ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 14 agosto 2021

L’unica espressione della lex orandi

L’incompatibilità tra il Novus Ordo e la dottrina cattolica sulla Messa

Con il motu proprio Traditionis custodes, Papa Francesco ha deliberatamente dichiarato guerra alla Messa tradizionale, accantonando perfino il Summorum Pontificum di Benedetto XVI e imponendo il nuovo rito della Messa promulgato da Paolo VI.
All’art. 1 egli precisa: «I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano.

Partendo da questa imposizione abbiamo pensato che fosse opportuno riprendere un vecchio articolo pubblicato dal Courrier de Rome nell’aprile 2009 e presentato come Lettera aperta a Don Nicola Bux.
Tale lettera, pubblicata dopo l’entrata in vigore del Summorum Pontificum, contiene un esame accurato del nuovo rito della Messa, e mette in evidenza, non solo l’incompatibilità dei due riti, l’antico e il nuovo, ma anche l’incompatibilità tra il novus ordo e la dottrina cattolica sulla Messa.

Di seguito riportiamo questa lettera






Lettera aperta a Don Nicola Bux (1)

Articolo di Redazione pubblicato sul Courrier de Rome, anno XLIII n° 321 (511) di aprile 2009

Rev. Don Nicola Bux,

ci è sembrato necessario considerare con attenzione la sua ultima pubblicazione: La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione (2), che si presenta come la continuazione dell’appello da lei lanciato su L’Osservatore Romano del 18 novembre scorso, dove lei invita «a dibattere senza alcun pregiudizio» sulla liturgia.
Da allora, i suoi sforzi sono sempre stati volti a dare un contributo veritiero al superamento della crisi liturgica (e dottrinale) nella Chiesa cattolica.
È un appello che non può essere ignorato, perché dopo anni di silenzio di coloro che non erano d’accordo con la «vulgata liturgica», una voce importante, che fa eco a quella del Sommo Pontefice, sta emergendo dagli schemi «difesi» - sembra - dalla corte celeste, almeno da Sant’Anselmo e Santa Giustina (che sono gli istituti liturgici di Roma e di Padova).
Lei è un uomo di spirito, e siamo sicuri che sarà in grado di sorridere, senza vedere in questo scherzo la minima intenzione di polemica.

Il primo grande merito del suo libro è di aver portato all’attenzione del grande pubblico i dissensi interni della riforma liturgica, in particolare richiamando l’opposizione del cardinale Ferdinando Antonelli ai diktat di Bugnini. Oggi la liturgia è un «campo di battaglia», per impiegare una delle sue espressioni, e questo è ciò che è stata dall’inizio della sua riforma.

Il secondo merito, e non lo diciamo solo per captatio benevolentiæ, appare nei capitoli primo (La santa e divina liturgia), secondo (A chi ci avviciniamo attraverso il culto divino) e sesto (Come incontrare il mistero), che costituiscono una bella e profonda introduzione all’essenza dello spirito liturgico. Si tratta di capitoli che ogni sacerdote ed ogni fedele  dovrebbero leggere e meditare. E noi non possiamo che rallegrarci delle sue considerazioni sulla verticalità essenziale della liturgia, che bisogna anche ritrovare a partire dalla vexata quæstio del versus liturgico: essere rivolti all’oriente ed essere rivolti alla croce, per significare ancora una volta la centralità di Nostro Signore Gesù Cristo e del Suo Sacrificio.

Ora, lei riconosce, e il suo libro ne è una testimonianza, che il rito tridentino ha saputo incarnare in maniera eccellente l’autentico spirito liturgico; tuttavia, una delle sue tesi di fondo è che «la riforma liturgica nel suo insieme, compresi i suoi aspetti già realizzati, può essere riesaminata  alla luce del vero spirito della liturgia» (p. 59).

Lei dunque si augura un movimento dagli «estremi» verso il centro: «Se quelli che amano o riscoprono la tradizione liturgica precedente devono anche convincersi “del valore e della santità del nuovo rito”, tutti gli altri devono riflettere sul fatto che “nella storia della liturgia vi è crescita e progresso, mai alcuna rottura”» (pp. 45-46).

E’ su questo punto che noi vorremmo soffermarci e riflettere, partendo dalle sue affermazioni e cercando di seguire la loro logica interna, che tuttavia ci condurrà ad una conclusione diversa dalla sua, pur riconoscendo che la sua conclusione è naturale per un buon cattolico, a cui ripugna con ragione l’idea di una «rottura» nello sviluppo della liturgia. Ma sono i fatti, che lei ha mostrato e sui quali ritorneremo, sono i fatti che mostrano il vero volto del nuovo rito.
E a questo punto è necessaria una precisazione preliminare: noi non ci interesseremo agli abusi illegali, come le Messe rock, o le Messe pic-nic o altre mascherate del genere. Non ci soffermeremo neanche sugli abusi legalizzati, come la Comunione ricevuta in piedi e sulla mano, l’uso esclusivo della lingua vernacolare, ecc.
Noi sappiamo bene che tutto questo non è previsto dal Novus Ordo, ma è il frutto di «aggiustamenti» ulteriori e di un dinamismo liturgico che pretende di essere sempre vivo e attivo. Tuttavia, questi elementi devono essere anch’essi considerati come il frutto della riforma liturgica, come è stata concepita e di fatto realizzata da Bugnini e Cie. Noi rinviamo al seguito di questa lettera per giustificare quest’ultima affermazione, sicuramente grave, ma che non è frutto dell’immaginazione o di pregiudizi.

Il principio conduttore

Nelle nostre considerazioni ci lasceremo guidare dalla sua brillante spiegazione del termine «riforma»: «Si sa che non c’è contenuto senza forma; da quando Dio si è fatto uomo non vi è verità che non abbia una forma che la richiami. Ri-forma significa migliorare la forma o cambiarla? Il significato non sembra univoco. Secondo i Padri della Chiesa essa deve essere rinnovata costantemente. Ma la riforma non può essere intesa nel senso di una ricostruzione secondo i gusti del tempo. La riforma, secondo Michelangelo, è quella dell’artista che libera l’immagine dal materiale di cui è prigioniera; l’immagine è già presente nel marmo e c’è solo da eliminare le incrostazioni che si sono depositate nel corso dei secoli. Riforma significa togliere ciò che è di intralcio affinché sia visibile la forma nobile, cioè il volto della Chiesa e con essa anche il volto di Gesù… Adottare il termine «riforma» per la liturgia può essere accettabile o no: accettabile se la forma corrisponde al contenuto, non accettabile se la forma indica un altro contenuto» (p. 49).

Il questo passaggio c’è tutto: riformare significa fare in modo che la forma esprima il  contenuto nella migliore maniera possibile, ricordando che questo contenuto non è a disposizione dei gusti del tempo. Il viso della Chiesa e il viso di Gesù Cristo non sono «vendibili» sul mercato dei gusti e delle sensibilità storiche.
Il suo principio conduttore è perfettamente in linea con quello dato da Pio XII nella meravigliosa enciclica Mediator Dei: «La Gerarchia Ecclesiastica ha sempre usato di questo suo diritto in materia liturgica allestendo e ordinando il culto divino e arricchendolo di sempre nuovo splendore e decoro a gloria di Dio e per il vantaggio dei fedeli. Non dubitò, inoltre - salva la sostanza del Sacrificio Eucaristico e dei Sacramenti – di mutare ciò che non riteneva adatto, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della Trinità augusta alla istruzione e a stimolo salutare del popolo cristiano».

Noi non abbiamo alcuna reticenza a citare questo testo; noi riconosciamo alla gerarchia il diritto di intervenire in materia liturgica e abbiamo già mostrato questo riconoscimento nei fatti. San Pio V non ha fatto una riforma? Gli interventi più recenti in materia liturgica, come quelli che ricorda lei stesso, fino al Messale del 1962, sono stati accolti da noi con un’obbedienza filiale. Il problema non sta dunque nella liceità della riforma liturgica, ma nella specifica riforma che è seguita al Concilio e che si è concretizzata nel Messale di Paolo VI. Questa riforma non è in linea col principio conduttore ammesso da noi e da lei, ed è per questo che non può essere paragonata alle altre riforme che l’hanno preceduta. Non possiamo essere d’accordo con lei quando, riferendosi alla lettera del Santo Padre che accompagna il Motu Proprio Summorum Pontificum, lei afferma che il Messale del 1962 e quello di Paolo VI sono «due versioni successive, come è già accaduto nel corso dei secoli, dello sviluppo di un unico rito; infatti, chiunque conosce la storia dei libri liturgici sa che in occasione della loro ristampa essi sono stati corretti e arricchiti di formulari per le Messe, di benedizioni, ecc.» (p. 62).

Non possiamo essere d’accordo con lei, perché non possiamo negare la realtà, quella realtà che lei stesso richiama in diversi punti del suo libro, e che noi adesso proveremo a ripercorrere.

«Una riforma risolutamente radicale…»

Noi citiamo il suo libro: « Ahimè, il messale di Paolo VI non contiene tutto il messale di San Pio V - se dobbiamo credere alle edizioni nelle lingue nazionali - inoltre l’ha modificato in diversi punti aggiungendo nuovi testi (p. 72)».

E un po’ più avanti: « È vero che Papa Paolo VI intendeva semplicemente ripristinare il rito di San Pio V, cioè la liturgia di San Gregorio, ma ahimè, gli esperti, in una prima fase, hanno preso il sopravvento, “fabbricando” un’altra cosa. Quando il Papa se ne rese conto, abbiamo visto cosa accadde; nel frattempo, i buoi erano scappati dalla stalla. È stato questo errore che ha prodotto la frattura, perché ha rivelato che tutto non stava andando nella giusta direzione. (pp. 72-73)».

Esattamente. Ciò che Paolo VI correggerà è in definitiva il celebre paragrafo 7 della Institutio generalis del 1969, forse in seguito al Breve esame critico dei cardinali Ottabiani e Bacci, o di un intervento  del cardinale Journet con Paolo VI. Si trattò sicuramente di una correzione importante; ma che senso aveva cambiare questa definizione della Messa se il nuovo messale, che era l’espressione di questa definizione, è stato lasciato invariato?

Il Breve esame critico non denunciava solo questo punto della Istitutio, ma anche il Novus Ordo, affermando che «esso si allontana in maniera impressionante, nell’insieme come nei dettagli, dalla teologia cattolica della Santa Messa» (3). I buoi erano ormai scappati, come ci ricorda lei, e il Messale di Paolo VI è il frutto di questa fuga che non è stata impedita in tempo.

E’ ora di mostrare che la formula del nuovo Messale non corrisponde a un contenuto cattolico, ma ad un altro contenuto. Se noi seguiamo il principio conduttore che lei ci ha fornito, non si è trattato dunque di una riforma, ma di una rivoluzione.

In un’intervista (4) rilasciata da Andrea Rose, canonico titolare della Cattedrale di Namur (Belgio) e consultore del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, il cui segretario era Mons. Annibale Bugnini, noi abbiamo la conferma che lo spirito della riforma liturgica fu precisamente Bugnini: «Quello che so è che Mons. Martimort non era tanto d’accordo con lui  (Bugnini). Lo criticava ogni volta che non c’era. Mi diceva: «Questo Bugnini fa quello che vuole!». Un giorno mi ha detto: “Sapete, Bugnini ha fatto un buon collegio.”. Tale era il giudizio di Martimort su Bugnini. Dapprima pensavo che esagerasse, ma in seguito mi sono reso conto che aveva ragione.
Bugnini non aveva alcuna profondità di pensiero. Fu un grave errore designare per un tale posto una persona che era come una banderuola. Se ne rende conto? La cura della liturgia affidata ad un pover’uomo come quello, un superficiale…»
E aggiunge: «Bugnini era sempre dal Papa, per informarlo. Un giorno, all’inizio, quando i problemi non erano ancora così gravi, ero in piazza San Pietro con il Padre Dumas. Incontrammo Bugnini, che ci mostrò le finestre dell’appartamento di Paolo VI, e ci disse: «… pregate, pregate perché questo Papa ci sia conservato!». E questo perché egli manovrava Paolo VI. Andava da lui per rendergli conto, ma gli raccontava quello che voleva. Poi ritornava, dicendo: “Il Santo Padre desidera questo, il Santo Padre desidera quello”, ma era lui che di nascosto… ».
Affermazioni gravi, sicuramente, ma che concordavano con quelle del cardinale Antonelli, che lei ha riportato e che rivelano principalmente il peso determinante che ebbe Bugnini nella compilazione del nuovo Messale.
Ma Bugnini non era certo il solo; il cardinale Antonelli non fa mistero del fatto che il clima che dominava al Consilium era lungi dall’essere rassicurante: spirito critico e intolleranza verso la Santa Sede, razionalismo, nessuno interesse per la vera pietà, impreparazione teologica…
Non c’è dunque da stupirsi del risultato, che ha solo l’apparenza di un ritorno alle fonti liturgiche, come rivela ancora Rose: «Certi, al Consilium, volevano il ritorno alla tradizione principale, quando questo conveniva loro. Francamente, che si facessero delle piccole riforme, d’accordo, ma quello che si è fatto è stato veramente radicale.»
La riforma detta di Paolo VI non ha precedenti nella storia della liturgia; neanche la riforma di Lutero, secondo Mons. Klaus Gamber, fu così radicale: «La nuova organizzazione della liturgia, e soprattutto le profonde modifiche del rito della Messa apparse sotto il pontificato di Paolo VI, che sono prematuramente divenute obbligatorie, sono state molto più radicali della riforma liturgica di Lutero – almeno per quanto concerne il rito esteriore – e hanno tenuto meno conto della sensibilità popolare (5).»

La Messa, vero Sacrificio, e la transustanziazione

Noi diciamo che la forma deve esprimere il contenuto. Le offriamo una rapida panoramica della riforma liturgica, per verificare se la forma del Novus Ordo corrisponde ai contenuti fondamentali della dottrina sul Santo Sacrificio della Messa.

«Il santo Sacrificio dell’altare non è dunque una pura e semplice commemorazione delle sofferenze e della morte di Gesù Cristo, ma un vero Sacrificio, nel senso proprio, nel quale, con una immolazione incruenta, il Sommo Sacerdote fa ciò che ha fatto sulla Croce, offrendosi all’Eterno Padre come un’ostia molto gradevole (6

Il Messale di San Pio V ricorda continuamente questo aspetto fondamentale, che esprime l’essenza stessa della santa Messa. Ed esso lo ricorda principalmente nell’offertorio e nel canone.

1. La sostituzione dell’offertorio

L’offertorio ha precisamente per funzione di anticipare, non l’effetto della consacrazione, ma il suo significato, chiamando il sacerdote e i fedeli ad offrire loro stessi, in unione con la vittima divina. Il tutto era anticamente espresso dalla sola presentazione del pane e del vino e dalla santificazione delle offerte. Nel corso dei secoli questo significato si è tradotto in una molteplicità di riti. San Pio V, con l’intenzione di unificare e regolare le cerimonie del culto pubblico, scelse le formule che esprimevano meglio il gesto dell’offerta, significata dall’elevazione della patena e del calice.

Nel nuovo offertorio, non rimane niente di tutto questo, nemmeno il nome di «offertorio», rimpiazzato dalla «presentazione dei doni»; ed effettivamente la nuova formulazione non ha niente a che vedere con l’intenzione di offrire.
Lo stesso Paolo VI se ne rese conto, ma non apportò alcuna modifica. Egli fece notare che le formule «sono due belle espressioni ecologiche, ma che non hanno alcuna intenzione oblativa se si sopprimono i due incisi [proposti del Papa – nda]: «quem tibi offerimus», «quod tibi offerimus»; senza questi incisi, queste formule non sono le formule dell’offertorio; e questo perché sembra che questi due incisi danno un valore specifico di offerta al gesto e alle parole».
Ma come una nuova prova della dittatura di Bugnini e del Consilium, il Papa aggiunge: «Tuttavia, noi rimettiamo la decisione di mantenerle o di sopprimerle al giudizio collegiale del Consilium (7)».

Dunque, Paolo VI concorda anche lui con noi che l’offertorio del Novus Ordo non è un’offertorio…

L’aggiunta delle due formule proposte dal Papa ha finito con l’aggravare la situazione: sono offerti a Dio il pane e il vino, invece della sola offerta che Gli sia gradita: quella del corpo e del sangue di Suo Figlio, e l’uomo si dichiara capace di offrire a Dio i frutti del suo lavoro; l’Eucaristia come sacrificio non è prevista nelle due formule di «presentazione» del pane e del vino, che invece rinviano immediatamente all’Eucaristia come sacramento («perché diventi per noi cibo di vita eterna»; «perché diventi per noi bevanda di salvezza»). L’elemento sacrificale non è quindi negato, ma indubbiamente messo da parte, a scapito della fede del celebrante e dei fedeli.

L’offertorio romano è stato devastato con delle pseudo motivazioni, che manifestano l’assenza di formazione teologica e di sensibilità liturgica di numerosi membri del Consilium.

E’ ancora Don Andrea Rose che ci dice cosa è successo:
 
«Quelli che si sono occupati della Messa furono ancora più radicali di noi all’Ufficio Divino. È sufficiente vedere come l’offertorio sia stato praticamente soppresso. Dom Capelle non voleva alcun offertorio. “Si parla come se il sacrificio fosse già compiuto. Si rischia di credere che tutto sia già fatto”, diceva. Non si rendeva conto che tutte le liturgie contengono un’anticipazione come quella. Ci si pone già nella prospettiva dell’adempimento.

«Domanda: Non si tratta dell’assenza di una prospettiva finalistica?

«Risposta: Sì, e si è finito col sopprimere tutto, tutto ciò che nell’offertorio era preghiera, perché, si diceva, non si tratta ancora del sacrificio. Ma infatti noi ci troviamo di fronte a delle posizioni molto razionaliste!

«Domanda: Nella vostra esperienza pastorale, avete notato che i fedeli credevano che le offerte fossero già consacrate? Cioè, avete constatato la concretizzazione dei pericoli sottolineati da Dom Capelle?

«Risposta: Ma no, ma no… Mai! E poi, basta osservare come si svolgono i riti orientali. E’ la stessa cosa. E sarebbe interessante comparare tutte queste cose

2. Dal canone alle preghiere eucaristiche

Si è riusciti a fare anche peggio in ciò che riguarda le preghiere eucaristiche. A fianco del canone, riproposto nella Preghiera eucaristica I, ma con delle variazioni significative che vedremo più avanti, sono state poste altre anafore (quattro, più due dette «della riconciliazione»).

Tutte queste preghiere sono state fatte sulla carta, compresa la seconda, che ha più o meno l’ispirazione del canone di Ippolito. E per quale profonda ragione teologica? Per mettere fine «a secoli di fissismo!» (8).

Lei ha ragione quando dice che «la liturgia è un processo vitale e non il prodotto di una erudizione da specialista (p. 50)». Ora, le nuove preghiere eucaristiche sono precisamente il frutto di una commissione… che, secondo il giudizio del cardinale Antonelli, riassunto da lei, era caratterizzata da «l’incompetenza di molti, la sete di novità, da discussioni approssimative, da scrutini caotici, purché si approvasse al più presto… (p. 50)».
Ha senso, secondo lei, mettere fine al canone (poiché di fatto il canone non è più canone, regola) che raccoglie più di 1500 anni di tradizione liturgica, che, secondo il Concilio di Trento, è «così mondo da ogni errore che non contiene niente che non profumi di grande santità e pietà, e non elevi verso Dio lo spirito di coloro che offrono (9)», perché nelle sessioni del Consilium «alcuni fecero notare le difficoltà che l’attuale canone comportava per la nuova epoca e per la mentalità moderna (10)?»

Vi è un’altra osservazione da fare: Bugnini afferma che nelle tre preghiere eucaristiche aggiunte «per quanto possibile si è evitato di ripetere… delle nozioni, delle parole e delle frasi del canone romano (11)». Ma allora, cosa si esprime in queste preghiere eucaristiche? Se il canone raccoglie ed esprime la tradizione liturgica sul Santo Sacrificio, armonizzando meravigliosamente l’impetrazione, l’azione di grazia, la supplica, l’espiazione, cosa rimane nelle altre preghiere eucaristiche?

3. «L’abominazione nel luogo santo»: la modifica della formula di consacrazione

Vi è un altro aspetto che interessa anche la preghiera eucaristica I e che tocca direttamente l’azione sacrificale della consacrazione. Si tratta della modifica della forma della consacrazione. Anche su questo punto Bugnini fece di testa sua, contrariamente all’indicazione del Papa, che chiese che si lasciasse intatto il canone e che si aggiungessero due o tre altre anafore da utilizzare in certi tempi (12).
In primis, ciò che era chiamata consacrazione, nel nuovo Messale è diventato «racconto dell’istituzione»; e il nuovo titolo ci fornisce, purtroppo, l’autentica chiave di lettura delle modifiche della formula di consacrazione.

L’aggiunta delle frasi: «Prendete e mangiatene tutti» e «prendete e bevetene tutti», che nel Messale di San Pio V sono chiaramente distinte dalla vera formula di consacrazione, tanto in ragione del punto che le segue, quanto per la differenza dei caratteri tipografici, permette di considerare la consacrazione soprattutto come memoriale narrativo, piuttosto che come vero sacrificio reso presente per mezzo della formula pronunciata dal sacerdote. L’« hunc præclarum calicem » è diventato semplicemente « il calice »; ma mentre nel primo caso viene sottolineata l’azione in persona Christi, per la quale il calice della Cena è questo calice, nel secondo caso si omette di sottolineare questo punto, favorendo ancora una volta lo stile narrativo.

Lei sa bene che nella liturgia, ogni parola, utilizzata o non utilizzata, ogni gesto, ogni silenzio, hanno un valore e veicolano un’idea teologica. Bugnini e Cie sono passati come un uragano, capovolgendo una formula di consacrazione che nessuno aveva mai osato alterare. A dire il vero, certuni l’avevano cambiata: i protestanti; e se si legge il loro testo del racconto della Cena, ci si accorge che essi hanno precisamente lo stesso testo di quello presente nel nuovo Messale. La presunzione di Bugnini è veramente incredibile, quando afferma che la formula della consacrazione presente nel canone «è gravemente incompleta dal punto di vista della teologia della Messa» (13). Non meno incredibili sono le motivazioni addotte per la soppressione del «mysterium fidei» dalla formula della consacrazione presente nel canone, prima dell’acclamazione dell’assemblea: «Questa formula non è biblica; essa si trova unicamente nel canone romano; essa è di origine e significato incerti; gli stessi esperti discutono sul  significato preciso di queste parole. Certuni le comprendono perfino in un senso pericoloso, poiché traducono: segno della nostra fede; questo interrompe la frase e rende difficile la sua comprensione e la sua traduzione (14)». Al contrario, questo «mysterium fidei», posto immediatamente dopo la consacrazione del vino, ha un valore molto importante, perché afferma che l’immolazione si è prodotta, per mezzo della doppia consacrazione, che è il mistero dei misteri della nostra santa fede.

Vi è in seguito l’aggiunta dell’acclamazione dell’assemblea, secondo tre formule differenti. A parte il fatto che è inopportuno introdurre qui un’acclamazione, che interrompe la sacralità del silenzio, bisogna notare che le due prime formule («annunciamo la tua morte…» e «Ogni volta che noi mangiamo…») sono veramente molto pericolose, poiché, quando si parla de «l’attesa della tua venuta», spostano l’attenzione dei fedeli verso la «seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi, esattamente nel momento in cui Egli è veramente, realmente e sostanzialmente presente sull’altare» (15).
In più, la formula «Ogni volta che noi mangiamo…» è inadatta e nociva per il senso del Sacrificio che si è compiuto. Infatti, essa non sottolinea che è la consacrazione che «annuncia (nel senso di essere presente) la tua morte, Signore», ma il fatto di «mangiare il pane e bere il vino». Questa acclamazione ha un profumo fortemente protestante.

4. Altre modifiche

A tutte queste modifiche si aggiunge anche la soppressione della quasi totalità dei segni di croce fatti dal celebrante sulle offerte, su e con le specie consacrate, per indicare che le specie che si trovano davanti al celebrante sono realmente la Vittima di cui si parla.
Le genuflessioni sono state ridotte al numero di dieci e si sono soppresse quelle, così importanti, che fa il sacerdote dopo aver pronunciato le parole della consacrazione del pane e del vino.
Si è anche soppressa la preservazione delle dita del sacerdote dopo la consacrazione e la loro purificazione nel calice; cosa che indebolisce ancora di più il senso della presenza sostanziale di Cristo in ogni frammento eucaristico. Si sono anche omesse le prescrizioni precise e piene di riverenza che sono di rigore nel caso in cui l’Ostia consacrata cadesse a terra. La purificazione dei vasi sacri può essere rimandata a più tardi…
E si potrebbe continuare così. E’ chiaro che la nuova forma non esprime più in maniera adeguata l’essenza sacrificale della Messa e la presenza sostanziale di Nostro Signore.
Noi non diciamo che essa nega questi aspetti, ma non li significa certamente più in maniera adeguata, aprendo così la via a ciò che di fatto è sopraggiunto e che anche lei denuncia.

La glorificazione di Dio

E dopo l’essenza della Messa, consideriamo adesso le sue finalità, di cui la prima è senza dubbio la glorificazione della Santissima Trinità attraverso Nostro Signore Gesù Cristo.
La liturgia ha principalmente e sostanzialmente una dimensione verticale, e il rito intero deve esprimere e favorire questo orientamento.

Nel nuovo Messale, la finalità ultima della liturgia (e di tutte le cose) è quasi sparita.
Il Gloria Patri nell’antifona dell’introito è stato omesso; il Gloria in excelsis Deo è recitato meno frequentemente, solo la colletta termina con la formula trinitaria («Per Nostro Signore Gesù Cristo…»), mentre le altre orazioni si concludono semplicemente: «Per Cristo Nostro Signore»; la stessa conclusione è stata soppressa anche dopo le tre preghiere che preparano alla santa Comunione, e dopo il Libera nos Domine che segue il Pater noster; la bellissima preghiera dell’offertorio, Suscipe Sancta Trinitas, bellissima sintesi della finalità del santo Sacrificio, è abolita; il prefazio della Santa Trinità non è recitato tutte le Domeniche, ma solo il giorno della solennità della Santa Trinità; si è anche soppresso il Placeat tibi, Sancta Trinitas alla fine della Messa.
Anche in questi casi siamo di fronte ad una vera devastazione, che priva il sacerdote e i fedeli di questo riferimento abituale alla gloria della Santa Trinità, che è il fine della vita e di tutte le cose.

La propiziazione e l’espiazione

«L’aspetto più manifesto di questa rielaborazione [delle orazioni . nda] è la quasi totale soppressione delle espressioni relative al peccato e al male (“peccata nostra”, “imminenzia pericula”, “mentis nostrae tenebrae”), e delle espressioni relative alla necessità della redenzione e del perdono (“puriores”, “mundati”, “reparatio nostra”, “purificatis mentibus”) (16).
Questa è la necessaria conseguenza del principio di Bugnini, citato prima, che consiste nel «rivedere» ciò che non è conforme ai tempi moderni. L’idea di essere peccatori, profondamente debitori verso Dio, che noi meritiamo dei castighi, che noi siamo radicalmente incapaci di riparare da noi stessi i debiti contratti con i nostri peccati, questa idea non è accettata dall’uomo di oggi, e in particolare dall’uomo moderno.

Ed è così che i «tagli» arrivano da tutti i lati! Prima vittima: l’imploratione « Deus tu conversus vivificabis nos » nelle preghiere ai piedi dell’altare, seguita da due orazioni che il sacerdote recita quando sale all’altare (Aufer a nobis e oramus teDomine), nelle quali egli chiede a Dio di rimuovere le sue iniquità e di perdonare i suoi peccati.
Il  Confiteor non è più recitato dal sacerdote «profondamente inchinato» e dai fedeli in ginocchio, due atteggiamenti che esprimono l’umiltà e la supplica.
Con l’abolizione dell’offertorio sono sparite due suppliche dell’accettazione dell’offerta immacolata « pro innumerablilbus peccatis et offensionibus et negligentis meis », al pari dell’espressione « tuam deprecantes clementiam». Il gesto di stendere le mani sull’ostia e il calice, che indica il gesto del Sommo Sacerdote che «caricava» dei nostri peccati la vittima che sta per essere immolata, questo gesto è associato nelle preghiere eucaristiche del nuovo Messale all’invocazione dello Spirito Santo, perdendo così il significato espiatorio del Sacrificio di Cristo.

I riti che precedono la Comunione, che aiutano il sacerdote e i fedeli a ravvivare delle disposizioni interiori di contrizione, sono stati anch’essi  sensibilmente modificati. Per il sacerdote come per i fedeli, il Domine non sum dignus – oltre alla variazione del testo – è stato ridotto da tre volte a una sola, mentre la ripetizione permette sempre una migliore coscienza della loro indegnità di fronte a tale mistero.

La sacralità

Anche su questo aspetto ci sarebbe molto da dire. Noi in questa lettera ci accontenteremo di ritornare rapidamente su ciò che lei ha scritto nel suo bel primo capitolo sulla santa e divina liturgia: «Nell’antica Messa, il sacro è presente e si esprime anche con i segni di croce, la genuflessione e il silenzio dei fedeli durante la preghiera eucaristica, che non è recitata ad alta voce, ma pronunciata submissa voce, per significare il gesto di sottomissione, di umiliazione, davanti a Dio, della nostra voce (p. 23).
Lei aggiunge in seguito delle profonde considerazioni sulla lingua sacra; e lei sa che tutto questo è sparito.

Se vi è un rimprovero generale che si può fare alla Messa riformata, è quello di voler far comprendere troppe cose. Il leitmotiv è che tutti devono comprendere tutto immediatamente. Il sacerdote deve sempre parlare ad alta voce, i fedeli devono parlare, le letture devono essere moltiplicate, la lingua deve essere capita, ecc., e vi è sempre meno spazio per il silenzio e il canto sacro, le due più alte espressioni della preghiera e dell’adorazione. «Razionalità nella liturgia e nessuna pietà (17)»: tale era l’accusa precisa che sollevava il cardinale Antonelli. Niente di più vero.

Su questo aspetto ci sarebbero veramente numerosissime considerazioni da fare, in particolare sugli ornamenti, i vasi sacri, gli edifici, il canto, la lingua, gli atteggiamenti del corpo, ecc.

Il sacerdozio

Una delle «vittime» privilegiate della riforma liturgica è il sacerdozio (e di conseguenza l’identità dei sacerdoti e la loro fedeltà alla loro vocazione).

Le considerazioni fatte prima sullo scivolamento verso il senso narrativo della formula della consacrazione ci permettono di prendere coscienza  dell’incidenza di tale scivolamento sull’intenzione del sacerdote che la pronuncia. Anche in ragione dell’assenza di indicazioni nelle rubriche sulla posizione, il tono di voce, ecc, il sacerdote è sempre meno portato a comprendere la celebrazione come actio sacrificalis compiuta in persona Christi.

Il suo ruolo insostituibile di necessario mediatore e sacrificatore è stato eclissato dalla riforma liturgica, sia con la soppressione di certi elementi, che sottolineavano la differenza essenziale fra il sacerdote e l’assemblea dei fedeli, sia attraverso l’eccessiva e imprecisa insistenza sul sacerdozio comune.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il solo che esamineremo, vediamo quel che successo con l’atto penitenziale, Il Confiteor,  quando non è rimpiazzato da formule alternative, è recitato in comune dal sacerdote e dai fedeli, senza alcuna distinzione, il sacerdote, da pater è diventato uno dei fratres. Si è omessa inoltre la formula di assoluzione, atto esclusivamente sacerdotale, che i protestanti soppressero anch’essi nella loro messa riformata.

Lo stesso nelle nuove preghiere eucaristiche, non si afferma più la distinzione fra il Sacrificio offerto dal sacerdote e a cui si associano i fedeli (« pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt »), ma si dice in generale «noi ti offriamo», o ancora nella preghiera eucaristica III si parla di un «popolo che da un punto all’altro della terra offre a tuo nome un sacrificio perfetto».

La formula della comunione del sacerdote è diventata meno specifica ed è unita a quella dei fedeli. Da due orazioni si è passati a una; in seguito il sacerdote recita con i fedeli una sola volta «Signore, non son degno» (trascuriamo la modifica della formula), poi egli si comunica con le sole formule «Che il Corpo [o sangue] di Cristo mi conservi per la vita eterna»; e quindi amministra subito la Comunione ai fedeli.

In questo modo si distingue sempre meno che la Comunione del sacerdote è necessaria per il compimento del Sacrificio, mentre quella dei fedeli, certo importante, non è essenziale. Nel nuovo rito, la Comunione del sacerdote ha semplicemente luogo «prima» di quella dei fedeli. Mentre dovrebbe costituire un elemento strutturale e conclusivo del Sacrificio, poiché essa è la consumazione della vittima divina.

La forma della ri-forma

Alla luce di tutte queste modifiche (come la soppressione della «Chiesa trionfante», il biblicismo dell’attuale lezionario) ci si può chiedere cosa rimane della dottrina cattolica sul Santo Sacrificio della Messa. Si rimane ancora più stupefatti quando si paragona il Novus Ordo con le modifiche delle liturgie protestanti e gianseniste.

Davanti alla realtà dei fatti, noi non possiamo seguirla quando lei afferma che «la riforma liturgica non deve essere messa in dubbio… (p. 68)». Al contrario, per la salvaguardia del tesoro più prezioso che Nostro Signore ci ha lasciato, per la conservazione del sacerdozio cattolico e per la salvaguardia e l’aumento della fede e della pietà dei fedeli, è necessario avere il coraggio di rivedere una riforma che ha dimostrato il suo fallimento.

Lei ha affermato, in maniera un po’ eufemistica:
«Se non si può dire che la riforma liturgica non ha decollato, essa sicuramente ha volato basso… Dunque, restano da dissipare delle ombre sul modo in cui è stata fatta. Si è andati oltre le intenzioni del Concilio? Che si faccia una tregua nella battaglia: l’usus antiquior  è ritornato, come uno specchio, a fianco del nuovo. Se certe nuove forme rituali sono apparse come una concessione allo spirito del mondo, un approfondimento più calmo e una revisione o restituzione delle antiche forme possono eliminare ogni paura. (p. 59)».

Se è veramente così, se cioè occorre «far ritornare» la Messa tridentina perché la nuova possa ritrovare la sua identità, allora significa molto semplicemente che la riforma è fallita. Essa non è stata una ri-forma, nel senso inteso da lei e da noi, ma è stata l’apporto di una nuova forma di Messa, una forma che «si allontana in maniera impressionante dalla teologia cattolica della santa Messa» (18). Non è mai successo, nella storia della liturgia, che un Messale riformato dovesse risalire al precedente per poter «recuperare» l’autentico spirito liturgico.
Noi celebriamo col Messale del 1962, e sebbene teniamo in grande considerazione le edizioni precedenti, non abbiamo bisogno di riferirci ad esse come «uno specchio del nuovo», perché il Messale del 1962 è stato ha mantenuto lo stesso spirito - e anche la lettera! – dei precedenti.

Con questo, noi non vogliamo affermare che ogni sacerdote celebrante secondo il nuovo rito darebbe eretico; ma ciò che è chiaro è che questo rito favorisce uno spirito e una pietà che non sono autenticamente cattolici. A poco a poco si «assorbe» una mentalità che non è più cattolica. E se è possibile che i sacerdoti che celebrano secondo il Novus Ordo e i fedeli che vi assistono riescano a conservare uno spirito cattolico, è realistico ammettere che questo non è grazie a questa Messa, ma malgrado essa. In altri termini, se la fede cattolica può essere mantenuta interiormente, il rito liturgico non ne è più l’espressione esteriore. E’ un po’ come quando si entra nelle nuove chiese, dall’architettura dubbia: teoricamente vi si può pregare, ma  per farlo è preferibile chiudere gli occhi… Non vi è niente in queste chiese che aiuti l’anima ad elevarsi, lo spirito a raccogliersi, il cuore a scaldarsi al fuoco soprannaturale.

E’ per questo che noi non possiamo essere d’accordo con lei quando afferma che «i sacerdoti che celebrano secondo l’antico rito devono evitare di delegittimare l’altro rito, e viceversa. Non è permesso rifiutare di celebrare col nuovo rito per partito preso. Non sarebbe un segno di comunione, per esempio, rifiutarsi di concelebrare con un vescovo che desidera farlo secondo il nuovo Messale. (p. 64)». Non possumus!

E’ veramente impossibile conciliare questa riforma con la tradizione; e noi insistiamo sul dimostrativo, poiché non è lo sviluppo storico che noi neghiamo, non è la saggezza dell’et-et cattolico nella meravigliosa sintesi tra «rinnovamento e tradizione, innovazione e continuità, attenzione alla storia e coscienza dell’Eterno… (p. 10)», messa in luce da Vittorio Messori nella prefazione al suo libro. Non è questo. Il santo patrono della nostra Fraternità, San Pio X, non è stato uno dei più grandi riformatori (fra l’altro nel dominio liturgico) della storia della Chiesa?

Ciò che non possiamo accettare è che questo et-et sia dato in maniera hegeliana, come sintesi delle contraddizioni, in un’identità tra il reale e il razionale.
«Salvare i fenomeni»! Questo era, secondo la profonda lettura di Taylor (19), l’imperativo della filosofia di Hegel: salvare razionalmente la storia e i suoi momenti, affermando in maniera idealista che ciascuno di questi momenti è una tappa verso uno stadio seguente. Così Hegel perde l’essenza delle cose, perde il criterio di verità o di falsità. «Salvare la riforma» sembra essere la divisa di questo nuovo movimento liturgico che lei auspica nell’ultimo capitolo. Ma non aveva detto che bisognava dibattere sulla liturgia «senza alcun pregiudizio»?

Un’osservazione concreta e un desiderio

Rev. Don Bux,  noi concludiamo questa lettera prima di tutto con un invito alla speranza. Per lei e per noi. Non è impossibile uscire da questa situazione, e forse lei sarà d’accordo con noi su questo punto; Nostro Signore non abbandona mai quelli che cercano la Sua gloria e il bene delle anime.

Ma forse lei non sarà sulla nostra stessa lunghezza d’onda se le confessiamo che noi siamo certi che il «ritorno al sacro» non si farà cercando di accordare l’antico e il nuovo Ordo. Umanamente, può sembrare che si tratti della sola maniera per non provocare rotture, a detrimento della fede di numerosi credenti, già largamente provati. Ma non è così.

La situazione liturgica nella Francia del XVIII secolo e dei primi del XIX non era meno drammatica della nostra. L’anarchia liturgica era all’ordine del giorno e si vedevano diffondersi i riti «personalizzati», nello scopo più che nobile di ritrovare l’autentico spirito liturgico. Dom Prosper Guéranger, il grande abate di Solesmes, dopo aver presentato l’incredibile situazione dell’epoca, concludeva così: «Il capovolgimento d’idee nel diciottesimo secolo era tale che si vedevano dei prelati combattere gli eretici e al tempo stesso, per uno zelo inesplicabile, attaccare la tradizione nelle sante preghiere del Messale; confessare che la Chiesa ha la sua voce propria e far tacere questa voce per dare la parola a qualche dottore senza autorità. Tale fu la stupida arroganza dei nuovi liturgisti che si proponevano niente di meno, ed erano concordi, che di ricondurre la Chiesa del loro tempo al vero spirito della preghiera; di purgare la liturgia dagli elementi non puri, imprecisi, poco misurati, piatti, difficili da comprendere correntemente, che la Chiesa, con i suoi pii movimenti di sua ispirazione, aveva erroneamente prodotto e adottato. La barbarie in cui erano caduti i Francesi riguardo al culto divino era tale, essendo stata distrutta l’armonia liturgica, che la musica, la pittura, la scultura e l’architettura, che sono le arti dipendenti dalla liturgia, la seguirono in una decadenza che non ha fatto che aumentare nel corso degli anni. (20)».

Dunque, la situazione era tale che assomiglia in maniera impressionante alla nostra. E come si è usciti da quella situazione? Col rito romano di sempre, puro e semplice.

Lei chiede una «tregua» sulla liturgia, adesso che il rito tradizionale è «ritornato»; tuttavia, benché noi si comprenda la sua intenzione, ci sembra che su questa «tregua» ipotetica pesi, giustamente ufficialmente, uno dei pregiudizi ai quali lei invita a rinunciare: quello di far soffrire al Messale del 1962 una condizione di inferiorità rispetto al Messale di Paolo VI.
Noi le facciamo notare che, mentre oggi si parla di forma «ordinaria» e «straordinaria», lo stesso Mons. Gamber, già diversi anni fa, nel suo libro citato (che beneficia di una prefazione firmata da quattro illustri prelati: Mons. Nuyssen, i cardinali Stickler e Odi, e il cardinale Ratzinger) proponeva una «tregua» in termini diversi dai suoi (e in certo senso opposti): La forma della Messa attualmente in vigore non potrà più passare per un rito romano in senso stretto, ma per un rito particolare ad experimentum. Solo l’avvenire mostrerà se questo nuovo rito potrà un giorno imporsi in maniera generale e per un lungo periodo. Si può supporre che i nuovi libri liturgici non resteranno in uso a lungo, perché gli elementi progressisti della Chiesa avranno certamente sviluppato nel frattempo delle nuove concezioni relative all’“organizzazione” della celebrazione della Messa (21)».

Comunque sia, noi restiamo profondamente convinti che il rito tridentino, con l’insieme degli elementi dottrinali sui quali si fonda, che esso esprime e veicola,  può mettere solo in evidenza l’incompatibilità sostanziale del rito di Paolo VI con la dottrina cattolica.

Noi riteniamo che i due riti possano coesistere solo se non si comprende il loro opposto valore dottrinale, o se ci si basa su una filosofia che combina le contraddizioni; infatti, una liturgia presuppone sempre, attraverso e oltre i segni che usa, una precisa dimensione dottrinale e spirituale, che non può in nessun modo essere dissociata dal rito stesso. Celebrare in un modo e credere in qualcosa di diverso non è normale e, in ultima analisi, non è onesto.

Illustriamo la cosa con un esempio semplice alla portata di tutti.

Come può un sacerdote offrire sullo stesso altare «la vittima immacolata» e «il pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo», credendo e facendo credere che le due espressioni siano equivalenti?

La stessa istituzione, come può far suoi due segni così manifestamente opposti, immaginando di poter spiegare l’uno attraverso l’altro, senza perdere in seguito la sua identità e senza aumentare la confusione dei semplici?
Che ci sarebbe in comune tra questo nuovo linguaggio liturgico e il «si si no no» evangelico?

Non c’è alcun dubbio che chiunque si avvicini al Messale tradizionale senza pregiudizi possa ripetere l’esperienza avuta da Dom Guéranger, quando per la prima volta, da semplice sacerdote, si accostò incidentalmente al rito romano, lui che fino ad allora non aveva avuto alcuna simpatia per questo rito: «Malgrado la mia poca simpatia per la liturgia romana, che d’altronde non avevo mai studiato seriamente, mi sentii subito penetrato dalla grandezza e dalla maestà dello stile impiegato in questo Messale. L’uso della Sacra Scrittura, così grave e pieno di autorità, il profumo di antichità che emanava questo libro, i suoi caratteri rossi e neri, tutto questo mi portava a comprendere che stavo per scoprire in questo Messale l’opera ancora vivente di quell’antichità ecclesiastica di cui ero appassionato. Il tono dei Messali moderni mi parve allora sprovvisto di autorità e di unzione, e coglievo l’opera di un secolo e di un paese, e al tempo stesso un lavoro personale (22)».

Questa è l’esperienza che noi auguriamo di tutto cuore a lei e ai nostri confratelli del mondo intero!

Con tutta la nostra stima.


NOTE

1 - Don Nicola Bux è professore alla facoltà teologica di Bari, consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per le Cause dei Santi, nonché dell’Ufficio delle Cerimonie liturgiche del Sommo Pontefice.
2 - La réforme de Benoît XVI. La liturgie entre innovation et tradition [La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione]. Ed. Piemme, 2008.
3 – Lettera a Paolo VI dei cardinali Ottaniani e Bacci, 1.
4. Intervista pubblicata nel Courrier de Rome, giugno 2004.
5. K. GAMBER, La réforme liturgique en question, 1992, p. 42. [La riforma della liturgia romana, Ed. Una Voce Italia]
6. PIO XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947.
7. M. BARBA, La réforme conciliaire de l’« Ordo Missæ », Rome, 2002, p. 214 [La riforma conciliare dell’Ordo Missae, ed. CLV, 2008].
8. A. BUGNINI, La réforme liturgique…, cit., p. 446 [La riforma liturgica, ed. CLV].
9. Concilio di Trento, session XXIII, 17 settembre 1562, Decreti e canoni sulla Messa, c. IV.
10. M. BARBA, La réforme conciliaire…, cit., p. 137.
11. A. BUGNINI, La réforme liturgique…, cit., p. 446.
12Ibid., p. 444.
13. A. BUGNINI, La réforme liturgique…, cit., p 448.
14. Ibid., p. 448-449.
15. Breve esame critico del Novus Ordo Missæ, Le formule della consacrazione.
16. L. BIANCHI, Liturgia. Memoria o istruzioni per l’uso?, Milano, Piemme 2002, p. 59.
17. N. GIAMPIETRO, Il cardinale Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Roma, 1988, p. 234.
18. Lettera a Paolo VI dei cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
19. C. TAYLOR, Hegel, Cambridge, 1975, p. 494.
20. P. GUÉRANGER, Institution liturgique, t. II, c. XX, pp. 393-394.
21. K. GAMBER, La réforme liturgique…, cit., p. 76.
22. P. GUÉRANGER, Mémoires autobiographiques (1805-1833), Solesmes, 2005, p.81 [Memorie autobiografiche (1805-1833)].


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