FIN DOVE VOGLIONO ARRIVARE ?
di Francesco Lamendola
In una società sana, i sofferenti ricevono assistenza e, fin dove possibile, consolazione; in una società malata, tutti devono convertirsi alla religione del senso di colpa, ed espiare il peccato di essere sani ed autonomi. Nelle società sane vi è posto per la bontà, in quelle malate domina il buonismo, che ne è la diabolica contraffazione. Nelle società sane vi è uno sforzo per sostenere e innalzare chi non può stare al passo; nelle società malate, si attua una politica sistematica di abbassamento di tutti, per punirli di star bene. La nostra è una società profondamente malata. Lo si capisce dal fatto che, da noi, la sofferenza non viene sublimata in vista di un bene più alto, e questo perché è venuta meno la fede religiosa, che aiuta ed incoraggia il sofferente a sentirsi non un disgraziato, ma un privilegiato, un amato da Dio, che ha scelto lui per effondere più abbondante la Sua grazia, anche a edificazione delle altre anime. Di conseguenza, nella nostra società la sofferenza è diventata una maledizione, e chi ne è colpito, o, più spesso, i suoi parenti, sono animati da un fortissimo spirito di rivalsa, di solito dissimulato da qualcosa di ben più nobile: per esempio, dalla volontà di “sensibilizzare” gli altri alla questione che li tocca da vicino.
Esistono, per esempio, e si stanno sviluppando, delle associazioni formate da genitori di bambini disabili, le quali si propongono nelle scuole elementari al fine di sensibilizzare gli alunni al tema della disabilità. La sensibilizzazione consiste in questo: nel portare in quelle scuole della carrozzine per disabili e farvi sedere i bambini sani, poi farli giocare a pallacanestro, stando seduti su di esse, affinché si “rendano conto” di che cosa voglia dire non avere le gambe. Un altro esercizio consiste nel far giocare i bambini a pallavolo, stando seduti sul pavimento, quindi senza potersi spostare con le gambe, ma solo protendendo il busto: lo scopo è sempre lo stesso, far “capire” che cosa significhi non avere l’uso delle gambe. Un terzo esercizio consiste nel fare un percorso in palestra, attraverso gli attrezzi predisposti allo scopo, come dei cerchi, ma procedendo con gli occhi bendati, e quindi accompagnati da qualcuno: lo scopo è far “capire” a quei bambini che cosa significhi non avere il bene della vista. Le maestre, entusiaste, accolgono la proposta; dei genitori, nessuno fiata. I bambini eseguono: che altro potrebbero fare? Ma vale la pena di chiedersi a che cosa servano simili esercizi, se non a farli sentire in colpa per il fatto di avere l’uso delle gambe o il senso della vista. Intanto, i genitori dei bambini disabili dirigono il gioco, e i loro figli assistono. Un esempio di “integrazione”, oppure una forma di rivalsa?
Questo che abbiamo fatto è solo un esempio; ne potremmo fare parecchi altri, parlando anche di altre categorie di persone. Nella nostra società, dominata dal buonismo, quello a cui si mira non è più affrontare e risolvere dei problemi, bensì mettere in scena una sacra rappresentazione alla rovescia: una sorta di cerimonia permanente, politicamente corretta, nella quale le minoranze più determinate e socialmente riconosciute, fanno in modo che nessuno dimentichi mai quanto hanno sofferto gli ebrei al tempo della Shoah; quanto hanno sofferto gli omosessuali a causa dei pregiudizi omofobi; quanto hanno sofferto le donne a causa della prepotenza incorreggibile del maschio padrone; quanto hanno sofferto, e soffrono, i disabili, a causa dell’insensibilità e dell’egoismo dei sani; e quanto sono stati trattati crudelmente i negri ai tempi della schiavitù e del colonialismo. Per ciascuna di queste abominevoli situazioni passate, i vivi devono scontare le colpe dei padri e purificarsi, offrendo il loro senso di colpa sull’altare della riparazione e del risarcimento morale. I malati di mente, poi, compresi quelli violenti e pericolosi, che prima di san Franco Basaglia languivano nei manicomi-prigioni, devono essere risarciti delle passate sofferenze infliggendo alle loro famiglie la tortura di averli in casa, padroni di fare il bello e il cattivo tempo, di terrorizzare o di picchiare i genitori anziani; mentre i preti modernisti e progressisti, che prima di san Lorenzo Milani erano oppressi e scomunicati da una Chiesa ottusa e retriva, ora ricevono il dovuto omaggio e sono liberi di stravolgere a loro piacere il Vangelo e il Magistero della Chiesa.
Così, grazie alla religione buonista e alla politica del “risarcimento” morale (e, non di rado, materiale), la società va perdendo quel poco di coesione, di armonia e di fiducia in sé che ancora, per caso, possedeva. Se i pronipoti degli schiavi negri devono essere risarciti, e se devono essere risarciti gli africani per il fatto che gli aerei di Mussolini gettarono i gas durante la guerra d’Etiopia del 1935, allora va da sé che l’Italia e l’Europa devono accogliere milioni e milioni di africani, senza limiti, senza obiezioni, senza far domande: sono tutti profughi, e più non dimandare. E non importa se, perfino mentre si trovano nei centri di prima accoglienza, in attesa di sapere se la loro domanda di asilo verrà accolta, non si trattengono dal rubare, spacciare, violentare e rapinare: poverini, sono i discendenti di una razza oppressa e sfruttata, e le colpe dei bianchi nei loro confronti sono tali e tante, che nulla potrebbe mai espiarle. Perciò l’unica cosa che gli europei possono fare è accoglierli, sistemarli, favorire sempre nuovi arrivi: mandare le navi della Marina militare sulle coste del’Africa e prenderli a bordo, affinché l’invasione diventi una auto-invasione, e nulla manchi, né la beffa, e neppure il grottesco, per completare la tragicommedia di una civiltà che ha deciso di autodistruggersi.
Un ragazzo omosessuale si è suicidato gettandosi dalla finestra, perché tormentato dai compagni omofobi e sadici? Non c’è bisogno di verificare se le cause di quel gesto siano proprio quelle sbandierate dai media; non serve ricordare che ogni mese, ogni settimana, qualche adolescente, purtroppo, si toglie la vita non per il brutto voto a scuola o per la sgridata dei genitori, ma perché il brutto voto o la sgridata dei genitori (magari meritatissimi, l’uno e l’altra) hanno fatta da detonatore di un malessere ben più profondo, che è difficile, se non impossibile, riconoscere per tempo, e per il quale non ci sono “colpevoli”, ma solo il grande mistero della fragilità umana: l’importante è che bisogna fare di quel caso, un caso esemplare; di quel ragazzo sfortunato, un martire e una bandiera; bisogna trascinare tutti quanti – gli eterosessuali, ben s’intende – davanti al tribunale della Giustizia, bisogna farli sentire colpevoli, bisogna far approvare dal parlamento delle leggi draconiane, che puniscano con la massima severità il reato di omofobia, raddoppiando la pena a quei criminali che si permettono di rivolgersi con parole meno che riguardose agl’illustri membri della confraternita LGBT. Ed ecco che quel tragico fatto di cronaca, quel suicidio, diventa, così strumentalizzato, una clava per picchiare sodo sulla cattiveria, sulla crudeltà, sulla insensibilità degli eterosessuali. Che imparino a stare attenti a come parlano, a quel che dicono, perché i rigori della legge incombono su di loro, più di quanto incombono sui rapinatori, sui pluriomicidi, sui mafiosi e i camorristi, e sugli spacciatori di droga.
A questo punto, la domanda è: fin dove vogliono arrivare, questi signori? Fino a che punto vogliono capovolgere la morale, fino a che punto vogliono spingersi per punire le persone di non soffrire abbastanza, di non soffrire come soffrono loro? Sin dove arriveranno? Vi sarà un momento in cui, appagati, si fermeranno, oppure spingeranno la loro azione sempre più a fondo, sempre più innanzi sena sosta, senza limiti, fino alla completa dissoluzione sociale? E che cosa li rende così audaci, così sicuri di sé? Il senso di colpa, da loro stessi alimentato e continuamente attizzato, affinché non si spenga mai, e neppure diminuisca un poco. Le persone devono stare sempre sulla graticola: devono accettare il ricatto permanente del buonismo e del finto solidarismo, della finta compassione, della sensibilizzazione aberrante. Contano di questo: che nessuno osi rompere l’incantesimo, denunciare la perversa follia di tutto questo. Con quale animo una maestra, o una direttrice didattica, potrebbero dire: Non, non voglio aderire a questa iniziativa; non mi sembra che sia utile per trattare la questione della disabilità, non mi pare che conduca a qualcosa di positivo? E con quale animo un genitore, un genitore di un bambino sano, potrebbe chiedere: Ma perché far compiere ai nostri bambini quel tipo di esercizi? A che cosa serve? È questo il modo per avvicinarli al tema della disabilità e al sentimento della solidarietà verso i meno fortunati? Non serve solo a farli sentire in colpa, senza offrire alcuna soluzione costruttiva?
Allo stesso modo, come immaginare un sindaco, un assessore, un cittadino, per non parlare di un ministro della Repubblica, i quali dicessero: Il nostro Paese è disposto a fare la sua parte in un programma di sostegno ai Paesi poveri, ma non può e non deve accogliere masse infinite di falsi profughi, sia perché non possiede le risorse, sia perché ciò non è giusto ed equivale a un gravissimo torto verso i nostri cittadini, verso la nostra identità, verso la nostra civiltà? O come immaginare un sacerdote, in questi tempi di neochiesa modernista e gnostico-massonica, capace di dire, dall’alto del suo pulpito: L’amore del prossimo non consiste nel favorire in ogni modo l’islamizzazione del’Europa, e il vero cristianesimo non consiste nell’invitare i musulmani a Messa; e neppure nel dire - come afferma il papa Francesco - che il terrorismo islamico non esiste, e ciò mentre milioni di cristiani sono perseguitati nei Paesi islamici, quegli stessi Paesi dai quali arrivano i cosiddetti profughi che esigono, pretendono, di essere accolti tutti quanti (ma perché non li accoglie l’Arabia Saudita, Paese islamico ricchissimo?), e non cessano di maltrattare i loro compagni di viaggio cristiani, né durante la traversata del Mediterraneo, e neppure durante il soggiorno nei centri di accoglienza?
È quasi impossibile, ormai, immaginare delle persone franche, rette, oneste, le quali dicano simili cose. Qualcuno c’è, ma sempre meno; la loro voce viene subito coperta, il loro “cattivo” esempio viene prontamente punito. Se si tratta di un sacerdote, viene rimproverato dal suo vescovo, allontanato dalla sua parrocchia, forse sospeso a divinis; se si tratta di un pubblico amministratore, viene linciato dai mass-media, denigrato dagli altri consiglieri e assessori, dato in pasto alla folla bramosa di vendetta. Non pochi ricevono delle querele e vengono così ridotti al silenzio dalle spese processuali o, peggio, da una condanna a termini di codice penale. Altro che libertà e democrazia: stiamo andando a passo di corsa verso una democrazia totalitaria, la cui maschera ufficiale sarà il buonismo a tutto campo, e la cui sostanza saranno il rancore sociale, il desiderio di rivalsa, l’odio – più o meno ben dissimulato - di certe minoranze nei confronti della maggioranza. Perfino nella “misericordiosa” chiesa di papa Francesco non vige alcuna tolleranza, non c’è la minima comprensione per le voci di dissenso. Chi non capisce, chi ha dei dubbi, chi fa delle domande scomode, non è degno neppure di ricevere una risposta, com’è accaduto ai quattro cardinali che avevano chiesto chiarimenti sulla Amoris laetitia: Burke, Caffarra, Brandmüller e Meisner; chi è troppo “cattolico” viene commissariato, come i francescani dell’Immacolata, o, se è parroco, gli viene tolta la parrocchia, come è accaduto a don Alessandro Minutella. Non c’è più posto se non per i buonisti, i progressisti e i modernisti: per i Paglia, i Galantino, i Bianchi, che non cessano di dare scandalo con la loro falsa teologia, falsamente “misericordiosa” e niente affatto “buona”, proprio perché buonista. Perché mi chiami maestro buono?, dice Gesù a colui che lo apostrofa con tale epiteto; Dio solo è buono E se Gesù ha rifiutato per se stesso il titolo di “buono”, devono essere i preti della neochiesa ad appropriarsi di un tale appellativo?
Tutta questa situazione nasce da una rifiuto: il rifiuto della prova, della sofferenza, del sacrificio, della solitudine; in una parola, il rifiuto della croce. È una tentazione diabolica: Gesù l’ha affrontata – e vinta - all’inizio della sua vita pubblica, nel deserto, durante il suo digiuno preparatorio. E a san Pietro che gli diceva: Questo non ti accadrà mai!, quando Egli aveva preannunciato la sua Passione, aveva risposto: Vai lontano da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. Lo aveva chiamato “Satana”: una espressione forte, e che va presa alla lettera. È diabolico voler trasformare la religione della croce nella religione dell’applauso. Il clero modernista è desideroso di applausi: vuol piacere al mondo, anche a costo di spiacere a Dio. Vuole gli applausi di Eugenio Scalfari e di Emma Bonino: e li ottiene. Nella società profana, è la stessa cosa: politici, amministratori, intellettuali, giornalisti, uomini di cultura, tutti vogliono l’applauso del mondo: e per piacere al mondo, in questo momento storico, bisogna inchinarsi alla falsa religione buonista e progressista. Chi s’inchina, fa carriera; chi non s’inchina, è tagliato fuori, escluso, denigrato, disprezzato, calpestato. Del resto, sono ormai pochissimi a resistere, a rifiutare l’inchino e la sottomissione. Eppure è da qui, da quei pochi, che bisogna ricominciare. Bisogna ristabilire la virtù civica del coraggio, il coraggio di essere impopolari, di dire le verità sgradite, di non scendere a compromessi umilianti, di non subire il ricatto dei falsi buoni. Bisogna educare i bambini, i giovani, a questo genere di fierezza. C’è bisogno di persone oneste, coraggiose, fiere: a forza di compromessi e accomodamenti, siamo arrivati veramente all’ultima spiaggia. Alle spalle c’è il mare: il mare del nulla. La nostra civiltà, la nostra sopravvivenza, o meglio quella dei nostri figli, sono in pericolo. Vogliamo chiudere la nostra esistenza terrena prolungando i già troppi atti di viltà?
Ma fin dove vogliono arrivare?
di Francesco Lamendola
RELIGIONI SONO TUTTE UGUALI?
Culto di U Thlen il Serpente della Morte ovvero: tutte le religioni sono buone? Colui che ha fatto un patto col diavolo spesso se ne pente e si rende conto d’essere stato ingannato da colui che è l’Ingannatore per definizione
di Francesco Lamendola
Oggi si è assai diffuso, non solo nella cultura profana, ma anche in quella cattolica, un certo qual relativismo religioso, per cui ciascuna religione viene considerata degna di rispetto (almeno a parole), ma nessuna degna di esser presa interamente sul serio: come se fosse politicamente corretto fare mostra di possedere tolleranza e ampie vedute, ma anche di essere decisamente scettici quanto alla verità della fede, di qualunque fede. Tutte sullo stesso piano, insomma; tutte da considerare come uno sforzo dello spirito umano di cercare delle risposte agli interrogativi più alti, cui l’uomo non sa rispondere; ma nessuna vera, per un malinteso spirito democratico che bollerebbe come presuntuosa e intollerante quella, fra di esse, che pretendesse di rappresentare la verità, relegando così le altre, automaticamente, nella sfera delle credenze illusorie. In base a questa posizione, tutte le religioni avrebbero qualcosa di ammirevole, tutte avrebbero qualche frammento o scintilla di verità (non la minuscola), ma nessuna potrebbe ambire a essere riguardata come qualcosa di più di una costruzione puramente umana, nessuna avrebbe realmente in se stessa l’impronta di una origine divina. Logico: la cultura moderna non crede più a Dio e alla dimensione soprannaturale; e questa incredulità si è introdotta anche nell’ambito della cristianità e nell’edificio della Chiesa cattolica, lo ha compenetrato con un tocco sottile, ma inconfondibile, il quale, sebbene non osi mostrarsi apertamente, inquina molto di ciò che è stato detto e fatto negli ultimi cinquanta anni, anche da parte di eminenti teologi e da membri del clero cattolico.
In particolare, una errata e temeraria interpretazione di alcuni importanti documenti conciliari, come la costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, e delle due dichiarazioni conciliari, Nostra aetate, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, e Dignitats humane, sulla libertà religiosa, hanno spinto taluni, anzi, ormai parecchi, a pensare che la Chiesa cattolica abbia accettato il principio della relatività del Vero, e, quindi, che abbia accettato di porsi, accanto alle altre religioni, come una delle tante; e si spingono fino al punto di ritenere indelicato, inopportuno e imprudente proclamare apertis verbis che non c’è salvezza al di fuori di Cristo, benché le parole del divino Maestro, così come riferite esplicitamente dai quattro Vangeli, siano assolutamente inequivocabili: Io sono la Via, la Verità e la Vita; e: Nessuno viene al Padre, se non per mezzo di Me; e ancora: Chi crederà al Vangelo e verrà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato. Segno eloquente di come molti cattolici dei nostri giorni, o sedicenti tali, preferiscono piacere agli uomini piuttosto che a Dio: perché l’atteggiamento pluralista e relativista, attivamente promosso e proclamato da certi teologi e da certi sacerdoti, e perfino da certi vescovi e cardinali, è fatto per riscuotere l’approvazione e per ricevere l’applauso dei non cristiani, compresi quanti odiano la Chiesa e vorrebbero vedere distrutta l’opera sua e la sua stessa ragione di esistere, vale a dire la conversione delle anime. Quindi, ricevere l’applauso di costoro lusinga la vanità di certuni, li fa sentire popolari, li illude di essere dei cristiani “moderni”, “lungimiranti”, “maturi”, e li acceca, fino al punto di far smarrire loro il concetto, intuitivo, che un cristiano che si pone sul piano del relativo, è automaticamente un cristiano infedele, un falso cristiano, un impostore e un mentitore, anche nei confronti di se stesso. Infatti, se è in buona fede, si inganna deliberatamente; se non lo è, allora si comporta come Giuda Iscariota, il quale, non pago d’aver tradito Gesù, e di aver già pattuito il prezzo del suo tradimento con i sacerdoti del Sinedrio, a Gesù che annunciava il tradimento imminente di uno dei suoi discepoli, ebbe la sfrontatezza di chiedergli, con aria di finta innocenza: Sono forse io, Signore?
Una conseguenza del concetto, assolutamente erroneo, che tutte le religioni hanno qualcosa di vero, e che tutte meritano, perciò stesso, il medesimo rispetto e la medesima considerazione, è che bisogna fare finta di non vedere quel che di malvagio, di diabolico addirittura, vi è in alcune di esse. E tuttavia, secondo quei tali, non si dovrebbe parlare di queste cose, perché non sarebbe elegante, non sarebbe rispettoso: bisogna fare finta che vada tutto bene, e che tutte le religioni, più o meno, predichino il bene e l‘amore, e spingano gli uomini a mettere a frutto la parte migliore di se stessi. Ora, chiunque abbia studiato un poco di storia della religioni, ma, più ancora, chiunque abbia osservato da vicino, nella realtà concreta, ciò che le religioni non cristiane insegnano ai loro seguaci, sa che vi sono realmente, sia nelle loro dottrine, che nella pratica, delle cose che non soltanto sono palesemente sbagliate e inaccettabili, ma dannose, anzi, intrinsecamente malvagie; cose che non vi sono nel cattolicesimo, ma, tutt’al più, nel comportamento incoerente di alcuni fedeli, i quali tradiscono il Vangelo, pur dicendo di credervi e di rispettarlo pienamente. Per esempio, chi abbia frequentato un missionario ricco di anni e di esperienza, e magari non guastato da certe idee moderniste che serpeggiano, come si è detto, nella Chiesa dopo il Concilio, il quale abbia vissuto molti anni presso certi popoli che vivono lontano dall’Europa, e gli abbia domandato se ha mai intuito, o avuto sentore, della presenza del Male, egli, molto probabilmente, resterà un poco pensoso, come guardando qualcosa che non è visibile, immerso nei ricordi; poi sposterà lo sguardo su di voi e vi dirà: Non intuito, ma visto: ho visto regioni e villaggi dove il diavolo cammina ancora su piedi umani. Perché molti popoli vivono, e ancor più vivevano, nella morsa terrorizzante delle false religioni i cui sacerdoti, gli stregoni, si servono delle arti diaboliche e possiedono realmente, in certi casi, dei poteri preternaturali, grazie ai quali servono le forze del Male e praticano riti che prevedono anche il sacrificio umano. Ebbene: anche di tali “religioni” bisognerà dire, per rispetto del politicamente corretto, che contengono una qualche scintilla, un qualche frammento della verità divina? Se si accetta la premessa del relativismo e se si vuol essere coerenti, sì. Ecco dove portano certe premesse sbagliate e a quale grado di negazione del buon senso conduce la cultura buonista e modernista.
Vi sono ancora popolazioni che adorano il diavolo o che adorano, e allo stesso tempo temono, delle divinità malvagie, assetate di sacrifici umani, come quelle degli antichi aztechi, i quali conducevano guerre incessanti contro i popoli vicini per procurarsi corpi umani da sacrificare, estraendone il cuore ancor palpitante; e ve n’erano molte di più in passato, al punto che, in certe regioni della terra, l’assassinio e il cannibalismo rituale erano la regola nella vita sociale e, si fa per dire, religiosa, prima che arrivassero i missionari cristiani a dissipare le tenebre e l’orrore di simili culti e di simili pratiche. Certe cose bisogna averle viste, vi direbbe quel tale missionario, altrimenti, forse, non ci si crederebbe.
Presso il popolo dei khasi, nella regione dell’Assam (all’estremità nord-orientale dell’India, in una zona particolarmente isolata e selvaggia ai piedi dell’Himalaya), vigeva, e forse vige ancora – perché, ogni tanto, i media lasciano trapelare la notizia di qualche morte misteriosa, attribuita a sacrifici umani, in diverse zone del subcontinente indiano – il culto del Grande Serpente, chiamato U Thlen. Si tratta di un culto per certi versi ancora misterioso, ma quel che si sa di certo, è che esso contemplava l’assassinio periodico di alcune vittime, scelte a caso, ma secondo un rituale preciso, che prevedeva solo l’impiego di armi bianche fatte di legno, e che doveva avvenire solo all’interno di quella popolazione (per cui i bianchi, ad esempio, ne erano esenti), quale offerta allo spirito del Grande Serpente, per averne, in cambio, la protezione e l’assistenza. Le persone che decidevano di praticare tale culto allevavano in casa dei piccoli serpenti e poi offrivano il sangue delle vittime ad uno di essi, che, per l’occasione, si gonfiava e assumeva in sé lo spirito di U Thlen, il Grande Serpente originario, di cui parlano le leggende tribali.
Così parla del culto diabolico di U Thlen il missionario salesiano Luigi Mathias nel suo libro Quarant’anni in India (Torino, Elle Di Ci, 1965, vol. 1, In Assam, 1921-1935, pp. 180-183):
Mons. Becker, nella sua opera magistrale “Sulle sponde del Brahmaputra” ha un lungo capitolo su questi cultori del serpente U Thlen.
“È difficile – egli scrive – saper quanta parte ci abbia la leggenda, quanta la fantasia popolare e quanta la realtà. Ma è un fatto innegabile che esiste una casta di questi adoratori o servitori del serpente conosciuto sotto il none di U Thlen. Non è raro il caso delle persone che scompaiono senza lasciar alcuna traccia. I Khai hanno un gran terrore dei “nonsgshohnoh”, come sono chiamati coloro che vanno alla caccia delle vittime per offrirne il sangue all’U Thlen. Di notte nessun Khasi si arrischia di uscire di casa da solo. Vanno a gruppi e cercano di fare gran chiasso per allontanare eventuali “nonsgshohnoh”. Hanno cura di portare con sé qualche grosso coltello o falcetta per difendersi se attaccati”.
Lo stesso Mons. Becker ricorda come questi assassini tentassero una notte di uccidere il custode della residenza missionaria di Laitkynsew nell’assenza del missionario. Altre volte avevamo tentato d’impadronirsi di qualche ragazzo dei nostri orfanotrofi. Curiosa la leggenda, associata a tale culto. Nei tempi antichi – così la leggenda – viveva nei pressi di Cherrapunjee non lontano dalla cascata di Noh ka Likai, un gigantesco serpente per nome U Thlen. Questo stava nascosto nella caverna di Pamdalai e menava gran strage tra gli uomini e gli animali. Per portarsi al mercato la gente doveva passare vicino alla tana dell’U Thlen e circa metà veniva regolarmente sbranata dal terribile serpentaccio.
Stanchi alla fine per tante stragi i Khasi si riunirono con gli abitanti della pianura sottostante e fecero un grande “durhar” (concilio) per trovare qualche mezzo di liberazione da quel mostro. Le cose andavano per le lunghe quando un Khasi di grande coraggio si offrì lui a farla finita con l’U Thlen. Suidnoh, tale era il suo nome, prese a visitare la tana del serpe taccio portando gran copia di capre, maiali e buoi per darli in pasto all’U Thlen. Avendo egli continuato a far ciò per lungo tempo, il serpente prese a volergli bene e a riporre in lui la massima fiducia- Era quello che Suidnoh desiderava. Un bel giorno si portò come al solito sull’orlo della caverna, ma questa volta invece del consueto pasto, portava, infilzata in una lunga stanga, una massa enorme di ferro e di pece liquefatta. All’invito di Suidnoh il serpente, di nulla sospettando, spalancò le fauci e inghiottì quella miscela di ferro e di pece. Poco dopo, tra orribili convulsioni, e urli di dolore U Thlen cessava di vivere. Radunatisi di muovo in concilio di Khasi e gli abitanti della pianura, dissero di fare due parti del corpo gigantesco del serpente e di mangiarselo affinché scomparisse del tutto e per sempre. Quei della pianura trovarono la cosa più facile perché erano molto numerosi. Non così i Khasi, che,m dopo essersi mangiato la loro porzione, videro rimanere ancora un grosso pezzo. Essi non vi fecero caso e ritornarono ai loro villaggi. Ma da quel pezzo nacquero molti piccoli serpenti, i quali a poco a poco s’infiltrarono nelle capanne dei Khasi. Fin qui la leggenda.
Ancor oggi ci sono delle famiglie conosciute come “nongri thlen” ossia “custodi del serpente” e le più strane dicerie corrono sul loro conto. Si dice per esempio che questi serpentelli non muoiono mai e che hanno la virtù di ridursi a dei fili sottilissimi e di cambiari in un gatto o in un gallo o in una pietra. Essi parlano e promettono a coloro che li tengono in casa ricchezza e prosperità. Ad una condizione, però. Di tratto in tratto devono offrire loro il sangue di qualche vittima designata. Se si rifiutano, allora gravi malanni e sciagure si abbattono su di loro. È meglio quindi obbedire all’U Thlen. A notte si sostano lungo qualche sentiero o dietro qualche cespuglio o albero, in attesa del malcapitato. I Nonsgshohnoh” non devono far uso di armi di fero, ma solo di legno perché fu il ferro che uccise il primo grande U Thlen. Con una mazza di legno essi colpiscono le loro vittime alla testa e le stramazzano al suolo. Poi con una forbice d’argento tagliano loro un ciuffo di capelli e la punta delle unghie, mentre con una lancetta pure d’argento pratica o una ferita nel naso e fanno scorrere il sangue in un imbuto di bambù. Seppelliscono quindi il cadavere nelle foreste e fanno ritorno a casa per la Grande Offerta. L’offerta del sangue ha luogo di notte e soltanto i “nongri thlen” vi possono prender parte. Per l’occasione tirano fuori tappeti e quanto hanno di meglio in casa. Le porte devono esser aperte: nel mezzo della stanza, in un piatto di bronzo, viene versato il sangue della vittima e sull’orlo i capelli e le unghie della medesima. Allora uno dei presenti, accovacciati tutt’intorno, comincia a picchiare un tamburello e a ripetere le parole d’invito: - O buon zio materno – egli canterella – o padre nostro, vieni fuori dal tuo nascondiglio (di solito questi serpentelli stanno nascosti in piccoli panieri). Noi abbiamo fatto quanto tu ci hai comandato: ora tutto è pronto. Vieni e dacci la tua benedizione, affinché noi possiamo sempre godere buona salute e ottenere grandi ricchezze.
Dopo qualche tempo il serpentello esce effettivamente dal suo nascondiglio, e sibilando si avvicina al piatto di bronzo Si dice che esso a questo punto si ingrossi a vista d’occhio sino a diventare un grosso cobra. Con la lingua protesa e gli occhi fissi sul sangue procede fin presso il piatto di bronzo. Qui si arresta come in attesa di qualcuno, I presenti continuano a picchiare il tamburello e a diadica preghiere e scongiuri. Ed eccolo spettro del morto appare sopra l’offerta del sangue. Esso sembra sghignazzare, e poi si mette a danzare.. In quell’istante l’U Thlen lo afferra eri piedi e lo inghiotte assieme al sangue, ai capelli e alle unghie. Non rimane più nulla. L’offerta è finita.
Realtà? Superstizione? Immaginazione? Forse un po’ di tutto. Ma rimane il fatto che i Khasi sono convinti dell’esistenza di questi adoratori del serpente e ne hanno un sacro terrore. Sono per essi stregoni onnipotenti e si guardano bene dal recar loro anche la minima offesa. Talvolta chiesi con insistenza a qualche khasi cattolico di dirmi il nome di qualcuno di questi adoratori dell’U Thlen ma non ci fu verso.
- Padre, - mi rispondeva, - chiedimi quel che vuoi ma non questo. Noi Khasi conosciamo i “nongri thlen”, ma non riveleremo mai i loro nomi. Ci capiterebbe certamente qualche grosso malanno.
Padre Mathias prosegue dicendo che i missionari sono talmente consci della deleteria influenza del culto di U Thlen sulla popolazione, che non possono mai chiedere agli indigeni di andare da soli a sbrigare qualche commissione fuori dai villaggi, specialmente se si tratta viaggiare dopo il tramonto. I khasi sono terrorizzati dagli adoratori del Serpente, che stanno in agguato lungo i sentieri, pronti a uccidere chiunque, in qualsiasi momento, alla prima occasione favorevole. Come si vede, l’intera faccenda ricorda abbastanza la tragica vicenda degli adoratori della dea Kali, chiamati Thugs, i quali fino alla metà del XIX secolo assassinarono selvaggiamente, strangolandoli, per poi derubarli, molte migliaia di viandanti e pellegrini sulle strade dell’India, prima di essere severamente repressi dall’azione del vice-governatore britannico William Sleeman.
Una parte molto interessante del suo racconto è quella in cui parla di una contro-cerimonia, chiamata pyndunoh u thlen, ossia “rinuncia all’U Thlen”. Chi voleva liberarsi dalla dipendenza dal Serpente, doveva presentarsi a uno stregone, chiamato lyngdoh, e offrire tutte le ricchezze che possedeva, parte delle quali veniva lasciata nella foresta, senza che nessuno fosse autorizzato a servirsene, parte era destinata al sovrano locale. Il penitente doveva offrire tutto, compresi gli abiti; poi la sua capanna veniva data alle fiamme e solo la notte seguente, nudo, egli poteva ritornare al suo villaggio. I suoi vicini lo aiutavano a costruirsi una nuova abitazione e a dotarsi di nuove vesti, evidentemente sollevati nel sapere che c’era un assassino di meno in circolazione sui sentieri della foresta (anche se, come si è visto, i khasi sapevano chi erano i membri della confraternita, senza però osare alcunché contro di essi).
La testimonianza di padre Mathias (nato a Parigi il 20 luglio 1887 e spentosi a Legnano il 3 agosto 1965), fondatore di scuole e primo vescovo dell’Assam, è molto importante, perché si tratta di un personaggio assai autorevole e di un ottimo conoscitore degli usi e costumi indiani, il quale ha passato una intera vita nel subcontinente, imparando a osservarli attentamente dall’interno di quella società. È pure degna di nota la sua osservazione che l’arrivo del cattolicesimo nella regione dei khasi ha spinto parecchi seguaci del culto del Serpente ad abiurare e a convertirsi al Vangelo, proprio per liberarsi da quella umiliane e pericolosa forma di sudditanza. Pare, infatti, che se gli altri abitanti della regione erano terrorizzati dalla prospettiva di finire assassinati come vittime sacrificali, anche i seguaci del Serpente fossero scontenti e inquieti, e che eseguissero sempre più malvolentieri il rito delle uccisioni, più nel timore di subire, a loro volta, la punizione da parte di quella terribile divinità, se non l’avessero fatto, che per intimo desiderio. E anche in questo si può vedere un riflesso della tipica condizione di chi ha sottoscritto un patto con il diavolo, per esempio nei culti satanici che proliferano nelle nostre città moderne e benestanti: prima o poi arriva sempre il momento in cui se ne pente amaramente, e si rende conto d’essere stato ingannato da colui che è l’Ingannatore per definizione: ma è difficilissimo, a quel punto, mutare la propria situazione, a meno di affidarsi totalmente nelle mani di Chi, quel nemico, l’ha affrontato e sconfitto tante volte in maniera esemplare.
Osserva, infatti, non senza una certa soddisfazione, il buon missionario (op. cit., p. 184):
Forse anche per questo [cioè perche il rito pagano di purificazione comportava il sacrificio di tutti i propri beni, fino agli indumenti personali e all’abitazione] i Khasi in gran parte hanno abbracciato il Cristianesimo. Vi hanno trovato la vera purificazione e la vera rinascita. C’è proprio da augurarsi che le ultime tracce di questo culto diabolico abbiano a scomparire e questo specialmente per tramite di Colei che ha schiacciato il capo del serpente infernale: Maria santissima: la Madre del bell’Amore.
E adesso vengano quei tali cattolici, o sedicenti cattolici, progressisti e modernisti, a dire che tutte le religioni sono uguali e che tutte meritano lo stesso grado di rispetto, perché in tutte traluce qualcosa dello splendore divino. Vengano a dirlo, e si coprano di ridicolo; vengano a dirlo, e mostrino la loro mancanza di onestà intellettuale. Ma tant’è: imbevuti d’ideologia relativista e buonista (ricordiamo che il buonismo non è una forma di bontà, ma la sua diabolica contraffazione), essi preferiscono dare torto ai fatti, o ignorarli, o negarli addirittura, se lo ritengono necessario, piuttosto che riconoscere la fallacia delle loro affermazioni…
Il culto di U Thlen, il Serpente della Morte, ovvero: tutte le religioni sono buone?
di
Francesco Lamendola
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