esprimono una loro privata opinione e poi pretendono di piegare ad essa la Rivelazione.

Che la teologia del Serafico sia una teoresi in ginocchio lo si avverte immediatamente nel Prologo al Breviloquium, in cui è riportato in apertura un passo della Lettera di san Paolo agli Efesini (3, 14-19) «Piego le mie ginocchia al Padre del Signore nostro Gesù Cristo […]». Nel Prologo, anzi, c’è un’originalissima esposizione dell’essenza della teologia che, principalmente, consiste nell’«origine, svolgimento e punto finale della Sacra Scrittura» («ortum, progressum et statum sacrae Scripturae»).
Nell’origine, infatti, vi è l’«influenza della beatissima Trinità», nello svolgimento è richiesta l’operazione della «capacità umana», mentre alla fine c’è il «frutto» che consiste nella «più che completa felicità». La felicità, beninteso, di chi cerca la scienza di Dio umiliando la propria soggettività, in ossequio alla verità oggettiva, da cui tutto procede.
Bonaventura, dunque, pone all’inizio – o meglio, come condizione a priori – di ogni speculare teologico la fede, grazie alla quale «Cristo abita nei nostri cuori» e senza la quale «è impossibile che qualcuno acceda alla sua [della Scrittura] comprensione».

Al capitolo primo della prima parte del Breviloquium il santo Dottore precisa meglio quali siano gli argomenti trattati dalla teologia e, soprattutto, dà ragione del perché trattarli. Quanto agli argomenti, ne elenca sette: Trinità di Dio, creazione del mondo, corruzione del peccato, incarnazione del Verbo, grazia, sacramenti e giudizio finale.
È ben visibile, in questa ripartizione, tutta la storia della salvezza che, dal primo Principio, esamina ogni aspetto del mistero d’amore tra Dio e l’uomo. Non solo, scrive Bonaventura, la teologia è una scienza, affinché si conosca Dio e tutto ciò che è necessario alla salvezza, ma inoltre la teologia è «la sola sapienza perfetta» che include l’inizio (la causa somma) e la fine della conoscenza (il creato). E in questa conoscenza «vi è il sapore perfetto (sapor perfectus), la vita e la salvezza delle anime». Per questo la sapienza in san Bonaventura è sapida scientia.