ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 8 giugno 2020

Una crisi morale di proporzioni enormi


Queste non sono rivolte. Questa è una rivoluzione

Mentre osserviamo la violenza e le rivolte che scuotono il Paese, dobbiamo affrontare una realtà dolorosa. Sebbene vada ovviamente deplorata la morte di George Floyd, va riconosciuto che le proteste scatenatesi sono il riflesso di una società in crisi e non il frutto di  cattive politiche di contrasto o di ingiustizie “sistemiche”.


Il razzismo è solo un sintomo, ma esiste un problema molto più grande, che dobbiamo ammettere. Il problema maggiore è una crisi morale di proporzioni enormi. Questa crisi ha preparato la strada alla violenza che stiamo vivendo. Questi non sono solo disordini; questa è una rivoluzione per cambiare l’America e avrà conseguenze disastrose per la nazione.

L’America cade a pezzi
La crisi morale non è nuova. Per decenni, molti hanno denunciato la decadenza morale del Paese. La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta ha scatenato passioni sfrenate, che hanno distrutto costumi, famiglie e comunità. Oggi la folle corsa al piacere distrugge gli individui mettendo in discussione la nozione di identità.
La novità ora è che la crisi si sta intensificando con le ansie provocate dal lockdown per il coronavirus e le elezioni incombenti. Ora più che mai, vediamo un’America polarizzata che si frantuma. Il tessuto morale che tiene unita la nazione si sta sfilacciando, aprendo la strada alla rivoluzione. Tutto ciò che rimane sono frammenti accorpati in una certa apparenza di normalità.
Siamo testimoni di una triste realtà: basta un solo evento incandescente perché l’intera nazione precipiti nel caos. Come ha dimostrato la devastazione del lockdown del coronavirus, molto può essere distrutto in breve tempo.

La legge morale è essenziale 
Ogni crisi morale deriva dal rifiuto di rispettare una legge morale che è normativa per il comportamento umano. Può succedere quando le persone non ammettono più una nozione oggettiva di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, rifiutando i Dieci Comandamenti come regole ragionevoli per la vita. Le cose cadono a pezzi quando si determina che ciò che è giusto si basa sulla mera soddisfazione della felicità di ogni individuo. In tali condizioni, le società sprofondano facilmente nell’anarchia.
In effetti, enormi settori della società americana sono caduti in decadenza morale a causa del rifiuto di riconoscere una legge morale. Questa crisi abbraccia tutti i gruppi sociali, razziali, etnici e di reddito.

La trasformazione di intere aree in zone di guerra
Essendo la decadenza una forza distruttiva, le sue manifestazioni più evidenti si trovano nelle comunità disastrate. Pertanto, non è una coincidenza che il comune denominatore delle aree di disordini e violenza non sia di natura razziale bensì morale. Tanto nei quartieri degradati quanto nelle aree rurali dominate dal traffico di oppiacei, ciò che troviamo è sempre l’assenza della legge morale.
Troviamo famiglie distrutte senza il padre o senza stabilità. C’è promiscuità sessuale che non ammette restrizioni. Senza solide strutture familiari, il crimine e la violenza dominano le comunità. Pertanto, abbiamo trasformato queste aree in zone di guerra e mandiamo quotidianamente la nostra polizia in battaglia contro elementi criminali e persone sociopatiche.
Alla decadenza si aggiunge la violenza che si verifica quando le chiese si svuotano. Le persone non hanno idea di un Dio amorevole, autore della legge morale che porta ordine alla società. Cercano invece conforto spirituale nelle droghe, che introducono la disperazione nelle loro vite prive di significato.
Generalmente, nelle aree in cui manca la moralità, tutto può succedere. Gli atti più brutali sono possibili. Non esiste alcuna possibilità di armonia sociale. Ci troviamo a incolpare “il sistema” anziché segnalare i peccati e le azioni degli individui che distruggono l’ordine. 

Non una rivolta ma una rivoluzione 
Sarebbe sbagliato affermare che solo le comunità degradate sperimentano questa decadenza. Situazioni analoghe in cui si è perso il senso morale si trovano ovunque, anche nei settori ad alto reddito. Tra i rivoltosi radicali si possono trovare persone di ogni razza, professione e livello di reddito. I notiziari mostrano agitatori che sono avvocati, professori e persino chierici, che lavorano dietro le quinte per portare avanti i loro programmi. In effetti, tali rivolte non sono mai il prodotto di forze spontanee.
Tuttavia, ad unire questi ribelli radicali è il loro rifiuto della legge morale. Odiano l’ordine e la moderazione. Approfittano di quanti hanno perso il senso morale invitandoli a partecipare del loro sogno di distruggere i resti della civiltà occidentale e ogni nozione di stato di diritto.
Pertanto, l’esistenza di una crisi morale prepara la strada non a semplici rivolte ma alla rivoluzione. Ovvero alla sostituzione di un presente e legittimo ordine con un diverso e illegittimo stato di cose.

Dobbiamo sconfiggere una rivoluzione 
Dobbiamo rifiutarci di seguire la narrativa rivoluzionaria propostaci dai media. Dobbiamo rifiutare l’idea che i disordini siano il prodotto di una lotta di classe che scatena e persino giustifica la violenza. Dobbiamo affrontare la dolorosa realtà della nostra crisi morale e assumerci la responsabilità personale delle nostre azioni.
Soprattutto, possiamo sconfiggere la narrativa rivoluzionaria con un’altra narrativa. Quella costituita dal ricco retaggio della Chiesa e del cristianesimo, che sostiene una legge morale la quale porta all’armonia, alla giustizia e all’ordine. La nazione deve tornare a Dio, che, se invocato con un cuore umile e contrito, può fare tutto e restituire l’ordine al Paese.

John Horvat Fonte: TFP.org, 4 Giugno 2020
Il movimento pro-Floyd è l’ennesima 
espressione del radicalismo borghese anti-occidentale

L’uccisione di George Floyd a Minneapolis c’entra ben poco con il razzismo. Il movimento di protesta sorto negli Stati Uniti ed “esportato” in tutto l’Occidente dopo la sua uccisione c’entra invece, e molto, con l’ideologia, che come al solito sostituisce i fatti con una visione del mondo astratta e distorta, in base alla quale la parola “razzismo” è usata del tutto fuori dal suo contesto per delegittimare i fondamenti della società statunitense e dell’Occidente.
La morte di Floyd è uno tra i tanti (troppi) atti di violenza compiuti ogni anno da parte della polizia negli Stati Uniti. Una tendenza tragicamente cronica che va considerata – se si vuole seriamente comprenderla per combatterla – all’interno di una situazione generale caratterizzata, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, dalla presenza incombente di forme di criminalità diffusa in aree di disagio e difficile integrazione sociale.
Le uccisioni di cittadini da parte di poliziotti, in conflitti a fuoco o a posti di blocco, sono state 1004 nel 2019, in aumento rispetto al 2018 (991) (fonte: “Washington Post”). A queste uccisioni corrisponde la morte, nel 2019, di 48 poliziotti in conflitti a fuoco (fonte: Cnbc). Ma non esiste oggi, stando alle statistiche, alcuno specifico accanimento razzista della polizia contro la comunità afroamericana. Nel 2019 sono stati uccisi dalla polizia 370 cittadini di razza bianca caucasica, 235 neri, 158 ispanici (fonte: Statista.com).
Ma, si dirà, la percentuale dei morti afroamericani è molto più alta della loro percentuale sulla popolazione (il 24% contro il 13%, secondo i dati forniti dal “Sole 24 Ore”). Certo. Purtroppo, però, è molto più alta anche la percentuale di reati commessi da afroamericani rispetto agli altri gruppi etnici interni alla cittadinanza degli States. Secondo i dati ufficiali dell’UCR (il servizio di elaborazione dei dati sulla criminalità dell’FBI) relativi al 2017, il 27,2% degli arrestati era afroamericano, e la percentuale saliva di molto in relazione a reati come aggressioni (33,5%), rapine (54.3%) e soprattutto omicidi (53,1%). Statisticamente, dunque, è molto più facile che in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine si trovi un cittadino afroamericano, e questo spiega l’incidenza anche nelle vittime della violenza poliziesca.
Qui sorge l’altra prevedibile obiezione: se questo accade, non è appunto colpa del razzismo storicamente sedimentato verso i neri, che li ha emarginati e quindi esposti maggiormente all’illegalità?
La innegabile maggiore percentuale di criminalità in determinate aree
popolate prevalentemente da neri affonda certamente le sue radici, tra l’altro, anche nel rigetto che, dopo la guerra di Secessione e la legge per l’emancipazione del 1865, molte comunità bianche degli stati del Sud dell’Unione hanno costantemente espresso nei confronti di una piena emancipazione ed integrazione della popolazione di origine africana (nel 1860 già ammontante a 4 milioni, quasi il 20% degli abitanti degli Usa), per paura di perdere i loro privilegi acquisiti. Un rigetto che era espressione non tanto di un razzismo “teorico” (l’idea di una gerarchia tra le razze) quanto pratico, fondato sulla paura di perdere privilegi sociali acquisiti, e si manifestava soprattutto nella richiesta di quella che in Sud Africa si sarebbe chiamata “apartheid”, cioè di una rigida separazione tra le diverse comunità.
Da qui le leggi segregazioniste emesse da quegli stati, e legittimate nel 1896 anche da una sentenza della Corte suprema, che provocarono tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX grandi ondate migratorie della popolazione nera dalle zone rurali alle grandi città, e poi dal Sud al Nord, con la nascita di “ghetti” urbani, quartieri periferici caratterizzati da sacche di profonda povertà ed emarginazione.
E’ in questo contesto che si crearono le condizioni – per certi versi analoghe a quelle relative ad altre comunità di recente immigrazione – per il radicamento della criminalità urbana tra gli afroamericani. Ma si tratta di fattori storici strutturali, non riducibili semplicisticamente alla responsabilità degli attori politici successivi, che anzi in più occasioni ne hanno corretto gli effetti.
La lunga battaglia condotta dal movimento per i diritti civili degli afro-americani, dalla fondazione del NAACP nel 1909 fino alla leadership di Martin Luther King, riuscì a portare alla completa uguaglianza civile, sancita dal “Civil Rights Act” emanati dal presidente Lyndon Johnson nel 1964, invocando la piena attuazione dell’uguaglianza dei diritti fondamentali nella Dichiarazione di indipendenza alla base della nascita degli Stati Uniti.
Ma il disagio sociale creato nel frattempo non si poteva certo risolvere con un tocco di bacchetta magica: benché molti progressi in tal senso fossero prodotti dal boom economico del secondo dopoguerra, e dalle leggi emanate dallo stesso Johnson per l’abbassamento della pressione fiscale e per l’assistenza agli strati sociali più bisognosi (note come “Great society”).
Ma proprio in quel periodo la battaglia per i diritti degli afroamericani si infrangeva contro un nuovo grande ostacolo di natura politica e culturale, rispetto al quale l’uccisione di King nel 1968 rappresenta uno spartiacque simbolico: l’affermarsi di un radicalismo sovversivo espresso da gruppi come “Nation of Islam” e “Black Panthers”, dall’ambigua eredità di Malcolm X, dal liberazionismo marxista di Angela Davies. Una torsione estremista che rinnegava il “sogno” di King, quello secondo cui “i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza”, e gli afroamericani di nuova generazione “vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere”.
Quella svolta anti-liberale e destabilizzante andava a convergere col nuovo clima ideologico che nasceva negli stessi anni: un progressismo fondato sui diritti non individuali ma di “gruppi” ritenuti discriminati nel loro insieme. Era l’ideologia “diversitaria” nata nelle rivolte studentesche e giovanili, che reinterpretava la lotta di classe come guerra ai fondamenti etici delle società occidentali: predicando la liberazione sessuale, il rifiuto del produttivismo, il misticismo proto-ecologista, e soprattutto un radicale relativismo culturale che identificava tutti i gruppi etnici non occidentali in quanto tali come vittime di discriminazione e sfruttamento da risarcire, e al contempo fonte di rigenerazione per l’umanità perché portatori di valori e costumi più “innocenti”.
Il nuovo progressismo, da cui sarebbe nato il catechismo moralista in seguito noto come “politically correct”, era in realtà l’espressione dei rampolli della nuova borghesia occidentale, che lo adottavano con entusiasmo come facile via per “espiare” il “peccato” di fare parte delle società più “opulente” del mondo. E ai quali non pareva vero di “purificarsi” come paladini dei neri oppressi, dipinti non più come cittadini americani uguali agli altri, ma come categoria da preservare e proteggere in blocco, o meglio ancora come forza rivoluzionaria destinata a spazzare via il “sistema” corrotto dei bianchi. Non a caso, proprio questo ipocrita “endorsement” al nuovo estremismo afroamericano segnava la nascita dei “radical chic”, i ricchi borghesi innamorati dei sovversivi alla moda, impietosamente immortalati per la prima volta da Tom Wolfe proprio in occasione della festa che il direttore d’orchestra Leonard Bernstein diede nel suo lussuoso attico di Manhattan per sostenere le “Black Panthers”.
E’ stata proprio questa alleanza tra rivoluzionarismo nero e radical-chicchismo borghese “bianco” a rappresentare nei decenni successivi il peggior nemico di un autentico progresso civile e sociale della comunità afroamericana. Strumentalizzandone e adulandone le espressioni più ideologizzate, quella sinistra di privilegiati ha spinto larghe parti di essa ad abbracciare utopie totalizzanti e aspettative, appunto, di “risarcimento”, in luogo di soluzioni pragmatiche per la promozione del lavoro, dell’impresa, della formazione che implementassero adeguatamente l’uguaglianza civile. Mentre la parte più debole di quella comunità, abbandonata la speranza di una crescita autonoma, si lasciava risucchiare nei momenti di crisi economica dalle lusinghe della criminalità organizzata: che nel frattempo, con l’esplosione del mercato della droga, era in grado di promettere rapide e vertiginose fortune personali.
Ed è ancora questa nefasta alleanza che ritroviamo all’opera oggi, in occasione del movimento nato sull’onda dell’assassinio di Floyd. Frange velleitarie di figli di papà bianchi, esponenti radicali del partito democratico in cerca di pubblicità, i soliti divi di Hollywood pronti a tutte le battaglie politicalcorrettiste e altri esponenti delle “chattering classes” aizzano cinicamente le frustrazioni della parte più disperata della comunità afroamericana, spingendola alla violenza e condonandone le collusioni con il crimine, perché quella è la “manodopera” che serve loro per inscenare l’ennesimo episodio della loro invettiva contro l’Occidente, i suoi princìpi di libertà e responsabilità individuale, la società industrializzata, il mercato, la “American way of life”.
E così le rivolte, dalla richiesta di giustizia per le brutalità commesse da segmenti della polizia, si sono immediatamente trasformate nel solito processo alla storia occidentale tipico del “diversitarismo”: e nella condanna delle radici dell’ordinamento statunitense, espressa attraverso l’evocazione di un presunto “razzismo sistemico” radicato nel paese, ovviamente da risarcire, e parallelamente nella profanazione e l’abbattimento di statue, insegne, monumenti, e nella condanna sommaria di grandi figure storiche come “razziste”.
Ma, rispetto a quelle più volte inscenate nel recente passato dagli stessi, stucchevoli attori, le manifestazioni di queste settimane – orchestrate da sigle dell’estremismo “gruppettaro” statunitense come Black Lives Matter e Antifa, hanno assunto un piglio ancora più aggressivo perché eccitate da un fattore ulteriore: l’obiettivo di far convergere ogni protesta in un unico, grande tentativo di destabilizzazione contro il nemico numero uno di tutti i progressisti politicalcorrettisti: ovviamente, il presidente Donald Trump.
Il quale, dal canto suo, con i toni spicci da “dealer” che lo contraddistinguono ha indicato, in margine ad un suo recente discorso, la via più pragmatica e meno ideologica all’attenuazione del disagio afroamericano, e del carico di violenza perpetrata e subìta che lo contraddistingue. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva qual è il suo piano contro il razzismo, il presidente ha risposto: “Il nostro Paese è molto forte, e questo è il mio piano. Avremo la più forte economia al mondo, ci siamo quasi”.
Insomma, secondo Trump – forte dei dati molto positivi di risalita dell’occupazione a maggio dopo la crisi indotta dal Coronavirus – le tensioni tra gruppi etnici e comunità si risolvono se l’economia è in crescita, se si produce ricchezza e lavoro. Ciò che è successo, appunto, nel passato nel periodo del pieno boom economico, e poi nuovamente nella fase di prosperità degli anni Ottanta e Novanta. Ed è accaduto in altri contesti di tensioni etnico-culturali, come dimostra il caso dell’Irlanda negli ultimi decenni.
Sviluppo economico, mercato, investimenti, occupazione come arma decisiva contro il razzismo: il contrario della solita mortificante, colpevolizzante solfa ideologica dei radical chic. Che anche per questo, ovviamente, vedono The Donald come il fumo negli occhi.
di Eugenio Capozzi
Presidenziali Usa, tra negozi e chiese in fiamme vincerà la Silent Majority


The Silent Majority will speak again in November. La maggioranza silenziosa parlerà ancora in novembre, è il nuovo motto di Trump, un altro, ancora, che non sostituisce, ma affianca quello di quattro anni fa, Make America Great Again. Sì, poiché sarà la stragrande maggioranza silenziosa, quella che non grida, che non devasta le città, che lavora, che non scende in piazza, e che non ha voce (per fortuna, dovremmo dire) nel lamestream media – il discount dell’informazione- a decidere il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. Quel lamestrem media che aveva data voce a quegli economisti che avevano già profetizzato un chiliasmo a stelle e strisce, la fine del mondo in stile millenaristico negli Stati Uniti, da un punto di vista dell’occupazione, mentre i fatti, nei giorni scorsi, hanno detto che in maggio vi è stato un balzo in avanti di 2 milioni e mezzo di nuovi occupati nel mondo del lavoro. Due milioni e mezzo di posti di lavoro prima perduti, e ora tornati, grazie al massiccio intervento finanziario disposto dall’amministrazione Usa. Mera illusione sarà anche per chi, negli Usa, sta paragonando il caso di Rodney King, del 1991, pestato dalla polizia di Los Angeles, a quello di George Floyd, ucciso nelle scorse settimane, sempre da agenti della polizia, a Minneapolis. Vane parvenze di analogie, poiché i radical si auspicano che finisca come nel 1992, quando a vincere le presidenziali fu il dem Bill Clinton, dopo i disordini del maggio dello stesso anno, i quali seguirono l’assoluzione dei poliziotti coinvolti nel caso King. Però Bush padre, allora, fu sconfitto dall’ex governatore dell’Arkansas, offrendo lo spazio ad un’alternativa democratica, non tanto per via dello scenario internazionale – essendo il paese uscito appena fuori dalla guerra del Golfo – ma per aver aumentate le tasse, dopo un accordo con i democratici.
Trump, diversamente, non solo ha tagliate le tasse, nella sua riforma fiscale pre-pandemia da “virus cinese”, ma nessun accordo è stato stipulato dai repubblicani odierni con il partito dell’Asinello; come pure lo scontro “totale”, oggi in corso nelle piazze, seppur per fortuna attenuato nelle ultime ore, dalla maggioranza silenziosa è percepita come strumentale, e, soprattutto, non causato da Trump. Ma la grande differenza tra i tumulti del 1992 e quelli del 2020, e che si dimostrerà decisiva alle elezioni che si terranno fra qualche mese, è che quasi trent’anni fa i fenomeni furono circoscritti alla classe operaia, mentre ora non solo sono più estesi, ma godono anche dell’appoggio dei democratici, con l’ex presidente Obama in primis, che ha detto di “comprendere” i rivoltosi. Un abbraccio mortale, per il candidato Biden, che si presenta come un moderato, fresco della candidatura ufficiale, visto che la settimana scorsa ha superato il numero minimo dei delegati necessari per l’affermazione alla convention estiva. Mortale sarà pure l’endorsement di Colin Powell, all’ex vice di Obama, negli otto anni a Washington: di quello stesso Powell, che sotto Bush figlio, come segretario di Stato, avallò il bluff delle armi di distruzioni di massa dell’Iraq, e che, pur essendo egli repubblicano, appoggiò la candidatura di Obama dodici anni fa. Un errore, dunque, politicamente sacrificale, quello dei dem Usa, di appoggiare – o tuttavia di non ostacolare – quello che di fatto è un “terrorismo” interno, come i “riots”: un errore che non fece neanche un partito comunista autentico, come quello italiano, negli anni ’70, che isolò sempre le frange antisistema. Insomma, l’interpretazione di Trump di una sinistra americana ormai radicalizzata, ha ora i suoi risconti concreti nelle dinamiche politico-sociali quotidiane, in un sistema che sembra, sempre più, assumere la fisionomia del vecchio continente, modello XX° secolo.
Ma a vincere le elezioni presidenziali di novembre, non sarà la marca rivoluzionaria – di cui Sanders, il leader socialista sconfitto alle primarie dem, è uno dei tanti sintomi – in stile russofilo (in America c’è anche chi sta paragonando questo periodo a quello che precedette l’avvento del bolscevismo, seppur distinguendo i possibili esiti, come Gary Saul Morson), ma l’ “american dream”, ancora una volta, che ha il suo serbatoio nella Silent Majority, la maggioranza silenziosa. Il compito di Trump, pertanto, non sarà quello di buttare benzina sul fuoco, su uno scenario già incandescente, ma quello di ergersi a simbolo della maggior parte della popolazione, quella che rifiuta tutti gli estremismi. Anche i sondaggi sono chiari e mostrano che al di là dei radicalismi, minoritari, c’è una chiara maggioranza. Un sondaggio Reuters-Ipsos pubblicato martedì scorso ha rilevato che al 73% della popolazione non dispiacciono le proteste e le manifestazioni, quelle pacifiche, che hanno avuto luogo, mentre il 79% pensa che i saccheggi e gli atti vandalici minino il fondamento della giustizia. Allo stesso modo, un sondaggio di Monmouth del 2 giugno ha rilevato che il 78% ritiene che la rabbia che ha portato alle proteste era solo parzialmente giustificata. Gli americani non sopportano i negozi e le chiese in fiamme.
di Vito de Luca

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