ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 9 settembre 2021

All Talebans

Le talebane di Gerusalemme

Segnaliamo un articolo sul fenomeno delle donne ebree di Gerusalemme che indossano il burqa. Gli autori dell’articolo hanno il merito di informare sul caso, tuttavia lo minimizzano e insistono sulla contrarietà delle autorità religiose giudaiche. Dimenticano però di ricordare la condizione femminile presso i giudei ortodossi e non trovano nessun motivo di sdegno quando parlano del trattamento riservato dai fanatici della stella di Davide a queste donne, equiparate ai cristiani e agli arabi in generale: “I religiosi sputano in terra davanti a loro. Le insultano e le chiamano “sporca araba” o “galachteh” (la parola yiddish per “cristiana”)”.
Infatti nelle vie di Gerusalemme è uso comune degli ebrei ortodossi di sputare davanti ai sacerdoti (cosa ne pensano i politici del centrodestra italiano, così lontani dalla regalità sociale di Cristo e così vicini al sionismo? ). Nel 2012, persino la “Anti defamation league” (!!!) chiese l’intervento del Gran Rabbinato di Israele contro questa ignobile pratica.
https://www.lastampa.it/blogs/2012/01/15/news/basta-sputi-per-favore-1.37275529


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Le ebree ultraortodosse che inquietano Israele


La sagoma nera è immobile. Si è fermata sul marciapiede, davanti alle strisce pedonali. Il corpo è nascosto dalla testa ai piedi. Non si vedono nemmeno gli occhi, s’indovinano soltanto. Quando il semaforo finalmente diventa verde, il fantasma attraversa la strada con passo deciso. Sembra fluttuare. Anche le scarpe sono coperte dal tessuto della veste. Non è raro incontrarlo nelle strade di Gerusalemme intorno al quartiere ultraortodosso di Mea Shearim.
I fantasmi lì fanno parte del paesaggio. Più che spaventare, incuriosiscono. Sotto quelle vesti si nascondono delle donne ebree. I media israeliani le chiamano “le talebane”. Loro preferiscono essere definite “donne modeste”.
Il fenomeno, marginale, ha fatto la sua comparsa all’inizio degli anni 2000 nella comunità degli haredim (letteralmente, i “timorati di Dio”) che si attengono con la massima osservanza alle regole di pudore imposte dal Talmud, per anticipare la venuta del messia, e da allora ha continuato a espandersi.

Adel vive in un caseggiato moderno con le pareti umide, vicino al mercato di Mea Shearim, in un quartiere di stradine strette e passaggi ombrosi. Sulle scale dell’edificio, gli abitanti parlano yiddish. Lei è nata in Colorado, da una famiglia di intellettuali sionisti religiosi. Ha fatto lo “switch”, così lo chiama, dopo un divorzio. Adel è una “donna modesta” ma il suo grado di osservanza non arriva al punto di coprire completamente il viso. Sua figlia maggiore Sara, vent’anni, invece porta il “burqa made in Israel”. La madre l’ammira e ne è gelosa. “Non è un burqa, perché non si vedono gli occhi,” dice Adel a proposito del velo integrale ebraico. “Gli occhi sono lo specchio dell’anima: se un uomo ti vede gli occhi, ti vede l’anima; e se una donna viene guardata è incoraggiata a guardare, e questo attrae gli uomini,” aggiunge. Sara ha messo il velo all’età di quindici anni. Ha studiato in una scuola di Gerusalemme dedicata all’educazione delle “donne modeste”.

Proselitismo dell’abbigliamento

Piccola e robusta, Adel non parla con nessun uomo ad eccezione del marito. “Che amica sarei se permettessi al marito di un’altra di pensare a me? Io sono per la pace familiare e rifiuto le trasgressioni. Una donna modesta deve occultare le sue forme quando esce ed essere una regina in casa per il suo sposo,” dice. Adel lavora a domicilio. Vende alle sue conoscenti profumi, cosmetici e gioielli, che tiene in una vetrina celata da una tenda. Una volta si cuciva gli abiti da sola ma, quando il fenomeno ha iniziato a prendere piede, a Mea Shearim è stato aperto un negozio di abbigliamento per donne modeste.
Due sono gli accessori indispensabili per rispettare la tendenza. Il redid, che scende dalla parte alta del collo fino a coprire il petto, alla maniera delle religiose carmelitane, e il mantello, in due versioni: una che copre il viso, l’altra che lo lascia scoperto. Il mantello può avere lunghezze diverse: due metri, sei metri, quindici metri, a seconda dell’interpretazione dei testi religiosi. Per tenere i mantelli più lunghi, quelli indossati dalle donne più radicali, la ventosa di uno sturalavandini viene fissata in cima alla testa mediante un elastico. Il manico di legno dell’attrezzo viene piallato. Senza questo “cappello a punta”, il mantello di 15 metri cadrebbe a terra, quando camminano.
Tali, un’amica di Adel, madre di otto figli, proviene da una famiglia israeliana laica. Ha studiato sociologia e ha insegnato a lungo in un liceo prima di unirsi a questo movimento informale che fa proseliti con l’abbigliamento. È alta, forse bionda o castana.
“I grandi giusti dicono che ogni parte del nostro corpo appartiene solo al marito. Il collo è attraente come quello di un cigno e quando l’occhio vede, il cuore desidera,” spiega. “Gli uomini hanno cattive inclinazioni, io devo proteggere la mia anima.”
Invoca un ritorno alle fonti della religione e ricorda, con l’ausilio di immagini d’epoca, che a Gerusalemme, all’inizio del secolo scorso, le donne ebree portavano ancora il velo. “L’arrivo delle riviste di moda e della società dei consumi ha mandato tutto all’aria” afferma.

Matrimonio combinato

F. una francese di sessant’anni, educata in un convento di suore nei territori d’oltremare, si è sentita attratta dall’ebraismo. In Francia faceva la puericultrice, poi è partita per Israele per andare a convertirsi in un centro di formazione francofono di Gerusalemme. Ha trovato marito grazie a un matrimonio combinato. Sua figlia, che oggi ha ventun anni, quando era piccola aveva paura di lei. “Era traumatizzata perché io ero diversa dalle altre mamme. All’epoca però non coprivo ancora gli occhi,” ci racconta F..
La figlia ha frequentato la scuola per le donne modeste. Indottrinata, ha finito per abituarsi al velo integrale. Oggi si vela completamente e il suo esempio ha convinto la madre a coprirsi anche gli occhi.
Nelle strade dei quartieri ultraortodossi, come in quelle della città laica, i fantasmi neri sono piuttosto malvisti. Le “talebane” non sono accettate, spesso vengono insultate. “Mia figlia viene regolarmente trattata come una terrorista. Le chiedono con disprezzo perché si veste come un’araba,” dice Adel. “Per evitare il rischio di essere scambiata per un’araba, io esco con il velo integrale solo se sono accompagnata da mio marito o da mio figlio. Se mi trovo sull’autobus da sola, telefono a qualcuno perché mi sentano parlare ebraico, oppure recito i salmi,” racconta F..
L’etnografa Noam Baram ha constatato lo stigma che le accompagna. “I religiosi sputano in terra davanti a loro. Le insultano e le chiamano “sporca araba” o “galachteh” (la parola yiddish per “cristiana”, N.d.R.). La gente le prende in giro,” racconta.
Può capitare anche che si verifichino degli incidenti. Nel 2014, nei pressi del muro del pianto, la polizia israeliana ha aperto il fuoco su un’appartenente alla setta e l’ha ferita gravemente. Non si era fermata al controllo di sicurezza.

Ventisette strati di tessuto

Il grande pubblico le ha scoperte nel 2008, in occasione della vicenda della rebetsin Keren. Bruria Keren e suo marito sono stati arrestati per abusi sui minori e condannati a pene detentive. “Bruria Keren era a capo di un gruppo che praticava sevizie sui minori. Aveva una personalità molto forte. Durante il processo ha rifiutato di togliere il velo,” ricorda Yair Nehorai, difensore del marito.
Da quell’esperienza, l’avvocato ha tratto un romanzo . A suo dire, Bruria Keren faceva la doccia vestita. Indossava ventisette strati di tessuto, faceva fatica a muoversi senza l’aiuto di qualcuno. “Il suo pubblico, composto da donne insicure, trovava attenzione presso di lei. Il mio parere è che la questione centrale per queste donne sia la paura della sessualità. Siamo al confine fra religione e psichiatria. Decidono volontariamente di nascondersi sotto abiti neri e di costruirsi attorno dei muri. Però in fin dei conti ne hanno il diritto”.
Altri casi di pedofilia, incesto e matrimoni forzati sono stati segnalati qua e là.
Il movimento è fortemente criticato negli ambienti religiosi. Qualche anno fa il consiglio rabbinico ha emesso un primo decreto che proibiva l’uso del velo integrale. Secondo il consiglio, la Torah non lo ha mai prescritto.
L’Edah Haredit, una federazione di gruppi ortodossi autonomi dotata di tribunali rabbinici propri, ha emesso un editto in cui si afferma che l’uso del mantello è un feticcio sessuale tanto deviante quanto indossare abiti leggeri. “C’è il rischio reale che, esagerando, si faccia il contrario di quanto è prescritto, arrivando a gravi trasgressioni in materia sessuale,” ha spiegato un rabbino. Ma non è servito a niente.

Ci sono pochi dati verificabili sulla galassia delle “modeste”. Sono concentrate nei quartieri haredim di Gerusalemme e di Bet Shemesh. Secondo gli esperti, le persone coinvolte sono centinaia, addirittura migliaia se si contano le loro famiglie. “Sembra che questo sviluppo rispecchi la crescente islamizzazione delle popolazioni musulmane, iniziata in Egitto negli anni ’70.
Certo, è possibile trovare immagini dell’inizio del XX secolo che ritraggono donne ebree molto coperte, alcune avevano persino griglie di pizzo davanti al viso. Ma nella maggior parte dei casi, per effetto della modernizzazione, anche se il collo restava nascosto il viso era scoperto”, spiega Noam Baram.
Curatrice di mostre, nel 2019 ha allestito al Museo di Gerusalemme la mostra “Veiled Women in the Holy Land”, dedicata alle donne musulmane, alle suore cristiane e alle ebree modeste. Ha condotto circa sessanta interviste a donne modeste e cerca di evitare i pregiudizi. “Mi sono interessata alle donne ebree, alle donne musulmane e alle suore cristiane. Si somigliano tutte nell’abbigliamento, ci sono solo piccole varianti, le donne ebree sono le più assertive nel rivendicare la loro differenza”, dice l'etnografa.
Poi si domanda: “Cosa sta succedendo nella nostra società, perché nascono fenomeni di questo tipo? Perché il corpo femminile sta diventando il campo di battaglia di lotte ideologiche e religiose? Non posso dimenticare l’atmosfera messianica in cui vivono queste donne. Esprimono profonda angoscia e paura, emozioni molto pericolose”.

Copyright Le Figaro/Lena-Leading European Newspaper Alliance.
Traduzione di Alessandra Neve.

Pubblicato dal quotidiano La Repubblica
e ripreso dal Centro Studi Federici


Presentazione del Centro Studi Federici

BDV e i Talebani. Quelli dell’Afghanistan e Quelli Nostri, Autoctoni…

9 Settembre 2021 Pubblicato da  2 Commenti


Cari amici e nemici di Stilum Curiae, pubblichiamo oggi una riflessione che Benedetta De Vito ci aveva inviato qualche giorno fa, e ce ne scusiamo; del ritardo, ovviamente. Buona lettura.

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Una brutta faccia poco raccomandabile, occhiacci grifagni, barba incolta, sguardo da Capitan Uncino, mi solletica la memoria mentre, sveglia all’alba contemplo le argentate colline sabine tingersi d’arancio nella lontananza. Oh chi è codesto ceffo che mi dà a modo suo il buongiorno in questi quattro giorni miei bucolici tra ulivi e ciliegi? Ma certo, è il pericolosissimo guerriero eurasiano di “1984” di George Orwell, che veniva mostrato a Winston durante le puntante quotidiane dei minuti di odio.

Mmm, penso e ripenso, sì, ma chi mi ricorda? Ma certo, mettigli un cappello color fango in testa che sia quadrato sul colmo, vestilo con mantellacci di mota ed eccolo, perfetto, redivivo nelle immagini dei tanti soldati talebani che, in questo periodo di sfocata pandemia, riempiono i nostri teleschermi, mandando in coda i dati dei morti che ci accompagna allegramente tutti i santissimi giorni che Nostro Signore manda in terra, oramai da più di un anno. Certo, la guerra è in onda, gli studenti musulmani sono entrati a Kabul, ma forse c’è chi è contento. Un tempo i “bianchi” erano cattivoni perché, colonialisti, occupavano campi e case altrui, ora sono i buoni che salvavano dall’avanzata dei cattivi, gli eurasiani-talebani… Chi ci capisce qualcosa è bravo.

Di certo l’Arcinemico, dopo aver gozzovigliato con le medaglie olimpiche, in funzione di distrazione di massa, ora non perde occasione per raccontarci vita e soprattutto morte e nessun miracolo dei “taliban”, tirandoli da tutte le parti, in squadra e a pancia in giù, come fossero pasta di cingomma. Così noialtri, bombardati dalle immagini di guerra e raccapriccio, ci scordiamo delle mascherine, del green pass e di tutte le chiusure imposte dai “talebani in camice bianco” che han preso il potere in Italia.

Evviva!  E così, al bar, sulle spiagge, e fin sul picco del monte, gli italiani, da virologi che erano e pieni di sacro terrore di morire, si sono trasformati tutti quanti in esperti di geopolitica e sembrano, a sentirli concionar di Cina e Russia e servizi segreti americani, tutti collaboratori in massa di “Limes”. Naturalmente a distanza “sociale”, con la mascherina, e ben vaccinati…  Bello no? e vado a capo perché il lettore ha diritto a respirare e dunque uno-due e scendiamo di un rigo.

Ma, vi chiedo, non vi siete accorti di una grande stranezza? Nooo? Vabbè provo a scriverla. I talebani non portano le mascherine, nella capitale afgana, dilaniata dalla guerra (come ci dicono da mane a sera i giornalisti sbrodoloni che non hanno mai chiesto al “Comitato scientifico” di studiare le cartelle cliniche dei morti di o con Coronavirus), il virus non c’è.

Tutti vivono “assembrati”, tra abbracci a e grida, senza mascherina e si accalcano, come niente fosse, nella pancia di un aereo a stelle e strisce per sbarcare, altri musulmani (come se non bastassero quelli che già ci sono) chissà dove e forse anche in Italia. E allora, come la mettiamo con il vaccino e con il green pass? Qualcuno controlla il flusso afgano in Italia? Vieta loro, come fa a me, di mettere un piede nella sala al chiuso di un ristorante? In attesa di risposte, vorrei anche sapere perché durante la festa per i sessant’anni del signor Obama abbiamo visto scene di divertimento scatenato senza mascherine, senza distanziamento, senza un bel nulla. E intanto siccome le discoteche in Italia sono chiuse per “riaprire in sicurezza” (come detesto queste parole stereotipate, uscite da una fabbrica cinese…), i ragazzi si sballano nei rave, zuppi di droga, alcool e chissà che cosa altro. Vabbè, siate buoni, rispondete anche a questa mia curiosità…

Intanto il Papa che ha intronizzato in Vaticano un idolo pagano (la Pachamama), che, nei giardini vaticani ha assistito, direi divertito, all’adorazione, fatta da frati francescani, di una statuetta fallica, che ha messo sotto inchiesta un sant’uomo come Padre Manelli, fondatore dei dolcissimi Francescani dell’Immacolata, dichiara “Urbi et Orbi” che fare il vaccino è un “atto d’amore”.

Mi chiedo, altra domanda, verso chi? Non certo verso il Signore che non gradisce un siero sperimentale, fatto con il sacrificio delle sue creature amatissime strappate dal grembo materno. E allora verso chi dobbiamo fare un tale atto d’amore? Baal? Astarte? Belzebù? Dobbiamo, allegramente, partecipare a un sacrificio umano? E qui, pubblicamente, dopo tante domande mie, rispondo – avendolo già fatto in privato – al presidente della Liguria Giovanni Toti, che auspica l’obbligatorietà del vaccino per tutti quelli, come me, che hanno passato la cinquantina. Caro presidente, benissimo, ma dovrà venire a prendermi e uccidermi casomai perché io, sul sentiero del Calvario, vicina al Signore sofferente, mai accetterò di bruciare l’incenso agli idoli e di inchinarmi al Signore delle mosche…

La finisco qui mentre penso con dolore che, qualche giorno fa, mi trovavo dalle parti di Campo dei Fiori, per visitare la chiesa di San Salvatore in onda che si trova all’incrocio tra via dei Pettinari e Via Giulia, a un tiro di sasso da Ponte Sisto e dall’acqua del biondo Tevere (che la inondava e che le ha regalato il suo toponimo fresco, allegro, squillante come è sempre la verità) e, siccome la chiesa pallottina era chiusa né, avendo io suonato al convento, c’era modo di aver la gioia di visitare la tomba di San Vincenzo Pallotti e della Beata Elisabetta Sanna (che ho incontrato in forma mistica in Sardegna, durante una gita al paesino di Budoni) né di ammirare la Virgo Potens che alla Sanna donava la sua grazia, tornando sui miei passi verso casa, eccomi davanti alla stupenda e silenziosa piazza della Quercia dove la quercia solitaria fa da ombrello al sole e donò alla mia scrittrice preferita e amatissima, Dolores Prato, l’illusione di esser tornata, con l’anima, nella sua Treia, eccomi davanti a Palazzo Spada, dove splende nascosta la prospettiva del Borromini. Oh quanto vorrei entrare, visitare le stanze del Cardinale! Vedere i bei quadri di suo gusto che comperò per casa sua! Vorrei, ma non posso perché, in barba alla Costituzione che, all’articolo 9, recita “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, si entra solo col marchio verde.

Sospiro, nel vedere che all’entrata tanti “talebani” in giacca e cravatta sono lì pronti a scrutinarmi, a controllare se ho la febbre (come se sarei uscita con 38!), a chiedermi il marchio. Sospiro, passo oltre, e guardo con tristezza la bellezza volar via dalla mia vita. Grazie ai talebani nostri che, in completo o in vestitino a fiori e con il sorrisetto sotto lo sguardo obliquo, distraendoci mostrando i loro fratellini minori (che han modi schietti, brutali e poco efficaci) ci vietano di abbracciare i nostri cari, di dare un bacino a un nipotino, di stare insieme, di entrare in un museo. Insomma di vivere e anche di respirare perché la mascherina mozza il fiato e fa respirar quello che sarebbe invece da buttare via. Il male, truccato da bene, in una mascherata…

Marco Tosatti

://www.marcotosatti.com/2021/09/09/bdv-e-i-talebani-quelli-dellafghanistan-e-quelli-nostri-autoctoni/

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