Sulla paura, eterno mezzo di manipolazione
La frase è ampollosa, ma dietro la genericità della proposta nasconde una intenzione politica. Coloro che intendono approfittare di un’occasione come quella dell’attuale attacco virale mondiale possono orientare il corso delle cose nel senso che a loro conviene, ottenendo la sottomissione delle masse attraverso mezzi psicologici piuttosto che attraverso l’uso della sola forza. In questa visione, che possiamo chiamare di economia, è del tutto naturale che l’utilizzo della paura sia un ingrediente privilegiato della fabbrica del consenso, dalla propaganda di guerra fino alla “comunicazione sociale” [2]. Si tratterà quindi di alternare seduzione e minaccia, promesse di protezione e annuncio delle peggiori calamità in funzione dell’accettazione o del rifiuto delle costrizioni imposte.
Tra le numerose – e diversificate – analisi di manipolazioni che si sono moltiplicate dopo l’irruzione dell’ultimo coronavirus, un documentario belga [3] fornisce l’estratto da una conferenza di un importante virologo, belga lui stesso, Marc Van Ranst, nel 2019, al Royal Institute of International Affairs, a Londra. Quest’altro consigliere del principe spiega con compiacenza come egli si fosse già mosso, dieci anni prima, per provocare una reazione di massa a favore della vaccinazione contro il virus HIB1. Prima di tutto aveva preso contatto con dei giornalisti per essere considerato come “l’esperto insostituibile” e sempre disponibile; in seguito fece in modo che si ripetesse con insistenza un messaggio allarmista sul tema: il vaccino o la morte [4], e contò su di essi affinché lo diffondessero con la drammatizzazione adatta. La paura viene quindi utilizzata non tanto per rompere le resistenze, quanto piuttosto per ottenere l’accettazione volontaria di ogni tipo di costrizione, comprese quelle che vengono declassate per essere sostituite da altre altrettanto imperative. Che i processi possano servire a soddisfare interessi particolari o progetti di dominio sotto la copertura dell’esperienza, oppure che si tratti semplicemente di casi di fortuna propri di una società di massa sensibile alle emozioni più che alle argomentazioni elaborate… i fatti comunque rimangono questi.
La strumentalizzazione della paura è stata oggetto di studi scientifici, alla pari di altri elementi che rientrano nel campo della psicologia di massa. Serge Tchakhotine, discepolo di Pavlov, stima, nella sua principale opera Le viol des foules par la propagande politique, rieditato una prima volta nel 1952 (Gallimard), e adatto alla situazione del mondo di allora, che “si vive su due elementi fondamentali aventi la stessa origine: la paura, la Grande Paura Universale. Da un lato c’è la paura della guerra […] la paura della bomba atomica; dall’altro la paura che è alla base dei metodi attuali di governo: lo stupro psichico delle masse”. Subito dopo, Tchakhotine precisa: “Oggi, lo stupro psichico delle masse è sul punto di divenire un’arma di estrema potenza e terribilmente pericolosa. Le scoperte scientifiche recenti alimentano questo pericolo in una misura finora sconosciuta. È la televisione che minaccia di diventare un veicolo terribile dello stupro psichico” [5].
Cosa direbbe oggi questo autore, dopo settant’anni di sviluppo esponenziale dell’universo della comunicazione? Perché se c’è tra quel periodo di inizio della guerra fredda e il nostro una certa continuità, al di là dei cambiamenti parziali degli attori, certi dati sono tuttavia fortemente cambiati. Da una parte, i mezzi tecnici hanno fatto un salto qualitativo evidente, che promette di respingere a breve scadenza ogni limite alla integrazione tra uomo e macchina; dall’altra, e simultaneamente, le forze economiche e ideologiche che tendono alla unificazione del mondo sotto un’unica “governance” sono più audaci che mai, e trovano nella malattia universale del Covid una eccezionale occasione per assicurare un grande balzo in avanti, più plausibile di quello che aveva sognato Mao. Infine, gli studi applicati si sono moltiplicati nel campo della psicologia sociale, disciplina che si definisce non come una ricerca teorica ma come una “ricerca-azione”, una scienza sperimentale applicata che serve da modello d’azione per tutti gli agenti dei cambiamenti funzionali all’espansione del capitalismo o di qualsiasi altro sistema di dominio sugli individui.
È sufficiente percorrere gli innumerevoli lavori in questo ambito, orientati principalmente a rivolvere i problemi di performance nell’impresa, ma anche aperti su vasti campi di ricerca, comprese le sette, il lavaggio del cervello ai tempi della guerra di Corea, l’esperimento di Milgram di misurazione della sottomissione degli individui ecc., per constatare la grande attenzione riservata all’utilità sociale della paura. Un professore americano, Robert S. Baron, specialista riconosciuto nella materia, sostiene per esempio che la paura fa parte delle “emozioni eccitanti che tendono a diminuire lo sforzo che la gente dispiega per esaminare un contenuto persuasivo”. Comprendere: la paura obnubila il giudizio, il che permette di indebolire o annullare il senso critico, e quindi far passare le idee, o far accettare i comportamenti che si cerca di imporre. Sulla stessa linea, l’ansietà, questa forma indifferenziata dalla paura, è analizzata per verificare il suo ruolo nell’acquiescenza e nel conformismo di gruppo.
Tra le critiche, numerose anche se minoritarie, dirette contro l’attuale gestione della paura da Covid, il giornalista e saggista italiano Aldo Maria Valli ha pubblicato recentemente un piccolo libro intitolato Virus e Leviatano, ove vengono esaminati vari aspetti delle politiche attuali. Le sue parole sono incisive: “La narrazione funzionale al dispotismo terapeutico si concentra sulla paura della malattia. Più ha paura di perdere la salute, più la pubblica opinione è disposta a trasformarsi in una immensa sala di ospedale, ove l’autocrate svolge il ruolo di prete-medico officiante il rito necessario alla guarigione”. “Durante le settimane di confinamento, abbiamo visto che ciò che importa non è tanto l’ampiezza reale del pericolo, ma l’ampiezza percepita”. “Aldous Huxley, nella prefazione dell’edizione del 1946 di Brave New World, scrisse che ‘la rivoluzione veramente rivoluzionaria non si farà nel mondo esteriore, ma nell’anima e nella carne degli esseri umani’” [6].
Tutto questo è profondamente vero. In effetti, se Le viol del foules è soprattutto inteso come un’opera di asservimento dei popoli da parte di una minoranza decisa a sottometterli al proprio dominio, tutto ciò è nello stesso tempo il risultato, passata la sorpresa, della mancanza di reazione di queste vittime, quando non addirittura della loro acquiescenza e collaborazione. “I capitalisti ci venderanno le corde con cui li impiccheremo”. Questa affermazione attribuita a Lenin circola in forme varie, ma essa può servire molto bene ad illustrare la situazione che qui ci interessa. Il problema della paura come strumento di manipolazione delle masse sta prima di tutto nell’esistenza stessa delle masse, che facilita e richiama la manipolazione.
Una comunità strutturata, di qualunque importanza sia, non è certo al riparo dall’errore collettivo, dalla caduta, per esempio sotto il fascino dei discorsi ingannevoli. Ma quanto in questi casi altro non è che un accidente, diventa un pericolo costante in una massa di individui che si presumono liberi, ma dove invece le condotte sono gregarie ed emotive, pronti ad accogliere le voci diffuse, disabituati tanto a comprendere una situazione quanto ad immaginare una risposta coerente – l’episodio dei Gilet Gialli l’ha ben dimostrato. Va ricordato che i media sono per definizione degli intermediari della comunicazione. Senza di essi, la conoscenza della realtà rimane possibile, ma corre il rischio delle situazioni individuali, del lavoro di ricerca (a volte fastidioso), della verifica caso per caso della attendibilità dei dati, i quali transitano attraverso gli organismi che costituiscono le strutture più adeguata al viol des foules. La stessa modalità di funzionamento di questi intermediari non permette ai loro stessi agenti di avere il tempo per riflettere su quanto dovrebbero trasmettere, e incita alla manipolazione dei montaggi in forma di narrazioni, che non sono più delle informazioni ma degli scenari ricostruiti a partire dalla selezione di elementi tratti da un flusso, tanto aleatori da venire orientati in funzione di pregiudizi ideologici, o di obbligato rispetto di una linea predefinita da chi detiene il potere interno. Siccome i grandi media dipendono direttamente da interessi finanziari e politici, se la paura da suscitare è nell’agenda di questi ultimi non ci si deve stupire che essa costituisca la tela di fondo del discorso trasmesso. Inoltre, l’agitazione permanente e l’inflazione sensazionalista caratterizzano lo stile proprio dei media di massa, che funzionano in questo caso come moltiplicatori istituzionali della paura.
Quando si affronta il tema della manipolazione delle masse, si è indotti a concentrarsi sulla potenza dei mezzi utilizzati e sull’azione dei manipolatori verso i manipolati. Se fosse solo così, non si tratterebbe che di “modernizzare” lo studio della tirannia, per concentrare l’attenzione sui responsabili del viol de foules, riconosciuto o nascosto, sui canali che assicurano una grande capacità di dominio, sul loro metodo e sulla loro retorica. Ma questo significherebbe dimenticare che gli stessi destinatari sono di fatto i primi complici. Complici passivi, ma pur sempre complici.
Una società in cui l’autonomia personale – che dovrebbe basarsi sull’uso della ragione, sull’onestà e sull’esercizio della virtù della prudenza – è ridotta all’illusione della libertà, cade facilmente nell’angoscia quando i suoi membri si ergono tutti a giudici nel definire una condotta pratica. In qualche modo, l’uomo-massa sceglie da dentro un malessere che nasce dall’impossibilità di troncare la sottomissione. In questo senso si può capire che egli provi un bisogno di paura. Un confronto – alla lontana – si può fare con la situazione che ha fatto nascere la “pastorale della paura”, così come l’aveva analizzata, non senza apriorismi, Jean Delumeau [7] con riferimento a una predicazione che insisteva sui fini ultimi nei periodi critici della fine del Medioevo fino a quelli del XVIII secolo. Guillaume Cuchet, sociologo della religione che ha dedicato il proprio lavoro a questo argomento, ci dà il seguente commento: “In questo contesto generale molto buio, senza parlare delle condizioni ordinarie della vita quotidiana e in particolare della mortalità, la ‘pastorale della paura’ è stata paradossalmente di volta in volta utile, perché essa compensava una angoscia diffusa, conseguenza di tensioni accumulate, con una serie di paure teologiche ben definite, segmentate e davanti alle quali si poteva fare qualcosa. Contro la paura della morte, non si poteva fare grandi cose, ma contro il diavolo, il peccato, l’inferno, con l’aiuto della Chiesa, non si rimaneva impotenti. Da questo punto di vista, la “pastorale della paura” si presentava come una “medicina eroica” […] là dove altrimenti non si sarebbe avuto che il vuoto, gli spiriti erranti e la morte” [8]. Senza discutere qui lo sfondo storico di questa valutazione, ma considerando solamente l’analogia degli atteggiamenti psicologici osservati, la “paura della libertà” (ossia, per Erich Fromm, autore della formula, la paura della responsabilità) e la paura irrazionale che si constata oggi si incontrano, allo stesso modo che la doxa dice di liberare gli spiriti dalle limitazioni della morale cristiana.
Va anche notata nella cultura contemporanea l’esistenza di alcune impasse più specifiche. Giulio Meiattini, monaco benedettino e teologo italiano [9], ne ha rilevata una quando il confinamento era appena cominciato, in un testo intitolato La peur qui tue et le courage qui manque (La paura che uccide e il coraggio che manca) [10]. Egli metteva in evidenza che se l’impreparazione politica all’arrivo di un virus distruttivo era evidente, l’impreparazione morale lo era anche di più. Tra le ragioni immediate, la società occidentale e occidentalizzata, è stata colpita da una inversione di valori tra corpo e anima, a esclusivo beneficio del primo. La carta dell’Oms afferma che “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solamente in una assenza di malattia o di infermità”. Lungo gli anni questo principio è diventato un imperativo, lo scopo della vita su questa terra si riduce al possesso di un corpo ideale sempre più ricercato. Si dovrebbe rileggere a questo proposito l’opera molto significativa, e critica di questa sproporzionata promozione del corpo, di Lucien Sfez, La santé parfaite. Critique d’une nouvelle utopie [11].Narcisismo di massa? Può essere, ma ancora meglio perdita delle aspirazioni collettive superiori e vuoto di ogni prospettiva futura. Quale causa merita ancora che si dia la vita per essa? Cosa si pensa del sacrificio dei martiri? Ci sono questioni diventate inaccessibili alla maggior parte delle masse odierne e oggetto di derisione da parte dei dotti. “Questo significa che non abbiamo più avvenire – la gloria immortale presso la posterità, o l’unità dalle patria, o una società di eguali, il progresso, il cielo e la vita eterna. La nostra cultura non ha che il presente, ciò che appare adesso, l’effimero. Noi desideriamo disperatamente di conservarlo, perché non ci sono alternative né possibile uscita di sicurezza”. Dom Meiattini osserva ancora che la speranza coltivata oggi è quella di una super-umanità situata in qualche modo tra l’animale e la macchina.: “Un essere umano, da una parte, regredito ad una istintività sfrenata, che soddisfa tutti i suoi bisogni senza scrupoli (emotività istantanea) e, d’altra parte, un uomo tecnologicamente trapiantato, dotato di protesi e di sofisticate applicazioni come in un assemblaggio meccanico”. Il teologo conclude, nel momento in cui le regole imposte prevedono la chiusura delle chiese con il consenso degli episcopati: “Ma la cosa più triste e inquietante per l’avvenire è che la Chiesa, o piuttosto gli uomini di Chiesa, hanno dimenticato che la grazia di Dio vale più della vita presente. Per questo le chiese sono state chiuse e ci si è allineati su criteri di salute e di igiene. La Chiesa si è trasformata in una agenzia sanitaria invece di essere un luogo di salvezza”.
E tutto questo non per prudenza, per un giudizio ponderato su quanto è ragionevole fare o non si può fare nelle circostanze date, ma per pusillanimità. “Senza nulla togliere alla legittima prudenza, proporzionale e necessaria e alle misure di precauzione in materia sanitaria, l’idea […] è che il problema più grave che si pone è di ordine mentale, culturale, e, aggiungerei, spirituale. La verità è che le persone hanno paura, troppa paura. E come diceva Mounier circa un secolo fa parlando della crisi dell’Occidente, si tratta di una ‘piccola paura’, una paura miserabile”.
La paura è un mezzo di manipolazione. Essa è anche un rivelatore del livello di degrado di un’epoca. Ma la si può dominare.
di Bernard Dumont*
*direttore di Catholica
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[1]. «Avancer par peur». Chronique de J. Attali dans L’Express du 6 mai 2009 : https://www.lexpress.fr/actualite/societe/sante/avancer-par-peur_758721.html
[2]. Cf. Caroline Ollivier-Yaniv, «De l’opposition entre “propagande” et “communication publique” à la définition de la politique du discours: proposition d’une catégorie analytique», Quaderni, n. 72, pp. 67-99,in particolare il paragrafo «La propagande comme interdit, la communication comme obligation» (pp. 5-10).
[3]. https://www.mondialisation.ca/ceci-nest-pas-un-complot/5653424
[4]. La conferenza è disponibile in extenso nel sito di Chatham House, con il titolo «Communication and public engagement» : https://vimeo.com/320913130. Le indicazioni qui riportate appaiono a partire dal minuto 22 di ascolto
[5]. Serge Tchakhotine, Le viol des foules par la propagande politique [1939], 2e éd. révisée, Gallimard, 1952, rispettivamente pp. 481 et 483.
[6]. A. M. Valli, Virus e Leviatano, LiberiLibri, Macerata, 2020, pp. 22, 23, 24, nel capitolo «Datemi una narrativa e sconvolgerò il mondo».
[7]. Jean Delumeau, Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident XIII–XVIII siècles (Fayard, 1983). Un’opera accolta nel contesto lassista post-conciliare come una giustificazione a posteriori.
[8]. Guillaume Cuchet, «Jean Delumeau, historien de la mort et du péché. Historiographie, religion et société dans le dernier tiers du 20e siècle», in Vingtième siècle. Revue d’histoire, n. 107 (3/2010), p. 148. L’espressione «médication héroïque» è di Jean Delumeau.
[9]. Ricordiamo che nella rivista abbiamo avuto modo di pubblicare più volte suoi contributi, tra cui l’articolo dal titolo «Non avrete altri dei davanti a me» (Catholica n. 145, pp. 35-43), sulla crisi della fede nella Chiesa attuale.
[10]. Pubblicato il 9 marzo 2020 nel blog di Sabino Paciolla: https://www.sabinopaciolla.com/la-paura-che-uccide-e-il-coraggio-che-manca/
[11]. Lucien Sfez, La santé parfaite. Critique d’une nouvelle utopie, Seuil, 1995, riedito nel 2019. Allo stesso modo, anche se solo descrittivo: Michel Lejoyeux, Il nuovo paziente immaginario. L’utopia della felicità perfetta , Hachette, 2004.
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Fonte: catholica.presse.fr
Titolo originale: Le temps de la peur
Traduzione dal francese di Stefano Fontana
https://www.aldomariavalli.it/2021/04/30/sulla-paura-eterno-mezzo-di-manipolazione/
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