L’Isis fa strage in Egitto
Hanno assaltato un gruppo di pellegrini. Un’azione vigliacca, al solito, preparata e perseguita come un’azione militare. Il bus, con alcune macchine al seguito, era diretto al monastero di San Samuele il Confessore. E portava un gruppo di gente, tanti i bambini, che andava a pregare. L’Isis ha colpito e ne ha ammazzati 28.
L’assalto è avvenuto nella regione egiziana di Minya: gli assassini, una decina, hanno bloccato la strada con dei Suv, poi hanno iniziato l’assalto, rubando i pochi averi dei pellegrini e intimando loro di convertirsi all’islam, come riferito da padre Antonio Gabriel, parroco di San Mina a Roma. Non hanno abiurato, sono stati uccisi. Martiri, appunto.
Gli assassini hanno pure filmato l’azione, come vuole la società dell’immagine di cui sanno usare, in maniera più che sofisticata, tutti gli strumenti e di cui si servono in maniera altrettanto sofisticata. Altro che islam tradizionale, ci troviamo di fronte a una perversione post-moderna. Ma questa è un’altra storia…
Durissima e addolorata anche la condanna di altre autorità islamiche del Paese, come quella dei cristiani copti e della Chiesa di Roma. Un attentato che segue quelli avvenuti nella domenica delle Palme alle chiese di San Marco e di Tanta, il 9 aprile scorso – 47 i morti allora -, i quali precedettero l’arrivo del Papa nel Paese, in una visita che aveva la finalità di compiere un altro passo sulla via dell’unità tra la Chiesa cattolica e quella Copta e di gettare ponti tra cristiani e islamici (si incontrò con Al Tayyb, allora).
Il governo egiziano esce scosso dall’ennesimo crimine perpetrato dagli Agenti del Male. Indebolito dalla vicenda Regeni, brandita come un maglio contro il Cairo nonostante sia evidente che il governo non aveva alcun interesse a perpetrare quel crimine (anzi), l’ennesima strage ne incrina ancora di più l’immagine.
L’Isis, che già affligge il Paese dal Sinai, vuole dimostrare che il generale Al Sisi non è in grado di controllare il Paese e di garantire protezione ai suoi cittadini. Vuole inoltre innescare odio tra la comunità cristiana e quella islamica: una strategia che l’Isis persegue ad ampio raggio ma che in Egitto ha tempi e modi più sincopati.
Questo perché l’Isis ha contezza delle difficoltà di Al Sisi, che oltre all’impegno in Sinai, volto a riportare sotto il suo controllo l’area, sta consumando le energie del Paese in Libia, sostenendo il generale Khalifa Haftar. E ciò perché teme che la Libia possa cadere preda di forze ostili all’Egitto, il che porterebbe caos anche alle sue frontiere occidentali.
L’eccidio di cristiani in Egitto è stato perpetrato poco dopo l’incontro tra Donald Trump e papa Francesco. Forse c’è un collegamento, forse no. Di certo quell’incontro ha suscitato preoccupazione e rabbia tra le fila delle Agenzie del terrore.
Trump vuole un attutimento dei rapporti con la Russia in funzione anti-terrorismo. L’unica strategia realistica per contrastare con efficacia il Terrore globale e per avviare quella distensione internazionale che toglierebbe agli agenti del male gli spazi di manovra di cui godono oggi (si veda ad esempio la cellula che ha fatto strage a Manchester, attiva appunto in un’area destabilizzata come la Libia).
Più Trump è isolato, messo in un angolo dai suoi avversari proprio sul russiagate (ovvero sui rapporti, veri o presunti che siano, tra i suoi uomini e Mosca), più il proposito di avvicinare Stati Uniti e Russia diventa aleatorio, come sanno benissimo gli strateghi del Terrore, la cui mente è raffinatissima.
Al di là dei dettagli della visita, da relegare nella casella gossip, l’udienza che Francesco ha dato a Trump rafforza, non ha importanza quanto, l’immagine del presidente Usa, che ne è uscito un po’ meno isolato.
La strage egiziana, quindi, può anche inquadrarsi nell’ottica di una vendetta e di un avvertimento postumo per quanto avvenuto in Vaticano.
Ma al di là delle ipotesi e delle ricostruzioni, restano le povere vittime della follia terrorista. I 28 morti di cui non sappiamo neanche il nome. Tra cui tanti bambini innocenti.
Morti ammazzati che in questo caso, grazie a Dio, nessuno identificherà con qualche immagine simbolica, una griffe più o meno stravagante, come accade per le stragi che il Terrore perpetra in Europa (i morti ammazzati dei Paesi arabi non fanno notizia).
Per loro basterà un semplice, banale, crocifisso. Come quello che riportiamo nella foto. Nessuna “griffe” per loro, nessun Je suis, solo un addolorato, grato, eterno risposo.
Leader Fratelli musulmani: il sangue dei cristiani verrà
versato a fiumi
L’attacco terroristico contro la comunità copta ortodossa avvenuto ieri nel governatorato di Minya da parte di un gruppo di uomini armati, costato la vita a 28 persone, ha coinvolto almeno tre veicoli su cui viaggiavano membri della minoranza cristiana. Gli attentatori avrebbero inoltre rubato oggetti di valore e gioielli in possesso delle vittime.
Il vescovo Agathon ha dichiarato che militanti hanno bloccato i tre veicoli a circa quattro chilometri dal monastero di San Samuel.
“I militanti hanno chiesto ai passeggeri se erano cristiani. Alla loro risposta affermativa hanno individuato gli uomini trascinandoli fuori dalle vetture prima di sparare”, ha dichiarato il vescovo. “Hanno rubato ogni cosa di valore in possesso delle vittime, compresi i pochi gioielli in oro delle donne”, ha sottolineato il prelato.
Un leader latitante dei Fratelli musulmani, Ahmed el Mugheir, ha lanciato un appello ai seguaci del movimento a uccidere i cristiani che “pagano il prezzo della loro alleanza con il presente regime”. In un messaggio su Facebook citato dai media egiziani e pubblicato poco dopo l’attentato ad un bus di pellegrini copti ortodossi nel governatorato di Minya (Alto Egitto), El Mugheir ha sottolineato: “Non vi è alcuna soluzione per loro, a meno che non vogliano riconciliarsi con i musulmani. Il loro sangue verrà versato a fiumi e nessuno si prenderà cura di loro”. AGENZIANOVA
Nota: Anche in Europa iniziano a manifestarsi molte preoccupazioni presso la comunità egiziana copta formata da immigrati egiziani fuggiti per sottrarsi alle persecuzioni dei radicali islamici. In Italia, a Torino, ci sono state manifestazioni di solidarietà con le comunità cristiane perseguitate in Egitto ed in altri paesi arabi dove avvengono continuamente stragi ed attacchi contro le Chiese cristiane.
La comunità cristiana copta in particolare esprime la sua condanna e la sua perplessità per il fatto che l’Europa non fornisce alcun aiuto alle comunità cristiane di Egitto, Siria ed Iraq ma al contrario si trova in stretta alleanza con quelle stesse formazioni islamiste radicali, di ispirazione wahabita e salafita, che sono i peggiori assassini e persecutori dei cristiani. Queste formazioni e questi gruppi terroristi sono tutti ispirati dalla ideologia wahabita/salafita diffusa dall’Arabia Saudita che viene riempita di armi dagli USA e dalla Gran Bretagna, di cui risulta stretta alleata. I cristiani copti rifugiati in Europa denunciano il fatto che l’Occidente ha di fatto abbandonato i cristiani ad un destino di persecuzioni e si è alleato con i peggiori regimi canaglia (come Arabia Saudita e Qatar ) che alimentano e finanziano i gruppi terroristi assassini di cristiani in tutto il mondo arabo.
Una domanda destinata purtroppo a rimanere senza risposta di fronte alla vigliaccheria dell’Europa ed alla politica di totale sottomissione agli interessi economici e strategici degli USA e dell’Arabia Saudita. Il sangue dei bambini cristiani assassinati in Egitto non risveglia le coscienze di quello che Juan Manuel Prada ha giustamente chiamato il “putridume europeo”.
La strage dei copti in Egitto. Una mano libica?
I cristiani copti stavano viaggiando verso il monastero di Anba Samuel. Un commando armato ha sparato contro l’autobus: almeno 35 morti, molti dei quali bambini
Questa mattina, a Minya, città di quasi 200mila abitanti a circa 250 chilometri a sud del Cairo, è stato preso d’assalto un autobus. Ad attaccarlo è stato un commando formato da dieci persone a volto coperto che, imbracciando armi automatiche, hanno aperto il fuoco sui quaranta cristiani copti che, dalla città di Beni Suef, stavano andando al monastero di San Samuele. Ne ha ammazzati 35, alcuni dei quali erano bambini. I feriti, una ventina in tutto, sono stati trasportati presso l’ospedale di Maghagha.
L’attentato di oggi in Egitto contro un bus che trasportava cristiani copti è l’ennesimo attentato terroristico contro questa comunità con radici millenarie, che vanta 10 milioni di fedeli, moltissimi appartenenti alla diaspora, che formano il 10% della popolazione del Paese a stragrande maggioranza musulmana. Dalle Primavere Arabe del 2011 e dalla cacciata di Hosni Mubarak, che godeva del sostegno dell’ex patriarca Shenouda III, i copti hanno vissuto in uno stato di crescente tensione che ha avuto il suo apice durante il periodo del governo del presidente islamista, Mohamed Morsi. Solo dal 2013 vi sono stati una quarantina fra aggressioni di cristiani e attacchi a chiese, in pratica un episodio al mese, con decine di morti.
L’epicentro delle violenze è l’Egitto rurale e in particolare la regione di Minya, il turbolento governatorato con il mix esplosivo di un 35% di popolazione cristiana e un forte radicamento jihadista. E proprio nella regione di Minya, a circa 250 chilometri a sud-ovest del Cairo, si è verificato l’attacco armato di oggi. Il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, che ha destituito Morsi promettendo di ripristinare l’ordine e di proteggere le minoranze, ha convocato una riunione di emergenza del Consiglio nazionale di sicurezza. Recentemente aveva ribadito che gli egiziani “sono tutti uguali nei loro diritti e nei loro doveri, in accordo con la Costituzione” e ha lodato la calma e la saggezza con cui la comunità cristiana sta rispondendo alle violenze. Una legge per punire ogni atto che mina all’unità nazionale e per allentare le limitazioni per la costruzione di nuove chiese è all’esame del Parlamento.
I copti sono una minoranza che ha sempre avuto un ruolo chiave nell’economia e nell’establishment dell’Egitto, anche se molti di loro oggi vivono sotto la soglia di povertà. Sono cristiani la maggioranza degli orafi e la gran parte degli impiegati nel settore farmaceutico del Paese, così come alcune delle famiglie più ricche dell’Egitto come i Sawiris, che controllano il gigante delle telecomunicazioni Orascom. Dinastie di copti hanno ricoperto incarichi politici di primo piano: un membro della famiglia Boutros Ghali ha sempre fatto parte dei vari governi prima della caduta di Mubarak e un suo esponente, Boutros Boutros Ghali, è stato ministro degli Esteri prima di diventare segretario dell’Onu.
Fin qui Sergio Rame – Ven, 26/05/2017
Al Sissi ha risposto bombardando terroristi in Libia
Subito dopo ed apparentemente come risposta a questa strage, il presidente egiziano Al Sissi ha ordinato sei incursioni aeree contro posizioni di jihadisti in Libia, nella zona di Derna.
Nel suo discorso televisivo alla nazione per lo sterminio dei pellegrini copti, il generale ha fatto numerosi riferimenti alla Libia e alle forze dell’ISIS che da lì minacciano l’Egitto. L’anno sorso, ha detto, oltre mille veicoli usati dai terroristi per passare il confine ed entrare in Egitto sono stati distrutti. Il presidente ha asserito che lo scopo di questi gruppi è far cadere l’Egitto. “C’è stata una ritorsione e ce ne saranno ancora”, ha detto.
Da notare il carattere non solo gratuitamente atroce dell’attacco al pulmann di pellegrini copti (è stato ammazzato anche un bambino di 2 anni), ma anche il suo aspetto voluto, preparato, freddo e mediatico: “Ci sparavano e filmavano tutto” (per il SITE?).
Una strage peggiore, anche questa freddamente pianificata, è avvenuta in Libia il 19 maggio : ben 141 soldati e piloti sono stati trucidati nella base aerea di Brak al-Shati, 650 chilometri a sud di Tripoli. Erano uomini dell’aviazione della cosiddetta Lybian National Army (LNA) del generale Haftar. Non si è trattato di un combattimento e ancor meno di un attentato esplosivo con kamikaze: i 141 uomini tornavano da una parata, erano disarmati, hanno subito un’esecuzione. Fra di loro molti civili, cuochi, lavandai che lavoravano nella base. Tutti sono stati uccisi, nessuno escluso.
I 141 ammazzati nella base di Haftar
A commettere l’enorme eccidio è stata la cosiddetta “terza forza”, la milizia del “governo riconosciuto dall’Onu” (ma non eletto) di Faez Sarraj, il prescelto dall’Occidente, a cui Haftar, sostenuto dal Cairo e da Mosca, non si sottomette. La milizia, fatta di scherani di Misurata, ha rivendicato la strage con queste parole: “ Abbiamo liberato la base e distrutto tutte le forze che vi erano dentro”.
La strage a freddo, plateale e voluta, rompe la malagevole tregua raggiunta ad Abu Dhabi con la mediazione del principe Mohamad bin Zayed alk Nahayan della UAE, che aveva radunato al tavolo Serraj e Haftar. Al Sissi era presente, insieme ad un diplomatico russo. Una settimana dopo, l’11 maggio, i due avrebbero dovuto incontrarsi al Cairo sotto la mediazione di Al Sissi: ma Serraj non s’è fatto vivo. Si dice che la sua milizia l’aveva minacciato di morte se andava a trattare.
Serraj s’è invece fatto vivo domenica all’incontro di Ryiad, dove è stato presentato a Trump (non informato delle atrocità commesse dai miliziani del “governante scelto dall’ONU”). L’inviato speciale dell’Onu per la Libia Antonio Guterres, e il capo della missione di supporto (UNSIMIL) Martin Kobler hanno ventilato che la strage possa essere portata davanti alla Corte Penale Internazionale. Avremmo così un “governante scelto dall’ONU” e non eletto da nessuno imputato per crimini di guerra.
Sarà il caso di ricordare che il 21 aprile Alfano e i media italiani strombazzarono un successo della nostra diplomazia, la “bilaterale Tripoli-Tobruk a Roma”: furono riuniti al tavolo il presidente del parlamento (eletto) a Tobruk Agelah Saleh e il capo dell’Alto Consiglio di Stato Abdurrahman Swehli. Due scartine. Fu, secondo i più seri osservatori internazionali, “una campagna di fantasia per convincere il mondo che due anni di guerra stavano in qualche modo per finire”, grazie a Roma e alla sua diplomazia.
Tutto perché la nostra pregiata diplomazia alla Gentiloni non riconosce che Haftar, col parlamento di Tobruk, oggi comanda l’ esercito più forte, controlla due terzi del paese e soprattutto la mezzaluna petrolifera; è sostenuto a da Al Sissi e da Mosca. Anzi, dal momento che Trump ha detto che gli Usa “Non hanno alcun ruolo in Libia”, è inteso che Washington lascia in Libia campo libero a Mosca. La quale, a fine maggio farà una esercitazione navale davanti alle coste libiche, ed ha affidato la cura di Haftar al presidente ceceno Kadirov; il quale ha qualche successo nella insolita veste di mediatore (sarà per questo che gli inglesi han tirato fuori la storia che in Cecenia, Kadirov tortura gli omosessuali, tanto golosamente ripresa dai media?).
Magari il buon senso suggerirebbe di affidare ad Haftar lo stroncatura della mafia scafista, mafia non solo libica ma italiana e UE; invece continuiamo a trattare Serraj come fosse il governante legittimo – che non riesce nemmeno a dar ordini alla sua milizia che si macchia dei crimini più atroci (e forse c’entra qualcosa anche col bus dei poveri copti). Adesso, la strage della base aerea ha riacceso una vera e propria guerra, con tiri d’artiglieria pesante attorno a Tripoli; sarà una lotta sanguinosissima.
Intanto apprendiamo che l’Italia “ha firmato domenica un accordo con Libia [sic], Ciad e Niger per frenare il flusso dei migranti rinforzando i controlli alle frontiere”. Le “frontiere”, in tal caso consistono in migliaa di chilometri di Sahara e Sub-ahar. Un altro successo della diplomazia italiana.
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