ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 22 maggio 2021

Il loro vocabolario e la prepotenza dell’inganno

La pandemia e il divin vaccino. La neo-lingua liturgica dei padroni del pensiero


    Cari amici di Duc in altum, l’autore del contributo che qui vi propongo è un linguista (il quale purtroppo non può firmarsi). Al centro dell’analisi l’uso del linguaggio nella situazione nella quale ci troviamo immersi da circa un anno e mezzo. Riflessione quanto mai necessaria, perché è proprio guardando alla lingua che possiamo meglio interpretare la realtà che è stata disegnata.

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Il loro vocabolario e la prepotenza dell’inganno

Il tempo che stiamo attraversando, da quasi un anno e mezzo a questa parte, è un incubo senza precedenti storici. La diffusione pervasiva, su scala ormai planetaria, di una frode d’inaudite proporzioni raccoglie i consensi e la fiducia dei più, e a un livello inimmaginabile: si è entrati nel gran sonno della ragione, nel suicidio dell’intelligenza elementare. Nessuna reazione energica – se non in circoscritti, luminosi casi – presso i sedicenti intellettuali, per lo più inetti a pensare liberamente e a parlare in stato di veglia. Sì, la coscienza lessicale: chi non si ponga il problema del linguaggio, del perché siano in voga determinati neologismi o s’investano termini noti di nuove valenze, transita spesso, senza rendersene conto, in territorio nemico.

La «pandemia»: ecco il nomen sacrum sulla bocca di tutti, la parola suggeritaci per elevare a dignità di peste un virus influenzale, a mortalità bassissima e intenzionalmente mal curato. L’etimo greco del termine ne accresce il prestigio, ma in modo fallace, giacché il sostantivo pandēmía indicava in antico la ‘totalità del popolo’ e nulla più; solo in età imperiale cominciò ad emergere, a un livello però irrilevante, un’accezione medica dell’aggettivo pándēmos in riferimento a malattie diffuse fra tutto il popolo. Ma pandemia nel senso di epidemia a subitanea diffusione, tale da falcidiare le popolazioni del globo, è novità ottocentesca ammantata di greco. Qui si direbbe esaurita la metamorfosi della parola; se non che l’attuale «pandemia» è altro ancora, non potendosi parlare di virus sterminatore a fronte di un numero di deceduti analogo se non inferiore alle vittime d’ondate influenzali negli anni scorsi. La strillata «pandemia» odierna è in verità una religione cui tutti debbono piegarsi, con un suo linguaggio liturgico, fatta di riti e oggetti di culto.

Una lingua liturgica dev’esser anzi tutto solenne e severa. Non ammette espressioni scherzose o approssimative; di più: non prevede lessemi inerenti al dubbio né al confronto dialogico. L’odierno lessico «pandemico» è scarno e indiscutibile. Rispolvera e risemantizza parole come «assembramento», dà patina religiosa a «sanificazione» e «distanziamento», innalza a suggello battesimale il «vaccino», e puntualmente ricorre all’inglese per consolidare la fede nella rivelazione «epidemiologica» (il demone coronato è ad es. ormai dicibile col solo acronimo «còvid», residuo apotropaico; la fase penitenziale di reclusione non ha nomi leciti all’infuori di lockdown). Né mancano i termini per infamare i peccatori, da semplici «irresponsabili» se compiano d’istinto gesti naturali ora severamente proibiti, «complottisti» se ancor capaci in certa misura di senso critico ma forse sanabili con catechesi rieducativa, a «negazionisti» qualora eretici professi. Denunciare e isolare questi ultimi a «disinfezione» dell’ambiente è «responsabilità» di ogni fedele: ogni forma di dissenso, ivi incluso il non conversare in lingua liturgica, potrebbe causare la perdizione – ben inteso della salute corporale – dei credenti. Salute da preservarsi, si sa, in solitudine, rinchiusi al buio, mascherati, spellàntisi a cadenza oraria le mani col «gel igienizzante».

Pensare sia ininfluente esprimersi con il loro vocabolario è illusorio. La questione non è meramente formale, se è vero che la lingua non è riducibile ad una sequela di segni estranei alla sostanza delle cose. Prova ne sia che l’osservazione scaltrita di come si esprima un nostro interlocutore, poniamo appena conosciuto, può dirci molto più di quanto non s’immagini sulla sua persona. Disseminare, ad esempio, i nostri discorsi di anglicismi inutili (che depauperano l’italiano come l’inglese, ambedue lingue di nobile e ricca tradizione) o far nostri neologismi televisivi o giornalistici è segno d’accettazione conformistica e irriflessa del presente, che difficilmente potrà convivere con un occhio vigile sui mutamenti storici in corso. Loro sanno bene l’importanza del linguaggio e la straordinaria utilità di avere masse parlanti la loro lingua, giacché parola e pensiero tendono da sempre a convergere. Pensiamo all’abietta moda del gender-neutral language (inglese d’obbligo vista l’origine britannica del fenomeno), che si prefigge una riplasmazione «inclusiva» delle lingue: quanti si saranno adeguati a scrivere e parlare in modo «neutro» avranno alfine interiorizzato il loro credo. Pertanto, se vogliamo dirci realmente liberi, occorre vigilare solleciti sul nostro modo di esprimerci.

Libertà e conformismo son incompatibili. Ogni accoglimento supino di mode è rinuncia alla libertà, a quella libertà autentica che richiede capacità di valutazione e giudizio, di scelta consapevole anche se fosse sbagliata, di resistenza dinanzi a minacce e ricatti. Finché si viva in tempi di pace e tolleranza, troveremo accanto a noi fin troppi cultori – verbali – della libertà in grado di esercitare, in modo spesso apprezzabile, il proprio iudicium e di assumersi, purché a un prezzo modesto, la responsabilità delle proprie scelte; ma quando l’aria si fa greve e incombono punizioni per chi non si allinei, il numero degli spiriti liberi si assottiglia drasticamente. La narrazione «pandemica», mascherando l’umanità, ha permesso di smascherare gl’intellettuali da salotto, che si volevano – dinanzi a un buon bicchiere di rosso e in cólti allegri dibattiti – amanti della libertà e fedeli compagni di lotta, e di lasciar soli sul campo marzio i renitenti al despota.

Di fronte a una dittatura globale e conclamata, che sta reprimendo senza posa, col pretesto di contrastare la peste sempre mutante, le libertà più ovvie dell’uomo (dal respirare a volto scoperto all’uscir di casa al ritrovarsi coi propri simili, fino al rifiuto di nocivi «trattamenti sanitari»), oscurando progressivamente le costituzioni liberali degli stati moderni, dove son finiti i nostri eroi delle piazze, quelli pronti a scioperi alle minime ingiustizie annidate in proposte di legge, o i custodi degl’«im-mortali princìpi», che alle ricorrenze di memoria e liberazione profondono lagrime sulle infamie del passato e si urlano implacabili nel contrastare gli assolutismi? Dove son finiti i marxisti di stretta osservanza (tolti rarissimi onorevoli casi) che fino a ieri tuonavano, non senza ragioni, contro i crimini del capitalismo, e che oggidì assistono, con tacito scandaloso assenso, alla polverizzazione di proletariato e piccole imprese ad opera di colossi transnazionali? Dove son finite le destre avverse all’alta finanza e agli ordini impartiti da Bruxelles (tolti diradati casi, ma extraparlamentari ed esclusi dai dibattiti che contano), ormai asservite fino all’abiezione alla nuova tirannide igienica e per giunta in prima linea, allorquando ebbero inizio le misure repressive, nell’impetrare chiusure totali e uno stato di polizia indegno d’un paese civile? Dove sono finite le forze politiche ‘moderate’, aduse a criticare gli eccessi ma ora prone a un dispotismo liberticida che ha azzerato ogni divergenza considerevole tra i partiti, tanto da render affatto inutile invocare farsesche elezioni? Dove sono finiti i ribelli sessantottini già canuti, le rockstars libertarie tatuate e traforate da piercings, gli attori militanti per diritti minoritari, essendo ormai tutti, o quasi, confluiti nel vasto gregge di poeti cortigiani in fila per il soterico «vaccino»? Dove son finiti gli uomini di scienza, in specie d’àmbito medico, che bene sanno come ogni disciplina scientifica si alimenti del dibattito critico e della capacità tecnica di argomentare sine ira et studio teorie divergenti da quelle più accreditate, e non mai di assunti apodittici affidati agli altoparlanti della propaganda? Dove son finiti i giureconsulti di chiara fama, il cui silenzio colpevole e complice avalla le derive dittatoriali in atto, o i garanti della cosiddetta privacy, cavallo di battaglia del liberalismo contemporaneo, dinanzi allo scandalo dell’infame «passaporto vaccinale»? Ma, soprattutto, dov’è finita la Chiesa cattolica, cui stette un tempo a cuore, qual fine ultimo, la salvazione eterna, ma che ha ora sposato totalmente il verbo «pandemico» caricando di valenza messianica, guarda caso, l’agognato «vaccino»?

Parlare di Chiesa cattolica, nell’interrogarsi su come abbia potuto prender piede e attecchire nel profondo il lógos virale, è ineludibile, poiché quanti mirino a decodificare il teatro della «pandemia» devono, in ultima analisi, adottare categorie religiose. Che l’attuale Chiesa romana sia allo sfacelo è negabile solo da un cieco, o da chi – ma pur sempre di cecità si tratta – sia a tal punto anestetizzato dal ‘progressismo’ postconciliare da non saper più nemmeno per quali precise ragioni il cristianesimo si distingua da altre credenze o, come va di moda dire, «forme di spiritualità». Oggi il soglio petrino è occupato da un personaggio che in pressoché nulla si differenzia, se prescindiamo da sue slavate e anodine citazioni evangeliche, da politici eminenti o strateghi della comunicazione. Qualunque tendenza imperversi, egli se ne fa convinto alfiere, si tratti del feticcio dei «migranti» o del compunto rispetto per l’orgoglio cinedico o dello «skolstrejk för klimatet» o adesso della guerra santa, costi quel che costi, contro la «pandemia» che affliggerebbe il pianeta. A lui poco importa, né sembra mai porsi il problema, di chi siano in cospicua parte i «migranti», la cui fede islamica è scopertamente ostile ai cristiani e fu sin dagl’inizî un flagello per Europa, Africa e Vicino Oriente; a lui non cale la confusione ingenerata nei fedeli più semplici a causa dei suoi ammiccamenti continui ai «diversi», per non parlare dell’inferno pedofilo, certo non solo d’oltreoceano, insabbiato alla bell’e meglio; eccolo poi sorridente alla scolaretta scandinàva, quasi non sapesse, lui, che tutto è orchestrato dall’alto, e che fra il rispetto doveroso del creato e l’isteria climatica a ben altro orientata v’è un abisso; e oggi lo riconosciamo, senza punto stupircene, tra gli araldi dell’allarme «pandemico», esortante i fedeli ad obbedire ai tirannelli di turno al governo, ad assistere per il bene di tutti in via telematica alle funzioni e, quel che più conta, ad accogliere in sé con infinita gratitudine il «vaccino». Ma possibile che il disinfettato Pastore non rilevi alcunché di sospetto in ciò che sta avvenendo e trovi del tutto ammissibile deprivare il gregge non che delle libertà minime, ma pure delle messe, in specie quelle solenni nelle notti di Natale e Pasqua? Possibile ch’egli anteponga la salute fisica, peraltro messa a rischio in misura trascurabile dal virus camaleonte, all’Eucaristia? E poi, davvero non sa – lui che tanto sa da potersi permettere indisturbato la modifica del Padre nostro[1] – che il «vaccino» contiene, per esplicita e inequivocabile dichiarazione dei produttori, OGM entro cui figurano cellule di feti abortiti? Come conciliare la cosa colla condanna implicante scomunica, tuttora prevista nel Codice di Diritto Canonico, dell’aborto procurato? Non v’è certo modo se non tramite penosi sofismi, dei quali, tra l’altro, s’è recentemente servita la stessa Fraternité Saint-Pie-X – già baluardo di resistenza alle infiltrazioni ma ora diretta da figure infeudate al sistema.

La chiave di lettura, insisto, è religiosa. Gli aborti di cui si ciba il vampiro «vaccinale» son un sacrificio umano, che nelle menti pervertite di chi sta ridisegnando il mondo ha valore propiziatorio: dovrà infatti aprirsi a breve un nuovo ciclo, compiutosi «The Great Reset». Così parlano loro, in termini sacrali, messianici. Qualsiasi distopia, del resto, vagheggia uomini nuovi informati al verbo dei Novatori – sudditi docili, addomesticabili al nuovo evangelo. Ma la buona novella, adesso, parla un’altra lingua e annunzia altri dèi, idoli d’un diverso pantheon che, da seminascosto o appena abbozzato qual era, ora ben si palesa ed esige un culto che non tollera miscredenti. Contra naturam è il motto segreto dell’oligarchia al potere – il vero potere, non quello dei governi visibili –, la quale sta perfezionando un programma di oscuramento dei cardini del cristianesimo tramite la distorsione di princìpi logici e sentimenti istintivi che per natura albergano in noi. Gl’idoli dell’attuale pantheon vogliono fedeli che, a poco a poco, demoliscano in sé ciò ch’è innato per sostituirvi mostri parà phýsin. Minimi esempi: parlar di due soli «generi» è ormai illecito; dir che ci sono orientamenti sessuali secondo natura è impensabile; non accogliere come diversità che arricchisce né può mai criticarsi i «migranti», quand’anche dovessero giungerne in Europa milioni, è l’eresia principe; dirsi scettici sulla spontaneità di giovanissime fiumane in marcia nelle metropoli, duce la pizia svedese intangibile (pena la scomunica) dagli scienziati, è da empî; stupirsi ch’esistano individui persuasi che l’uomo si debba alimentare da ruminante è «incitamento all’odio»; contestare l’ordine di viver soffocati da museruole, financo all’aperto e sotto il solleone, è dissacrante, giacché la maschera è anzi tutto un simbolo; trovare infine aberrante che i sani – «asintomatici» in lingua liturgica – siano ritenuti ora malati e che, pertanto, non sia più lecita forma alcuna d’incontro degli zôa politiká, salvo «distanziata», è l’apostasia.

La responsabilità della Chiesa, riguardo alla diffusione pervasiva e perniciosa di quest’idoli contro natura, è gigantesca. O ci mettiamo nell’ottica che a Roma si son insediati gl’idoli di quel pantheon, che a parole tien sì in vita il cristianesimo ma intimamente lo rifiuta, oppure rimarremo in superficie, riducendo il problema, come sovente accade, a chi fra i due biancovestiti si debba considerare papa. Senza l’as-senso vaticano alla nuova idolatria, dietro cui si celano un immenso potere e risorse incalcolabili, il teatro della «pandemia» sarebbe stato inconcepibile. Sterminato è infatti il numero di persone sedotte dal vegliardo di Buenos Aires, preoccupato che tutti possano accedere prima possibile al sacramento «vaccinale», la cui discesa epifanica in Italia, guarda caso, è avvenuta il giorno stesso di Natale. Il «vaccino» è infatti fonte di redenzione: il Pastore ne ha fatto devota e non fugace menzione pure nell’omelia di Pasqua, e proprio quest’oggi, apprendo, egli ha rinnovato la sua professione di fede durante un’altra festività solenne, il Vax Live di Los Angeles, concerto che sta vedendo affluire una mandria di rockstars ed affini giullari vòlti al più turpe conformismo («Your actions can help ensure that everyone, everywhere has access to the vaccine»[2]). Ma Bergoglio non è certo solo nel panorama ecclesiastico. Come lui e grazie a lui uno stuolo di cardinali vescovi preti predica la «pandemia», osanna ai medici come ai nuovi ministri di Dio cui affidarci, sguinzaglia sgherri fra ingressi e navate a vegliar che nella casa del Signore si stia solo con la maschera a becco, senza sussulti di tosse, ben unte le mani dal novello crisma «igienizzante». Di più: varie chiese son persino adibite a «centri vaccinali», a riprova di una patente inversione sacramentale.

Che fare dinanzi a una Chiesa serva del mondo, per non dire del suo principe? E che dire degli Ortodossi i quali, pur non avendo subìto gli sconquassi conciliari, iniziano a vacillare? (Ripugnante il patriarca dell’un tempo veneranda Costantinopoli esibente, a gennaio, l’iniezione maledetta; nauseanti altri patriarchi che, con vile rassegnazione, istìgano le greggi a farsi marchiare).

Credo non resti che affidarci a chi, fra gli uomini di Chiesa, sia cattolici sia ben inteso ortodossi, resiste in varie forme né cede(rà) ai ricatti. Vi sono eccome sacerdoti che, avendo capito il grande inganno, portano avanti il bonum certamen e hanno già messo in conto delazioni, calunnie, fango mediatico. Sono per lo più parroci alle prese con difficoltà concrete, strenui confessori, lungi da trame di potere epperò vessati dai loro vescovi. Non mancano tuttavia alti prelati, sia pure rarissimi e usciti dalle maglie gerarchiche; basti il nome d’un fiero implacabile nemico del mendacio: monsignor Carlo Maria Viganò, vir doctissumus che non cessa, nelle sue lettere aperte, di denunziare senza ambagi il piano infero di un’oligarchia semiocculta che, postasi oltre nazioni e continenti, mira ad imporre all’umanità il pantheon degl’idoli contro natura. Idoli che ineriscono tutti, nessuno escluso, al regno dell’inversione, cioè al dominio del serpente antico.

Non si fa in tempo a usar la parola piano e già piovono le accuse degli stolti. Solo uno stolto, infatti, può non accorgersi che si dà, di quest’immane farsa, una regia comune, e che la farsa è stata largamente e a lungo preparata. Stolto è ritenere realtà la sola fanfara giornalistica e negare ch’esistano nuclei di potere transcontinentali in grado di pilotare governi sia apparentemente forti sia fantoccio come quelli cui è avvezza la servile penisola. Il fatto stesso di bollare col rozzo gergalismo di «complottista» chiunque ipotizzi trame retrostanti al palcoscenico della politica – trame che peraltro la storia ha sempre conosciuto e non di rado documentato – è segno di pochezza intellettuale e d’inettitudine a qualsiasi riflessione storica sensata. Pensare, inoltre, che sia argomento forte da opporre all’interlocutore l’assenza di dati concreti a suffragare l’idea di un’oligarchia ascosa, sovrannazionale e mal intenzionata è parimenti ingenuo, e per due semplici motivi: primo, perché sovente son loro stessi a schiuderci spiragli, additarci piste d’indagine e offrirci informazioni decisive sui loro orizzonti d’attesa; secondo, perché anche in assenza di rivelazioni, o fughe di notizie, è bastevole un po’ di logica induttiva a tratteggiare un quadro verisimile di ciò che sta realmente accadendo nel mondo. Un filologo, grazie agli errori congiuntivi d’un paio di manoscritti medievali superstiti, poniamo conservati in biblioteche distantissime fra di loro, può ricostruire con un alto livello di approssimazione il codice copiato da entrambi, anche se quest’ultimo, come spesso capita, risulta perito. Con criterio a un dipresso analogo, se notiamo che, attualmente, in nazioni pur distantissime per usi e costumi vigono le medesime norme d’eccezione liberticide, i medesimi obblighi demenziali prima ignoti, la medesima distruzione apparentemente suicida del tessuto socio-economico, nonché – spia sempre importante – la medesima lingua liturgica, significa che il regista è lo stesso. Per regista, va da sé, non intendiamo una singola figura d’uomo – sarebbe invero spingersi troppo in là con la fantasia –, bensì l’alleanza oligarchica d’alcune famiglie di varia nazionalità e di risorse sconfinate, i cui nomi son in parte pure noti. Non uso, di proposito, il termine élite, vistane l’idea implicita di selezione qualitativa; meglio sostituirvi oligarchia, ch’è potere di pochi non necessariamente egregi, anzi: una congrega, l’attuale, di un’abiezione che va ben oltre l’umana immaginativa. Siderale distanza dalle vetuste massonerie, certo perverse e insidiose, e certo premessa inescusabile della necròsi odierna, ma ancora rappresentate da figure distinte: inconcepibili, nell’asfittica bestialità dell’oggi, ‘fratelli’ dai modi signorili e di vasta dottrina.

Son poi loro stessi, si diceva, a darci talvolta indizî fondamentali. Primo fra tutti il brevetto Microsoft WO/2020/060606, reso pubblico il 26 marzo 2020 e recante il titolo Cryptocurrency system using body activity data [3]. Com’è possibile, di fronte alla palese associazione al numero 666 (tolti gli zeri messi a gettar fumo negli occhi) di un sistema d’inoculazione nei corpi umani di nanodispositivi di controllo remoto, che a ben vedere annunciano forme di schiavizzazione inaudite, non richiamare la sinistra profezia di Apoc. 13, 16-18? Quel passo presuppone infatti soluzioni di soggiogamento dell’umanità tutta impensabili fino a ieri; ma oggi il treno in corsa della ricerca tecnologica è già arrivato alla sperimentata possibilità di condizionare da un capo all’altro del pianeta nanoparticelle immesse in organismi vivi. Chi reputa siano fantasie non sa di che parla, così come s’illude chi crede che tale immensa opportunità di dominio dell’uomo sull’uomo non possa tradursi presto in realtà effettuale. Desta invero giustificati sospetti che il signore di Microsoft, vate d’interminabili «pandemie» nei decenni a venire e indefesso apostolo della buona novella «vaccinale» sia pure colui che insiste sull’identità biometrica e gli ‘aggiornamenti’ che seguiranno. Quale migliore occasione potrebbe offrirsi ora, in virtù del divin «vaccino», per darci in omaggio pure un paio di nanoparticelle localizzabili? Ovviamente tutto a fin di bene: già tre anni fa Klaus Schwab, fondatore del WEF, aveva immaginato l’impianto nei nostri cervelli di microprocessori atti a rilevare sentimenti criminali, ma anche di colpa, e persino a recuperare ricordi perduti di persone nocive[4]. Infame. Ribadisco: difficile sottrarsi al sospetto che quel numero stia già circolando.

Se così stessero le cose, non v’è più tempo per mezze misure. Fino a poco fa il numero degli alleati, fra i nostalgici di libertà e giustizia, era abbastanza rassicurante. Ora i più, tra di essi, sono in coda per il «vaccino» o lo hanno già in corpo, persuasi che il padrone, cui doveva purtroppo spettare questo tributo, abbia inoculato loro un palliativo innocuo. Così, sprovveduti, s’illudono che sia. Sapevano sì della farsa, avevano pure intuito un progetto pernicioso dietro agli altoparlanti, ma hanno alfine ceduto ai ricatti, più o meno temibili, in balìa dello Zeitwille. Hanno ricevuto il loro marchio – indelebile – e così han tralignato: non possiamo più annoverarli nelle nostre fila.

Scriveva San Basilio ai giovani: “Non v’è nulla che sia maggiormente da rifuggire da parte di chi abbia senno del vivere secondo l’opinione corrente e del considerare le cose che paiano [vere] ai più e del non rendere la retta ragione [nostra] guida della vita, al punto che, anche qualora fosse necessario contraddire tutti gli uomini, aver cattiva fama e rischiare a favore della virtù, egli non sceglierà di spostarsi dai [princìpi] conosciuti secondo rettitudine” [5].

Finissimo e mal traducibile è il verbo periskopeîn, ossia il ‘guardarsi intorno’ con ansiosa attenzione per capire, e poi adeguarvisi, che cosa pensi la gente: cogliere quello che si suol chiamare mainstream per tuffarvisi. L’augusto padre cappàdoce parlava ai giovani, oggi ridotti a larve imbelli plasmate dal sistema, dal volto muto, mascherato, perennemente ricurvo sull’iPhone – e pensare al potenziale detonante di un giovane spirito, ancor capace di slanci ideali né infetto dalla paura di perder poltrone e onori! Loro san bene che avere una gioventù disinnescata equivale a vincer la guerra, essendo gli adulti, per via di lavoro carriera famiglia capricci, molto più facilmente ricattabili. Non mancano tuttavia in ogni Paese persone esemplari, uomini e donne in pari misura, disposte a perdere comodità e sicurezze per presidiare le proprie idee, e segnatamente ora, quando si profila all’orizzonte uno scontro epocale tra due fronti inconciliabili, i marchiati e i non marchiati. Ma i resistenti, si badi bene, non sono necessariamente intellettuali; anzi, questi ultimi si rivelano adesso, per lo più, il volto più ignobile della società: o conigli inetti a star in piedi, che pur sentendo odor di bruciato chinano il capo al macellatore, o Fachidioten, come dicono icastici oltralpe. I secondi son paradigma di stoltezza somma: uomini capaci, nel loro àmbito, di mirabili prestazioni, ma appena usciti dal giardinetto eccoli in balìa dei flutti e pronti a bersi ogni pozione, venefica peraltro. Meglio quel Naturmensch spregiato dagl’intellettuali d’accatto, ma che ha compreso l’essenziale usando il dono della ragione infuso dal Creatore anche negli analfabeti. Se devo infatti scegliere fra il calzolaio albanese, colla sigaretta piantata fra le labbra smascherate e riluttante al marchio, e il «professore» di filosofia che pur esaltando Socrate a parole si pone dalla parte dei torturatori e anela al «vaccino», la mia preferenza sarà ovvia. Oggi come non mai i ranghi del no sono imprevedibili: anticlassisti, antintellettualisti, inaddomesticabili, accomunati dalla sola irriducibile avversione alla falsità imperante.

La sola aristocrazia è quella dei capaci di coraggio, scriveva Nicolae Steinhardt[6], ebreo romeno che conobbe Cristo nell’esecrande carceri comuniste. Steinhardt insisteva sull’impronta cavalleresca del comportamento di Gesù: Egli fu anzi tutto un gentiluomo, ossia un ingenuus, un Freiherr alieno da compromessi e meschinità. Non trattò una riduzione di pena coi suoi persecutori, né cercò, con Pilato, un dialogo conciliativo. Imitare Cristo significa esser coerenti e vincere le paure, paure da cui Gesù stesso, come uomo, fu afflitto durante la Passione. Paure di perdere i beni e i privilegi che si posseggono, e financo la vita. Steinhardt, uomo beneducato e benestante, aduso a viaggi all’estero e alla buona società, aveva tutto da perdere, ma non temette l’incubo d’una diabolica vessazione carceraria. Agonia che in virtù della sua conversione dalla sinagoga al Messia fu trasmutata in beatitudine.

La storia è punteggiata, a varie latitudini, di lumi che si stagliano nell’uniformità cromatica. La storia sovrabbonda poi di oratori che, a tiranni ben inteso abbattuti, celebrano l’eroismo dei dissidenti e per giunta tentano, essi stessi, di farsi ricordare quali taciti oppositori. Ma se tornasse la tirannide, eccoli di nuovo a corte. La tempra si vede nel momento della crisi, parola che vale, etimologicamente, ‘giudizio’. Siamo ormai all’aut aut. O ci si piega al marchio o, costi quel che costi, lo si rifiuta. Chi lo rifiuterà sarà additato all’infamia, diverrà lo schétlios della società, colui ch’è ‘malvagiamente ostinato’ a resistere alla legge vigente. Ma schétlios era in origine, già in Omero, l’infaticabile resistente, capace di sopportar pesi che altri non san portare. Ci si prepari a farsi schétlioi, ovvero Waldgänger – nel senso auspicato dal dispettoso Ernst Jünger –, memori che le porte infere non prevarranno, quand’anche tutto dovesse sembrar perduto. Sul piano materiale il nemico ha ora una superiorità titanica, che sarebbe ridicolo presumere di contrastare sul campo; ma loro, consacratisi al serpente antico, hanno scommesso male, giacché sarà lui stesso, principe di questo mondo, a tradirli ed abbandonarli. Rammentino, gli esitanti, le parole di Cristo (Mt 6, 32-33): Scit enim pater vester quia his omnibus indigetis. Quaerite ergo primum regnum Dei et iustitiam eius, et haec omnia adicientur vobis.

 aprile-maggio 2021

[1] Scandalosa mostruosità: la tradizione manoscritta tutta, diretta come indiretta, consente in mè eisenénkēis hēmâs eis peirasmón: pure un ragazzino del ginnasio sa che eisphérō significa ‘porto dentro’ e nulla più, donde la piena indiscutibile legittimità della vulgata ne nos inducas in tentationem.

[2] Così sul sito ufficiale dei prezzolati organizzatori, sedicenti ‘cittadini globali’: https://www.globalcitizen.org/en/media/vaxlive.

[3] https://patentimages.storage.googleapis.com/58/f5/bf/bf453d0035610f/WO2020060606A1.pdf

[4] K. S., Shaping the Future of the Fourth Industrial RevolutionA Guide to Building a Better World, Portfolio Penguin, London 2018, p. 173.

[5] Oratio ad adolescentes 9, 27 (traduzione e integrazioni esplicative mie).

[6] N. S., Jurnalul fericirii, Ed. Dacia, Cluj-Napoca 1991, rist. Ed. Mănăstirii Rohia, Rohia 2005, p. 88.

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