ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 7 febbraio 2015

Incompatibili

Cristianesimo e modernità sono incompatibili?



Gli anni del pontificato di Pio XII (1939-58), e specialmente gli ultimi, sono stati veramente il punto di snodo fra pre-modernità e modernità, particolarmente in Italia; e quelli in cui si è giocata la partita decisiva fra cristianesimo e mondo moderno. Tutto quello che è accaduto fino ad oggi, e che continua ad accadere, è una conseguenza di quanto è accaduto allora, di come hanno giuocato la partita le due grandi forze in campo: la civiltà moderna e la religione cristiana, particolarmente nella sua componente cattolica.

La Chiesa cattolica e la visione del mondo da essa tramandata e custodita, attraverso una vicenda quasi bimillenaria, costituivano, alla fine della seconda guerra mondiale e al principio degli anni ’50 del Novecento, l’ultima grande forza spirituale del mondo pre-moderno; non nel senso che il cristianesimo sia un fenomeno che si possa etichettare come pre-moderno (esso si presenta, infatti, come una verità eterna), ma nel senso che aveva riunito in sé, nel corso dei secoli, il meglio di quella civiltà europea che, prima dell’avvento della modernità, si era organizzato intorno a una visione spirituale della vita, nella quale il legame dell’uomo con il divino era considerato come naturale e indispensabile, e nella quale il bene e il male, la pace e la guerra, la giustizia e l’ingiustizia, la verità e l’errore, il sacro e il profano, trovavano la loro collocazione e venivano indicati con il loro nome, alla luce del principio della libertà morale e, quindi, della responsabilità umana nel pensare e nell’agire.
Poteva sembrare una battaglia impari, dato che tutta l’evoluzione storica e sociale parevano andare nella direzione della civiltà moderna, in tutti gli ambiti della realtà: dalla scienza alla politica, dall’economia al diritto, dalla famiglia al lavoro; ma che fosse una battaglia, e una battaglia per la vita e per la morte, non molti lo compresero, così come furono in pochi ad accorgersi che da quella battaglia dipendeva, fra l’altro, il destino della civiltà contadina, del mondo rurale che, coi suoi valori e con i suoi modi di vita, aveva improntato per secoli e secoli l’evoluzione della civiltà europea e ne aveva permeato l’orizzonte di senso, indicando una direzione e una finalità.
Dietro la civiltà moderna, invece, bastata sull’utilitarismo e sul funzionalismo, dove è vero ciò che è utile e dove è utile ciò che dà un risultato pratico e immediato, possibilmente economico, avanzava, ed avanza, il nulla: un deserto sociale, etico e culturale, nel quale tutto ciò che non è riconducibile alla categoria dell’utile immediato viene svalutato, relegato ai margini, ridicolizzato, abbandonato, respinto. La civiltà moderna è, vista in controluce, la civiltà del nulla: dunque, una anti-civiltà della morte, della barbarie, dello sfruttamento e dell’egoismo eretto a sistema. E, con essa, da parte di una visione spirituale come quella del cristianesimo, basata sul senso del limite e sul senso del mistero e ispirata all’amore e al perdono, non può darsi alcun punto in comune, se non superficialmente e incidentalmente; di fatto, esse sono incompatibili: ancor più incompatibili, se possibile, di quanto lo fossero, per il cristianesimo, le culture totalitarie del comunismo e del fascismo. In esse, infatti, lo Stato e il partito pretendevano di farsi Dio e di subordinare a sé ogni aspetto della vita; nella civiltà moderna, edonista e materialista, consumista e utilitarista, non c’è alcun Dio se non l’egoismo individuale ridotto a unico principio sociale, con tutto ciò che ne consegue: libertà totale in fatto di droga, aborto, eutanasia, disordine sessuale, sfruttamento economico sistematico del più debole, del più indifeso, del più mite.
La civiltà moderna nasce con l’Umanesimo, ma diventa adulta con la Rivoluzione francese e con la Rivoluzione industriale: radicalmente e intenzionalmente anticristiana la prima, implicitamente ma altrettanto radicalmente non cristiana la seconda. L’ostilità - o, nel migliore dei casi, l’assoluta estraneità al cristianesimo - sono nel DNA della civiltà moderna: su questo punto bisogna essere chiari, bisogna sgombrare il terreno da ogni equivoco e da ogni illusione.
D’altra parte, rifiutare ogni aspetto della civiltà moderna sarebbe stato, e sarebbe, per la Chiesa e per i cristiani, non solo impossibile, ma anche assurdo e sciocco: a cominciare dai mass-media, rinunziarvi avrebbe significato, e significherebbe oggi più che mai, estraniarsi totalmente dal mondo circostante e ridursi a una posizione di sterile auto-isolamento, che potrebbe forse sedurre qualche anima generosa e qualche testa calda, ma lascerebbe completamente indifferente la stragrande maggioranza degli uomini, cristiani compresi. Lo stesso vale per le banche, per i giornali, per gran parte della cultura moderna: rifiutarli sarebbe un suicidio, ignorarli sarebbe stoltezza. I compromessi sono comunque inevitabili: bisogna vedere in che misura e fino a che punto li si può vivere come dei mali necessari e quando, invece, essi cominciano ad inquinare e a snaturare la visione del reale che è propria del cristianesimo, riverberandosi nei comportamenti quotidiani. Non è questione quantità o di misure: è questione di spirito.
Un fondo di verità ci sembra contenere l’analisi - che pur muove da una posizione ideologica pregiudizialmente ostile, da buon cattolico “progressista” - svolta da Pietro Scoppola nel saggio «Chiesa e società negli anni della modernizzazione» (in: «Le Chiese di Pio XII», a cura di Andrea Riccardi, Bari, Laterza, 1986, pp. 6-11):;

«… L’anticomunismo era certo un elemento comune alla visione  “neoliberal” americana e a quella di Pio XII, ma il disegno di quest’ultimo aveva radici autonome e originali. Pio XII, come Acerbi ha efficacemente sottolineato, mirava a “separare i tratti politico-costituzionali della tradizione liberal-democratica e nazionale dal quadro ideologico con cui essi si erano più o meno legati nel corso del XVVIII e XIX secolo, per inserirli in un nuovo quadro ideale”. Pio XII accoglieva perciò gli obiettivi politici dell’Occidente ma tentava di sottrarli “alla pretesa di una sovranità illimitata dello Stato, all’amoralismo politico, al culto della potenza e, nei rapporti sociali, all’individualismo e all’utilitarismo”; di sottrarli cioè alle ideologie del liberalismo europeo ottocentesco che restavano, nella visione della Chiesa, un avversario pericoloso al pari dei nuovi totalitarismi e che ne rappresentavano anzi la premessa filosofica. Occorreva dunque, nella visione di Pio XII, sostituire a quei principi errati una visione fondata sull’ordine voluto da Dio, che avesse il suo centro nella persona umana, e nel diritto naturale la sua espressione. Nella visione proposta dal papa la civiltà cristiana (o la cristianità) era il punto di congiunzione fra l’ordine assoluto dei valori e la realtà storica: una civiltà cristiana che, anche se concepita non come alternativa definita alle diverse civiltà ma come sintesi dei valori cristiani e delle differenti realtà storiche, presupponeva tuttavia che il cristianesimo o più concretamente il cattolicesimo potesse ispirare e sostenere una cultura autosufficiente ed originale, capace di dettare orientamenti su tutti i problemi della vita umana anche nelle sue forme associate e propriamente politiche per ricondurle ad ordinata unità.
Per quanto concerne l’assetto interno della Chiesa […] una visione come quella ricordata spingeva a trasformare la Chiesa in movimento da guidare con logiche di accentuato centralismo e verticismo (che di fatto non escutevano una tormentosa incertezza e indecisione nel pontefice, che esprimeva il suo alto senso di responsabilità), con un forte ricorso ai mass-media come strumento di mobilitazione. Non è un caso, per quanto concerne la vita interna della Chiesa, che l’ipotesi di un nuovo Concilio concepito in connessione con la celebrazione dell’Anno santo del 1950, si sia arenata, come ha rivelato il padre Caprile, proprio sulla fondata preoccupazione che una convocazione dell’episcopato cattolico potesse aprire nella Chiesa un dibattito e un confronto che avrebbe incrinato quell’unità funzionale alla mobilitazione e alla concezione della Chiesa-movimento che ispirava la concezione di papa Pacelli.
Ma questo disegno, che tendeva ad una guida totale da parte della Chiesa nei confronti dei processi storici e che spingeva Pio XII a dettare in innumerevoli discorsi norme e criteri di comportamento in tutti i settori della esperienza umana, si rovesciava paradossalmente in un ostacolo a comprendere il nuovo nella sua originalità, a seguirlo e orientarlo. Una fase nuova di sviluppo che avrebbe richiesto una vigile e duttile attenzione, una Chiesa impegnata sul piano della pastorale più che dell’ideologia veniva in qualche modo ricondotta entro schemi interpretativi inadeguati e perciò in realtà abbandonata al suo spontaneo dinamismo. Di fatto la stagione dello sviluppo non poteva entrare nello schema che aveva guidato l’opposizione del pontefice al comunismo negli anni del dopoguerra, non era riconducibile all’idea della civiltà cristiana; i dinamismi reali dell’Occidente capitalistico avrebbero agito con una forza di gran lunga prevalente rispetto a qualsiasi visione ideologica o progettuale, avrebbero smentito […] ogni pretesa della cultura cattolica di avere risposte adeguate per ogni problema della società, avrebbero messo radicalmente in crisi l’idea stessa di civiltà cristiana o di cristianità; ma avrebbero anche espresso, in forme drammatiche, nuove domande di religiosità e di salvezza cui la Chiesa si sarebbe trovata impreparata culturalmente a rispondere.
Le stesse aperture alla società moderna che non mancano nel pontificato di Pio XII – e in particolare proprio l’attenzione alla realtà nuova della società di massa e ai suoi strumenti propri – rimangono così subalterne ad un disegno che della società moderna non riesce a cogliere gli interni dinamismi perché ancorato tenacemente ad un progetto, più che attento al divenire concreto della società. […]
Una visione del genere portava a mettere costantemente l’accento sull’ordine ideale piuttosto che a scoprire e capire quello che stava accadendo nella società italiana: il prevalere del momento ideologico su quello della comprensione critica è una delle costanti che più colpiscono nei documenti della Chiesa di allora. Gli avversari sono sempre di tipo dottrinale, sono quelli che contrappongo no alla dottrina della Chiesa un’opposta dottrina, e soprattutto sono quelli di ieri il cui volto è già stato definito dalle condanne della Chiesa. Lo scontro è sempre fra idee e modelli: raramente si coglie la difficoltà o il pericolo che nasce per la fede e per la vita religiosa dalle effettive condizioni di vita.»

In effetti, sembra l’analisi di uno storico marxista, non di un cattolico; ma ciò poco importa (la verità non ha bandiere e non ha colore ideologico): anche se le premesse sono discutibili, o francamente errate, essa ha il merito di mettere il dito sulla piaga: la Chiesa di Pio XII non si rese conto che il vero pericolo, per il cristianesimo, non veniva tanto da ideologie concorrenti, come il marxismo, ma da un sottile e tuttavia profondo cambiamento nei modi di vita, conseguenza sia delle trasformazioni socio-economiche (erano gli anni del “boom”), sia dell’importazione di modelli edonisti, materialisti, laicisti, attraverso i mass-media e specialmente il cinema e la televisione, oltre che la musica leggera, l’abbigliamento, la corsa alla motorizzazione privata.
Tanto per fare un esempio, semplicissimo, a proposito di quest’ultima: ancora negli anni Cinquanta, al termine dell’orario di lavoro, gli impiegati di un ufficio, o i professori di una scuola, si fermavano a fare quattro chiacchiere, andavano al bar più vicino, chiacchieravano davanti a un bicchiere di vino; ma non appena quelle persone cominciarono a comprare, magari a rate, l’automobile, e vennero al lavoro con essa, tali abitudini scomparvero: ciascuno aveva fretta di tornare a casa, aveva mille cose da fare, improvvisamente il tempo era diventato troppo breve e troppo prezioso per sciuparlo stando un quarto d’ora in compagnia. Perché la tecnica promette, fra le altre cose, un guadagno di tempo e una diminuzione della fatica, ma in pratica avviene il contrario: il tempo diventa tiranno e la fatica aumenta, anche se di altro genere: non è più fatica fisica, ma nervosa, e dà luogo a stress e, a lungo andare, a nevrosi di vario genere. E il tutto si traduce in una diminuzione della socialità, della convivialità, della stessa umanità.
Tornando al nostro assunto: Pio XII, ma anche i suoi successori, nonché i vescovi, i preti, gli esponenti della cultura cattolica, rimasero ancorati a una concezione ottocentesca della battaglia per le idee: non si resero conto che un telefilm americano o, al limite, perfino un “semplice” spot pubblicitario era in grado di modificare i comportamenti e, un poco alla volta, la stessa concezione della vita, molto più della pubblicazione di un libro o delle lezioni di un corso universitario. Non si resero conto, in altre parole, che il nemico mortale dello spirito cristiano non era il comunismo ateo, ma il consumismo, ateo anch’esso, ma per giunta senz’anima, senza morale, senza intelligenza; e, più in generale, che il dialogo con il mondo moderno non poteva e non doveva risolversi in una introiezione delle categorie della modernità nel seno stesso del cristianesimo, ma che doveva restare un dialogo fra realtà distinte e, per certi aspetti, assolutamente incompatibili.
Cosa che è valida ancora oggi, evidentemente, e lo sarà sempre: perché il cristianesimo si presenta come il portatore di una verità eterna, mentre il mondo che si dice moderno, domani sarà vecchio a sua volta e verrà superato da altre forme di pensiero e di vita sociale, da altri modelli economici, da altri paradigmi culturali. Ogni volta che il cristianesimo ha cercato di venire a un compromesso con il mondo, ne ha pagato duramente il prezzo. L’ultimo esempio che possiamo fare, in ordine di tempo, è stato il cattocomunismo: quando pareva, or sono una quarantina d’anni, che il futuro del mondo spettasse al Vangelo di Marx e molti attendevano, di giorno in giorno, di minuto in minuto, la palingenesi rivoluzionaria. Allora vi furono alcuni seguaci del Vangelo di Cristo cercarono di mettersi d’accordo con esso, quali soci di minoranza: ma quello è stato bruscamente archiviato dalla vicenda storica, questo è rimasto. Non è stato un buon affare: anzi, per dirla tutta, è stata una operazione fallimentare, che si è conclusa in pura perdita.
Quei cattolici di sinistra, peraltro, che occupano tuttora posizioni importanti nell’editoria, nelle università e nella stessa gerarchia della Chiesa, non hanno mai avuto l’onestà intellettuale di riconoscerlo, di ammettere il proprio sbaglio; al contrario, hanno portato di contrabbando, nel corpo del cristianesimo, se non le loro vecchie posizioni ideologiche, quanto meno la loro vecchia “forma mentis”: al punto che si può dire che il comunismo marxista non è morto del tutto, ma è ancor vivo nel luogo dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo, dentro certi settori della Chiesa cattolica e della cultura cattolica, naturalmente “progressisti” e “democratici”. Ma si tratta solo di spezzoni impazziti, o meglio smarriti, lasciati indietro dalle vicende tumultuose degli ultimi decenni, ai quali non resta che un lento processo di consunzione e dissoluzione. Infinitamente più pericolosa è l’azione subdola, quotidiana, incessante, dei modi di comportarsi, di vestirsi, di fare la spesa, di impiegare il tempo libero, che vengono dalle sirene del consumismo: non da una ideologia, ma da uno stile di vita. Nemmeno Giovanni Paolo II, che del comunismo è stato, tramite Solidarnosc, il distruttore, lo aveva compreso sino in fondo, tranne forse negli ultimi anni, e particolarmente durante un viaggio trionfale negli Stati Uniti, nel quale, tuttavia, intravide il volto duro, senz’anima, spietato, della cultura edonista e materialista, di un materialismo pragmatico e non ideologico, quale discende dallo stile di vita americanista: impossibile da colpire, perché elastico, anzi liquido, onnipresente, capillare, inafferrabile e sempre risorgente. Esso fa appello agli istinti più bassi ed egoistici insiti nella natura umana, predica il sottile veleno dei diritti senza responsabilità, del piacere senza doveri, del “carpe diem” nel senso più prosaico e grossolano dell’espressione, contro ogni barlume di spiritualità e di senso etico. Il suo idolo, in ultima analisi, è il denaro: e, come sta scritto nel Vangelo (quello vero),  non si possono servire contemporaneamente Dio e Mammona.
A questo idolo maggiore se ne aggiungono molti altri, per così dire, minori: il potere, il successo, l’eterna (e perciò fasulla) giovinezza, la tecnica, la scienza, la ragione, il progresso; tutti idoli più che disposti a convivere, come è tipico di ogni politeismo, con degli idoli opposti, ma non incompatibili: la credulità, il falso misticismo, la magia, lo spiritismo e perfino il satanismo. Perché no?, in fondo i satanisti sono i più coerenti adoratori di idoli: essi, almeno, prendono sul serio la loro fede, che coincide con il suicidio pieno e consapevole di quanto v’è ancora di umano nell’uomo, ossia nel rifiuto deliberato e radicale del suo legame con l’Essere.
La battaglia fra la visione cristiana della vita e la modernità è, comunque, una battaglia impari, perché si svolge tra forze incommensurabili: la prima è una forza morale e spirituale, il secondo è un insieme di pratiche spicciole, di modi di pensare e di agire che non nascono da una visione unitaria, ma la producono: quanto alla loro origine, essi nascono dalla spinta stessa del progresso tecnico-scientifico, che ormai non è più diretto e orientato dagli esseri umani, ma dei quali è diventato l’esigente padrone e il tirannico signore.
Resta da vedere se non avesse ragione Pio XII, dopotutto, nell’ostinarsi a vedere la storia come una battaglia fra ideologie. Anche se la modernità non è una ideologia, agli effetti pratici è come se lo fosse, perché possiede, e sia pure “a posteriori”, una certa quale coerenza, risultante dalle spinte e controspinte di elementi estremamente eterogenei, amalgamati, però, e resi compatibili, dal grande frullatore che tutto ingoia e tutto trasforma: il consumismo, che riduce ogni cosa a merce, comprese le persone e i sentimenti. Ed è vero che solo una concezione del mondo può sconfiggerne un’altra…
di Francesco Lamendola - 03/02/2015

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