~ UCRONIA? DON GIUSEPPE DE LUCA
PARLA DELLA CHIESA POST-CONCILIARE ~
Questo Almanacco presentò qualche mese fa una pagina di don Giuseppe
De Luca, prete, letterato, erudito («Giuseppe De Luca parla di padre
Pio» del 18 gennaio 2012), e promise che, approfittando dell’occasione
del cinquantenario della sua morte, sarebbe tornato sull’argomento.
Eccoci a mantenere la promessa ma, visto che nell’anno già alla fine
l’anniversario non ha suscitato grande eco, si prova qui, almeno noi, a
sfruttare bene questo genere di pretesti e a moltiplicare il ricordo:
saccheggeremo a più riprese il suo ultimo libro, Bailamme,
uscito postumo nel 1963 dalla Morcelliana, una raccolta di articoli per
l’«Osservatore Romano», sminuzzeremo i suoi pensieri e la sua prosa in
varie puntate.
Cominciamo con una celebrazione polemica. È proprio glorificando il
dovere cristiano della polemica che il prete lucano se la prende con
l’irenismo imperante, con l’«arcadia del buon cuore», con i discorsetti
melliflui del clero, con la Chiesa ridotta a scuola deamicisiana, con
l’amore liquoroso sempre in bocca nelle prediche. Si dirà: ma questo è
il clima post-conciliare ben descritto in poche righe. Eppure il nostro
dotto prosatore non vide il Concilio, lasciò questa terra pochi mesi
prima della sua apertura, però quel che dice sembra adattarsi
perfettamente a quanto abbiamo visto noi che gli siamo sopravvissuti.
Una specie di ucronia? Don De Luca, l’amico di Roncalli – fatto raro,
anzi unico per quei tempi, Giovanni XXIII uscì dai confini vaticani per
recarsi al capezzale di un semplice prete che stava morendo
nell’ospedale sull’Isola Tiberina – magnificava l’«arte militare» di
Agostino nella guerra santa del Padre delle Chiesa contro i nemici di
Roma, ricordava che l’amore sa e deve essere intollerante, esortava al
dovere di condannare l’errante: questo almeno si legge nella pagina che
riportiamo qui sotto. Un così battagliero prete avrebbe allora
condiviso i discorsi della tolleranza verso tutto e tutti che furono
pronunciati dalla cattedra petrina nella solenne inaugurazione della
assemblea della Chiesa universale? Si sarebbe entusiasmato per la fine
delle condanne? Si sarebbe convinto che, il «sacro deposito» restando
immutabile, non fosse il caso di sottilizzare sulle questioni di fede
bensì di occuparsi della forma dell’evangelizzazione, convocando un
concilio per un problema mediatico? Lui tanto colto avrebbe ritenuto che
di fronte alle velenosissime insinuazioni della cultura moderna
bastasse rispondere con prediche accettabili dal mondo, attraverso buoni
curati che ricorressero a quel gergo moderno? Il nostro autore,
sostenitore delle crociate dottrinarie agostiniane, avrebbe mai creduto
che «gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal
sole»? O che fosse opportuno per la Sposa di Cristo «usare la medicina
della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore»? Finito
davvero il tempo delle condanne? Si sbagliava forse sant’Agostino a
insistere sul fatto che i rimproveri nascono dall’amore? Naturalmente
non possiamo rispondere a simili domande, peraltro assai ardue, ma
ciascuno si può fare un’idea della coscienza dell’epoca in un singolare
sacerdote che pure voleva scuotere il suo mondo. Sentiamolo:
«La polemica, dai giorni dei giorni, è stata ed è di casa nella Chiesa
di Dio. Quelli che si dànno a credere che la vita cristiana consista, o
consistesse una volta, in una arcadia del buon cuore, in una collettiva
esaltazione di mutua simpatia, di vicendevoli ammirazioni, di candidi e
cari madrigali che ci si scambia ammiccando e sorridendo gli uni con gli
altri, costoro sbagliano. La Chiesa, e nemmeno la società, non è stata
mai la scuola che De Amicis descrisse nel Cuore. La storia del
pensiero cristiano per tre quarti buoni è storia di come le verità
cristiane vennero difese, in una guerra che non conobbe tregua, ora da
nemici aperti e dichiarati, ora da falsi amici, ora e persino da figli
che avevano tradito o stavano per tradire. Non tutti i figliuoli
prodighi sono sempre tornati, ancorché tutti possono sempre tornare.
Scrive sant’Agostino nel 423 a Felicita e Rustico […]:
“I dissensi, non li si deve amare. Se non che a volte nascono per carità
o provano la carità. Non si trova tanto facilmente uno il quale pigli
in pace d’essere ricoverato. E dov’è quel saggio in cui sta scritto:
‘Rimprovera il saggio, e te ne vorrà bene’ (Proverbi, 9, 8)?
Forse che per questo noi non dobbiamo più riprendere né rimproverare un
fratello, affinché non si avvii sbadatamente alla morte? […]”.
Torniamo ora alla polemica. Lo stesso san Giovanni, discepolo per
antonomasia dell’amore, ha passi roventi, di battaglia asprissima. Chi
più intrattabile e intollerante dell’amore? Son ben sue per esempio, e
non di san Paolo, come parrebbe, le condanne più recise e strazianti.
Non dico san Gerolamo, dico sant’Agostino: percorrete le sue opere
complete, per buona metà troverete che son polemica pura.
Non possiamo, dunque, condannare la polemica. Tutt’altro, essa è un
dovere. Tutto sta a come la si conduce. Soltanto a raccogliere in una
specie di massimario le norme sfuggite a sant’Agostino nel fervore delle
sue campagne e delle sue battaglie, si comporrebbe un meraviglioso
manuale di arte militare, una istruzione esemplare per il buon
combattimento, un vademecum del vero soldato dell’intelligenza
cristiana, da far trasecolare. Disgraziatamente oggi i cristiani, non
esclusi i preti, ce ne andiamo in discorsi inetti, ora tutti una inutile
furia, una scomposta e tribunizia scalmana, ora tutti un brodo di
giuggiole, un latte e miele, discorsi che lasciano per fortuna il tempo
che trovano. Mi domando, non senza sgomento, che cosa legheremo, noi,
alla generazione ventura: dico di pensiero, dico di vita cristiana
vissuta a occhi aperti, dico di battaglie combattute e vinte. Che cosa
lasceremo di buono a chi vien dopo? È vero che dobbiamo parlare ai
presenti, non ai posteri; ma chi parla bene, parla per tutti e per
sempre.
Queste son malinconie; meglio strozzarle sul nascere, con un altro passo
di sant’Agostino, tratto questa volta dalla sua più torturante
polemica, quella coi Donatisti. Non faceva altro che combattere, il caro
e terribile Santo; ciò nondimeno, ecco qual era in lui il rispetto
della verità. Si trattava di una trita accusa donatista contro il papa
Marcellino (296-304), e il Santo scriveva in polemica contro Petiliano:
“E ora, a che serve tornare a detergere ancora una volta i vescovi della
Chiesa di Roma dai delitti che ad essi egli imputa, mentre li ricopre
di calunnie incredibili? […] Perché dovrei addannarmi a provare la tesi
della mia difesa, quando lui non alza un dito per provare la tesi della
sua accusa? Ma se c’è posto per un poco di umanità nelle cose umane, io
credo che meriteremmo un bel rimprovero qualora, a gente che non
conosciamo, ma che gli avversari incriminano, sena peraltro poter
dimostrare l’incriminazione con nessuna prova, la reputassimo senz’altro
colpevole piuttosto che innocente. […]”.
Combattere quanto dové combattere lui, per tutta la vita, e serbare
intatto e delicato a tal segno il senso dell’umanità: ecco una cosa più
propria d’un santo che d’un uomo, e d’un santo della tempra d’Agostino,
d’un cuore come il suo. San Girolamo, per esempio, e san Pier Damiani
non reggevano a tanto. Non avrebbero mentito mai neanche loro, e nemmeno
esagerato; ma in loro l’impeto più di una volta fa spavento, lascia
perplessi, senza fiato.
Si est ulla humanitas in rebus humanis…, diceva Agostino, invece. Ma c’è poi nelle cose umane, un poco di umanità? guardiamoci in viso, c’è?».
(da Bailamme ovverossia pensieri del sabato sera, Morcelliana, pp. 146-149)
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