Dies irae
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Quantus tremor est futurus, quando Iudex est venturus, cuncta stricte discussurus! (Missale Romanum, Sequenza Dies irae).
Quel giorno gli era toccato celebrare nella grandiosa cappella quattrocentesca in cui era avvenuta la sua elezione. L’altare attaccato al muro lo aveva obbligato, durante la parte sacrificale della Messa, a rimanere rivolto verso la parete di fondo, totalmente occupata dall’immenso, celeberrimo affresco dell’universale retribuzione. Il Giudice divino, mostrando la carne eternamente segnata dai Suoi patimenti, scacciava lontano da Sé, con tremendo e irrimediabile gesto, quanti li avevano disprezzati e resi infruttuosi, nei propri riguardi, con l’impenitenza finale. I demoni, ben identificabili per il mostruoso aspetto, trascinavano i dannati nel baratro del tormento senza fine, dove «saranno torturati giorno e notte per i secoli dei secoli» (Ap 20, 10). Caronte percuoteva i loro corpi risuscitati con un remo della sua barca, ma ciò non era nulla in confronto a quel che li attendeva: lo stagno di fuoco e zolfo, ovvero la seconda morte (cf. Ap 20, 14).
Visibilmente scosso, quasi contemplasse quello spettacolo per la prima volta nella vita, l’anziano pontefice non smetteva di occhieggiare in alto con l’inquietudine di uno scolaro impreparato che, da un momento all’altro, può esser chiamato alla cattedra per l’interrogazione. Rientrato in sagrestia, mentre, sempre immerso in un oscuro presentimento, si toglieva i paramenti, si rivolse d’un tratto al prelato che l’aiutava con una domanda inaspettata: «Monsignore, Lei pensa che sarà proprio così?». Colto di sorpresa, il buon curiale rifletté imbarazzato per qualche secondo; poi – per un colpo di genio o per un’illuminazione celeste – replicò candidamente: «Per qualcuno sarà meglio, per qualcun altro peggio!». Il suo augusto interlocutore non parve pago di tale risposta, ma si allontanò ancor più imbronciato, come chi non riesca a scacciare un orribile presagio.
«Quanto grande sarà il tremore quando il Giudice sarà alle porte, pronto a vagliare tutto con stretta misura!», recita il Dies irae, capolavoro della poesia liturgica attribuito a Tommaso da Celano. Non risulta che il nostro eroe sia a suo agio con il latino; ciononostante un’attenta e assidua meditazione di quel testo, possibilmente in una traduzione non troppo edulcorata, gli sarebbe di grande utilità. Qualora il tenore meramente verbale non lo impressionasse abbastanza, potrebbe rileggerlo proprio nella Cappella Sistina, magari con il sottofondo della straordinaria musica di Giuseppe Verdi. Certe emozioni, a volte, fanno più effetto di un quaresimale o di un trattato, specie su chi per la teologia non ha gran propensione. Quanti son giunti a una certa età, statisticamente parlando, son più vicini di altri a quel temibile incontro, che sarà, a seconda dei casi, gioioso o spaventoso: Rex tremendae maiestatis… Chi meglio di Michelangelo ha saputo visualizzarlo?
L’interrogativo che sorge spontaneo, all’udire il racconto di tale episodio, concerne le credenze del succitato: conosce davvero la dottrina cattolica, aderendovi intimamente nella coscienza? Sotto la scorza della “rilettura” rahneriana della fede, che ne rappresenta in realtà un radicale svuotamento, sembrerebbe persistere una religiosità piuttosto puerile, un po’ superstiziosa, perciò ancora attaccata a vecchie abitudini e convenzioni, nonostante l’impianto ideologico di stampo rivoluzionario; le convinzioni intellettuali – si sa – raramente giungono a scalfire il nucleo profondo dei dati acquisiti nella prima infanzia. D’altra parte, per conquistare e mantenere il potere (unico vero obiettivo del Nostro), bisogna far mostra di accettare il pensiero dominante, proprio quello che è stato imposto a tutto il suo Ordine in nome dell’obbedienza. Così si spiega l’aria infastidita con cui, il 4 ottobre scorso, ha simulato un segno di croce sull’idolo davanti al quale, nei giardini di casa sua, prelati e religiosi s’eran prostrati col deretano all’insù.
In ogni caso, il giorno del redde rationem s’avvicina a grandi passi – e non ci sarà rilettura teologica che tenga… Nell’istante in cui l’anima abbandona il corpo si compie il giudizio particolare, nel quale essa, uscita dal tempo, rivede in un solo colpo d’occhio tutta l’esistenza terrena nella piena luce della verità. Quantus tremor… Il giudizio universale manifesterà pubblicamente, alla fine dei tempi, quello che sarà stato emesso singolarmente al momento della morte di ognuno. Ovviamente queste considerazioni devono anzitutto spingere ciascuno di noi a pensare ai propri peccati, più che a quelli degli altri, e a disporre tutti i mezzi utili per arrivare al grande passaggio in stato di grazia. Un’eccessiva concentrazione sulle carenze della gerarchia (per quanto – ahimè – reali) costituisce una sottile insidia del demonio, una pericolosa distrazione dalla cura dell’anima propria. A nessuno sfugge, tuttavia, fino a che punto i peccati dei Pastori possano influire sulla fede e sulla vita delle loro pecorelle, già esposte a molteplici inganni.
Considerato quel che aspetta le cattive guide, la fede, la speranza e la carità ci sollecitano a pregare per la loro conversione, unendo alla supplica accorati appelli perché ascoltino la voce del popolo, tanto esaltato a parole. A cominciare dal vertice, il salutare pensiero del Giudizio deve provocare un deciso cambio di rotta: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna» (Mt 10, 28), «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Mc 9, 48). Gli uomini ai quali obbedite faranno la vostra stessa fine, se non si ravvedono insieme con voi: «Guai alle genti che insorgono contro il mio popolo! Il Signore onnipotente li punirà nel giorno del giudizio immettendo fuoco e vermi nelle loro carni; piangeranno nel tormento per sempre» (Gdt 16, 17) e «saranno un abominio per tutti» (Is 66, 24).
Abiurate le tranquillizzanti quanto esiziali menzogne della demitizzazione bultmanniana e rigettate una volta per tutte le pedanti disquisizioni dell’esegesi razionalistica, responsabile dell’annullamento di Scrittura e Tradizione quali canali della Rivelazione. Sapete bene che la seconda è il grembo da cui è stata partorita la prima, la quale non può esser correttamente interpretata e compresa se non alla sua luce e nell’alveo del Magistero perenne. A che vi serviranno le vostre sottigliezze farisaiche al cospetto del Giudice? Dove scapperete quel giorno? In quale nascondiglio vi rifugerete? «Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!” e ai colli: “Copriteci!”. Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?» (Lc 23, 30-31). Le sofferenze che il Salvatore ha patito per voi sono forse un genere letterario? E i Santi facevan penitenza perché non avevan capito nulla, ignari com’erano della vostra nuova teologia?
Voi siete vittima di un terribile equivoco: non c’è alcuna nuova Pentecoste prima della Parusia; non esiste un’età dello Spirito da contrapporre a quella del Padre (l’epoca dell’Antico Testamento) e a quella del Figlio (l’epoca della Chiesa Cattolica). La dottrina di Gioacchino da Fiore fu condannata come eresia, già nel 1215, dal Concilio Lateranense IV. San Bonaventura, Dottore della Chiesa, da generale dell’Ordine punì severamente i membri che si ostinavano a seguirla, come gli aderenti al movimento dei fraticelli. Il Concilio Vaticano II non ha rappresentato affatto un nuovo inizio, ma l’inizio della fine: la realtà storica lo dimostra ormai inequivocabilmente. Abbandonate finalmente la vostra illusoria dialettica hegeliana (con cui giustificate tutto e il contrario di tutto) e assumete di nuovo il principio di realtà. Non basta colorare i problemi di belle parole per farli apparire come opportunità: così facendo, avete perso ogni credibilità e nessuno più vi ascolta. Abbiate dunque un sussulto di dignità, per la gloria di Dio nonché per la salvezza vostra e delle anime.
Pubblicato da Elia
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