I limiti umani di Papa Francesco: l’incapacità di dialogare, la chiusura comunicativa e la paura del confronto
Il dialogo non è un monologo. Il dialogo è un confronto aperto, fatto di domande legittimamente poste e risposte cortesemente fornite. Se domandare era lecito e rispondere era cortesia, oggi c’è una nuova regola. Domandare non è più lecito, per il semplice fatto che non vi è la volontà di dialogare, da parte dell’interlocutore. Con rammarico constatiamo che, comunicativamente parlando, siamo giunti al punto di non ritorno. A nostro avviso, il Papa è nel diritto di potersi sottrarre alle domande fino ad un certo punto.
Se c’è un tempo per esprimere il diritto di diniego, il cardinale che si sta apprestando a diventare il Vescovo di Roma come successore di San Pietro, ovvero il Vicario di Cristo, cioè il Papa, ovvero il Capo supremo della Chiesa universale, può esercitare tale diritto, rifiutando il ruolo di Pontifex Maximus. In quel momento ha il diritto di sottrarsi al ruolo e al confronto che tale ruolo prevede. Da quel momento in poi quell’uomo è il Papa. E a parer nostro, un Pontefice Massimo, non può e non deve sottrarsi mai a nessuna domanda, tantomeno attraverso filtri, artefizi, raggiri o censure.
Se Papa Francesco pretende che un cattolico “deve” occuparsi di politica, i cattolici pretendono che Papa Francesco “deve” rispondere alle domande dei giornalisti accreditati, sui temi politici, poiché quei giornalisti, in quel momento, rappresentano la voce del Popolo di Dio.
Perché consentire ai giornalisti di fare parte del Volo Papale e poi comportarsi come se gli stessi debbano stare “zitti e buoni”, composti e seduti in silenzio su un Volo Papale, senza nemmeno poter fare una domanda? “Zitti e buoni”, senza poter esercitare il loro diritto/dovere di essere cronisti accreditati, al seguito di un pontefice in un Viaggio Apostolico.
La vita è sempre una questione di scelte. La vita è sempre una conseguenza delle nostre scelte. Papa Francesco ha scelto di sottrarsi ad una buona parte delle domande preparate dai giornalisti ammessi al Volo Papale, durante il viaggio di ritorno dall’Iraq. Papa Francesco ha scelto di cancellare il loro diritto/dovere di fare cronaca e porre legittimi quesiti a un Capo di Stato. Papa Francesco ha operato questa scelta e, a nostro avviso, è un fatto grave.
Attraverso i giornalisti e altri professionisti di settore, come la Dott.ssa Valentina Villano, giovane psicologa clinica [Dovete costruire il mondo e non solo sognarlo. Lo Sdegno e il Coraggio, due bellissimi figli della Speranza – 9 marzo 2021], il Popolo di Dio, che pone domande, dovrebbe ricevere risposte. Ma se queste ultime non giungono, il Popolo di Dio dovrà considerare, come unica risposta, l’indifferenza di un Pontefice Massimo, che non ha ben compreso, che non potrà sottrarsi all’infinito alle proprie responsabilità.
Sul tema riportiamo di seguito un articolo, apparso ieri su Il Sismografo, l’aggregatore para-vaticano, che certamente non è un sito anti-bergogliano, che mette il dito nella piaga: il Papa non vuole rispondere a “certe” domande. Certamente, il Papa considera questo un suo diritto, come osserva Il Sismografo, perché lui è il monarca assoluto dello Stato della Città del Vaticano, che detiene tutti e quattro i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario e mediatico). Ma il Popolo di Dio ha il diritto di porre domande, ha il diritto di avere risposte e non intende rinunciare a questo diritto.
Le 8 domande a cui Papa Francesco ha voluto rispondere, erano tutte esclusivamente in riferimento al tema del Viaggio Apostolico in Iraq (anche se pure su questo tema mancavano diverse domande, per esempio su un argomento che abbiamo trattato qui: Gli ebrei e Gesù assenti dall’evento “abramitico” del Papa a Ur. Assente pure i yazidi – 10 marzo 2021).
Una cosa inaudita, irrituale, mai successo – che un Papa si è sottratto a rispondere a delle domande (anzi non ha neanche voluto sentire una serie di domande preparate) – in un “Incontro del Papa con i giornalisti ammessi al Volo Papale” (questa è la dicitura storica esatta – e so di cosa parlo, perché ne sono l’autore), perché chiamare questi momenti diventati “tradizione” nei Volo Papali impropriamente delle “Conferenze stampa”, è fuorviante.
Conferenza stampa del Papa rientrando dall’Iraq. Sono mancate alcune risposte perché non è stato possibile fare certe domande
(L.B. – R.D., a cura “Il sismografo”, 10 marzo 2021) – Lunedì scorso, dopo 15 mesi, Papa Francesco, al termine di un suo Pellegrinaggio apostolico In Iraq, bello, pieno di significati, gesti e insegnamenti molto attuali e pressanti, ha incontrato 75 giornalisti arruolati per dare copertura mediatica mondiale a questo rilevante evento che apparì promettente già da quando s. Giovanni Paolo II lanciò nel 2000 il suo progetto: essere il primo Vescovo di Roma a mettere piede nella terra del Padre comune Abramo, fondamento storico delle religioni definite monoteiste abramitiche. Dopo 21 anni, Papa Francesco ha realizzato il desiderio di Papa Wojtyla e con i giornalisti, sull’aereo che lo stava riportando in Italia, ne ha parlato a lungo, 45 minuti (Video Vatican News – Youtube). Il Papa, dopo una breve introduzione, ha risposto a otto domande, tutte incentrate sul viaggio appena compiuto. [1]
A un certo punto, Matteo Bruni, Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha detto testualmente: “L’ultima (domanda) è di Catherine Laurence Marciano, AFP”. Poi, dopo la sua ottava risposta il Santo Padre ha concluso così: “Vi auguro buona fine viaggio e vi chiedo di pregare per me che ne ho bisogno! Grazie!” (Trascrizione integrale ufficiale della conferenza)
Dunque, i moltissimi temi sui quali il Papa non ha dato nessuna risposta o non ha fatto nessuna riflessione, come per esempio i casi dei cardinali Becciu e Comastri, di fr. Enzo Bianchi, sulla Costituzione apostolica nuova in preparazione da oltre cinque anni, sulle ultime riforme annunciate con Motu proprio, ecc. non è stata – come dicono in molti – una mancanza di fantasia o di curiosità oppure disinteresse da parte dei giornalisti presenti sull’aereo. I cinque gruppi linguistici avevano preparato e consegnato le loro 10 domande, due per gruppo, e si sono sentiti dire: il primo giro delle domande deve riguardare soltanto quelle sul viaggio e poi nel secondo giro si possono fare le altre domande. Queste “altre” toccavano questioni come Biden e il Vaticano, la vicenda Becciu, il pasticcio della Fabbrica di San Pietro e la situazione del cardinale Comastri, il lungo congelamento del Prefetto Ganswein, la Costituzione apostolica nuova e il Consiglio di cardinali, ecc.
Perché il Papa ha chiuso la conferenza stampa con l’ottava risposta, lasciando fuori molte importanti questioni sulle quali le gerarchie cattoliche e i cattolici in generale desiderano chiarimenti e trasparenza?
Semplicemente perché il Papa ha voluto rispondere solo a certe domande. È un suo diritto così come è un diritto dei cattolici conoscere sempre la verità sulla loro Chiesa, verità che aiuta a mettere fine al chiacchiericcio che ultimamente ha raggiunto livelli inediti e insidiosi.
* * *
[1] Incontro con i giornalisti
Breve introduzione del Papa
Domande di:
1. Imad Abdul Karim Atrach (Sky News Arabia)
2. Johannes Claus Neudecker (agenzia di stampa tedesca Dpa)
3. Eva Maria Fernández Huescar (Cadena Cope 31H)
4. Aaron Patrick Harlan (The Washington Post)
5. Philippine de Saint Pierre (M.C. KTO)
6. Stefania Falasca (Avvenire)
7. Sylwia Wysocka (PAP – Polska Agencja Prasowa)
8. Catherine Laurence Marciano (AFP)
Perché il papa in Iraq ha ignorato il rischio Covid? I dubbi dell’inviato del “Washington Post”
Sotto quasi ogni aspetto, scrive Chico Harlan, il viaggio di papa Francesco in Iraq è stato stupefacente. È andato in un paese che nessun papa aveva mai visitato prima, in un momento in cui pochi altri personaggi mondiali viaggiano. Ha pregato proprio nel luogo in cui, meno di sette anni fa, il leader dello Stato islamico aveva proclamato un califfato che avrebbe conquistato Roma. Le folle lo hanno adorato. Ma il punto è proprio questo: quasi ovunque andasse Francesco, c’erano folle. Grandi folle di persone non vaccinate, spalla a spalla. Alla messa all’aperto di Francesco a Erbil ha partecipato una folla quasi da Super Bowl, ma in uno stadio molto più piccolo di quello che ospita la finale del campionato americano di football, e pochissime persone indossavano la mascherina. La cosa più sorprendente è stata una messa al chiuso a Baghdad, in una chiesa gremita di gente che cantava, quasi senza ventilazione. Scrive Harlan: “Sembrava di stare in un reattore nucleare per la produzione di coronavirus”.
Prima del viaggio, ricorda l’inviato del Washington Post, il Vaticano ha offerto a tutti i giornalisti del seguito papale (più di settanta), due dosi del vaccino Pfizer-BioNTech. “All’inizio, mi è sembrato un regalo, da parte di uno dei pochissimi Stati che hanno un’abbondanza di vaccini. Ma quando il viaggio è iniziato, ho capito: eravamo stati vaccinati perché stavamo per abbandonare molte delle regole sulla pandemia”.
In Iraq, continua il giornalista, “abbiamo lavorato in mezzo alle folle, abbiamo viaggiato stretti in un pullmino, abbiano fatto sei viaggi in aereo in settantadue ore, abbiamo mangiato pasti preconfezionati in contenitori di plastica. In un hotel ci siamo accalcati per una cena a buffet, sono stato in ascensore con tre o quattro persone”. Ora dopo ora, la guardia si è abbassata e siamo tornati ai comportamenti pre-Covid: “Solo una cosa mi teneva tranquillo: il vaccino. Ecco perché i miei pensieri continuavano a tornare alle persone che non avevano la nostra stessa protezione, come i cattolici stipati per la messa a Baghdad. Mi chiedevo: chi in mezzo a queste folle si ammalerà entro un paio di giorni? Anche una messa può portare alla morte?”
Durante il viaggio di ritorno verso Roma Chico Harlan ha potuto chiedere direttamente al papa come avesse soppesato i rischi del viaggio e se fosse preoccupato per la salute di quelli che si erano radunati per vederlo. La risposta è stata che aveva pensato profondamente al viaggio, aveva pregato e preso la decisione conoscendo i rischi e nella convinzione che Dio si prenderà cura degli iracheni che potrebbero essere stati esposti al virus.
Harlan, tuttavia, non nasconde il suo disagio. Il papa, vaccinato, è andato, con i suoi collaboratori e i giornalisti (tutti vaccinati) in mezzo a folle a rischio. In Vaticano nulla di simile sarebbe mai stato consentito. Se si considera che in Iraq si fanno pochissimi tamponi e si registrano migliaia di nuovi casi al giorno, con la presenza di numerose varianti, mentre una campagna vaccinale è solo ai primi passi, ciò che ha provato il giornalista è comprensibile. Il papa che ha sempre raccomandato di rispettare le regole anti-Covid e si è vaccinato fra i primi dicendo che è un dovere etico, ha di fatto esposto al rischio moltissima gente.
Nell’ultimo giorno del viaggio, scrive Harlan, finché siamo rimasti a Bagdad era come se il coronavirus non esistesse più, tanto che abbiamo fatto la solita colazione a buffet senza distanziamento sociale. Poi però, una volta tornati a Roma, la realtà è tornata. Il giornalista racconta che sul taxi ha indossato una mascherina FFP2 e poi anziché tornare a casa, in famiglia, si è recato in un bad and breakfast per una quarantena volontaria. Con il pensiero sempre rivolto alle folle dell’Iraq.
Fonte: Washington Post
Perché il papa in Iraq sugli ebrei ha dovuto tacere
Nella foto scattata nella piana di Ur la mattina del 6 marzo, accanto a papa Francesco si scorgono musulmani ed esponenti di altre religioni, ma non ebrei. E neppure avrebbero potuto esserci, anche perché il giorno prescelto – intenzionalmente? – per quel grande incontro tra “i figli di Abramo” era Shabbat, un sabato.
Le rovine di quella che viene chiamata la Casa di Abramo erano lì a pochi passi, ma nessuno dei partecipanti all’incontro ha dedicato una parola a quel popolo d’Israele che di Abramo fu il primogenito e che nella terra dei due fiumi ha abitato per secoli. Solo il papa, nel discorso e poi nella preghiera, come anche con le autorità politiche a Baghdad, ha fatto un cenno fuggevole a un “noi” che affratellava ebraismo, cristianesimo e islam. Salvo poi correggersi, nel discorso di bilancio del viaggio, il 10 marzo a Roma, e riconoscere che a Ur c’erano solo cristiani e musulmani.
Gli ebrei sono stati il tabù dell’intero viaggio di papa Francesco in Iraq. Una rimozione tanto più impressionante in quanto quel viaggio era stato concepito fin dalle origini, con Giovanni Paolo II, proprio come un ritorno geografico e spirituale alla fonte comune delle tre religioni monoteiste, tutte e tre con padre Abramo.
La censura antiebraica ha fatto ancor più colpo sullo sfondo di quegli “accordi di Abramo” che in questi ultimi tempi hanno visto alcuni paesi arabi sunniti, dagli Emirati al Marocco, far pace con Israele. A questi accordi, l’Iraq e più ancora il confinante Iran sono fortemente ostili, per ragioni geopolitiche ma primariamente religiose – perché entrambi a dominante islamica sciita –, e ciò fa capire come i diplomatici vaticani e lo stesso pontefice si siano piegati al loro volere anche per garantire la sicurezza del viaggio, durante il quale in effetti le milizie sciite d’obbedienza iraniana hanno osservato una tregua.
Il paradosso del viaggio di Francesco in Iraq è che, tacendo sugli ebrei, il papa ha fatto di tutto per preservare i cristiani proprio da quella totale espulsione dalla terra dei due fiumi che per la comunità ebraica si è già compiuta.
Negli ultimi vent’anni i cristiani in Iraq sono drammaticamente diminuiti. Da un milione e mezzo sono calati a 200-300 mila, presi come sono stati tra due fuochi, dalle milizie sciite da un lato e dall’altro dallo Stato islamico sunnita, che per tre anni, dal 2014 al 2017, ha invaso e devastato uno dei loro luoghi storici d’insediamento, la piana di Ninive.
Ma per gli ebrei dell’Iraq non si può parlare di calo, ma di scomparsa. Ne sono rimasti talmente pochi – ha notato Seth J. Frantzman sul “Jerusalem Post” del 7 marzo – che a Baghdad già dal 2008 non ci sono più nemmeno quei dieci maschi adulti che consentono la rituale preghiera comune.
Eppure è una grande storia, quella dell’ebraismo nella terra dei due fiumi. Ha scritto Vittorio Robiati Bendaud, allievo di Giuseppe Laras, rabbino di grande autorevolezza in Italia e in Europa, in un commento su “Formiche” al viaggio del papa in Iraq:
“Quando si parla di Baghdad, del bacino del Tigri e dell’Eufrate, nessun ebreo che abbia coscienza della sua storia, della sua religione e della sua cultura può sentirsi estraneo. L’ebraismo attuale si è plasmato anche in quella terra, e il Talmud ebbe la sua stesura e redazione più estesa e completa nelle antiche accademie rabbiniche di Bavèl, Babilonia. Successivamente fu lì che nacque, in lingua araba, il pensiero ebraico post-talmudico. Fu sempre lì che si fissò il vigente rituale di preghiera. Lì si depositò e organizzò la normativa rabbinica e lì si modulò, a contatto diretto con l’Islam, la mistica ebraica, pur essendo gli ebrei assoggettati a uno statuto di subalternità, non diversamente dai cristiani”.
L’eredità della lingua aramaica, l’antica lingua parlata dagli ebrei in Giudea e Galilea ai tempi di Gesù, era condivisa – e lo è tuttora – anche da molti cristiani iracheni.
Poi però vennero gli anni della tragedia, per gli uni come per altri. Nel 1915 un genocidio coevo a quello degli armeni sterminò circa 800 mila cristiani assiri. E nel 1941 un pogrom fece quasi 200 morti e migliaia di feriti tra gli ebrei. Pochi anni dopo, la nascita dello Stato d’Israele segnò la fine: non ci fu più posto per gli ebrei in Iraq. Curiosamente, per vari decenni la guida sefardita del Rabbinato centrale di Israele è stata detenuta proprio da rabbini emigrati a Gerusalemme da Baghdad.
La visita del papa e in particolare l’incontro interreligioso a Ur, la città d’origine di Abramo, avrebbe potuto ridare visibilità e voce a qualche esponente della minima presenza ebraica in Iraq. Ma così non è stato, per volere delle autorità di Baghdad e dietro di loro di Teheran, a cui Francesco ha dovuto ubbidire.
Anche nella tappa a Mosul e nella piana di Ninive, dove in passato viveva una comunità ebraica fiorente e dove vi sono le rovine di numerose sinagoghe e della tomba del profeta Giona, distrutta dall’ISIS, tutto ciò è passato sotto silenzio.
L'auspicio di molti è che almeno per i cristiani che ancora vivono in Iraq la pari dignità e i pieni diritti invocati dal papa e assicurati dal grande ayatollah sciita Al-Sistani – autorevole e inflessibile antagonista dell’islamismo teocratico iraniano – possa incoraggiarli a restare. A differenza di quanto è accaduto per i loro fratelli ebrei, figli primogeniti di Abramo.
Un segno di speranza può essere la tomba del profeta biblico Naum, ad Al-Qosh presso Mosul, recentemente restaurata e meta di pellegrinaggio non solo per gli ebrei di ieri e forse di domani, ma già oggi per cristiani e musulmani.
Intanto, da Gerusalemme, il rabbino israeliano David Rosen, figura di spicco nel dialogo con la Chiesa cattolica, ha detto ad “Asia News”:
“Questa visita di papa Francesco si ricollega alla Dichiarazione sulla fratellanza firmata ad Abu Dhabi due anni fa: è un gesto che spero porti frutti. Dalla mia prospettiva, però, mi auguro anche che questo percorso si espanda ulteriormente, perché al momento resta ancora un’iniziativa solo tra cristiani e musulmani. Sono contento che ora coinvolga tutto il mondo islamico. Ma sarebbe altrettanto importante che questo riconoscimento di fratellanza includesse anche una rappresentanza ufficiale dell’ebraismo. E questo non solo per il legame profondo che esiste con il cristianesimo, ma anche per quanto significherebbe per l’islam. Fino a quando non ci si arriverà la Dichiarazione sulla fratellanza resterà esposta al rischio di essere male interpretata”.
Settimo Cielo
di Sandro Magister
12 mar
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