ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 31 marzo 2013

Ma vah?


Rivoluzione Laterano

Lasciare il Vaticano e tornare là dove il Papa ha la sua cattedra di vescovo. Così il primato petrino si mette in discussione per riconciliare le chiese separate

Ritorno a San Giovanni, nel senso del Laterano. Qui molti vorrebbero tornasse ad abitare il Papa, qui dove ancora è la sua vera cattedra, qui dove egli è anzitutto vescovo di Roma prima che capo di stato. Accetterà il successore di Pietro di tornare agli antichi albori, di abbandonare la residenza dorata vaticana per fare ritorno nel più umile, ma non per questo meno prestigioso, Laterano?
Difficile rispondere. Di certo c’è il fatto che è un tema, quello del ritorno alle origini del papato, tornato di moda in questi tempi in cui la chiesa cattolica, oppressa dalle colpe dei suoi membri (non soltanto la pedofilia del clero, ma anche “Vatileaks”, cioè la fuga di documenti riservati dall’appartamento papale, e le guerre intestine al Vaticano), cerca una nuova strada. Un tema, ancora, che la morte del cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, vescovo di popolo prima che d’istituzione (la base prima delle gerarchie, la collegialità prima del primato petrino, l’orizzontalità più che la verticalità), ha a suo modo riportato all’attenzione.

Ma il primo a volere il gran ritorno non è un alfiere della chiesa cosiddetta pauperistica, tantomeno del cattolicesimo definito del dissenso: è piuttosto un ratzingeriano doc che recentemente è entrato, nel mese di ottobre, nelle librerie italiane con un saggio su Bernadette Soubirous e la “verità storica” delle apparizioni di Lourdes. Roba, insomma, da far rabbrividire (o quanto meno sorridere) i discepoli di Martini, quelli che, come il defunto cardinale, credono più al Cristo della fede che al Gesù storico, alla fede che non necessita, anzi a tratti può addirittura arrivare ad aborrire, la miracolistica da santuari, l’afflato dei mistici, la fede tutta carne e corpo di Cristo.
L’insospettabile è lo scrittore cattolico Vittorio Messori che in una recente intervista al Foglio dice: “Ben venga un ritorno a San Giovanni”. E ancora: “Beninteso, a me la chiesa peccatrice piace, la chiesa dove la maggioranza dei fedeli non è, perché non può esserlo, del tutto santa. E ho paura d’ogni richiamo alla purezza che non tenga conto che il peccato spinge l’uomo, ogni uomo, giù, negli abissi, rendendolo in qualsiasi momento capace d’ogni possibile malvagità. La chiesa dove gli uomini tendono alla santità pur restando dei potenziali assassini. Ma nello stesso tempo penso che un ritorno a San Giovanni, sì, sia un tema. E lo sia da tempo, almeno dall’elezione di Albino Luciani”. Giovanni Paolo I, Pontefice di popolo, spinge il Vaticano a ripensare se stesso? “Ma va – dice –. Che c’entra?”. E allora? “Quando venne eletto Luciani capii che il Vaticano era finito. Mi chiamò Valerio Volpini, allora direttore dell’Osservatore Romano, e mi raccontò un episodio appena capitatogli che mi lasciò senza fiato. E pensai: a tal punto s’è ridotto il Vaticano, l’istituzione che tutto il mondo invidiava per la sua diplomazia, governance, tatto e praticità?”. Che successe? “Volpini era un esperto latinista. Mi disse, sconvolto, che la notte dell’elezione di Luciani dovette stracciare la prima edizione dell’Osservatore già data alle stampe. Stracciarla e farne una tutta nuova. I suoi giornalisti, infatti, sbagliarono clamorosamente il titolo d’apertura.
Al posto di scrivere ‘Qui sibi nomen imposuit…’ scrissero a tutta pagina ‘nominem’, dimenticando che ‘nomen, nominis’ è termine neutro e all’accusativo resta ‘nomen’”.Un errore veniale? “Un errore madornale, peccato mortale altro che veniale, che diceva già allora dell’incompetenza che serpeggiava in Vaticano. Un’incompetenza che ha investito oggi diversi settori. Cosa dice in fondo tutto l’affaire denominato ‘Vatileaks’? Che ci sono troppe persone inadeguate in posti nei quali non dovrebbero stare. Un tempo le diocesi mandavano i propri migliori sacerdoti a lavorare in Vaticano. E anche i pochi laici venivano scelti con giudizio. I seminari traboccavano di candidati al sacerdozio e da ogni nidiata veniva scelto il migliore e lo si spediva a Roma. Era anche un modo con cui i vescovi si facevano belli con cardinali e papi. Oggi non è più possibile. Oggi i seminari sono vuoti. A Torino, per esempio, l’anno scorso sono stati ordinati due, dico due, preti, dei quali uno nemmeno cresciuto in diocesi. Mentre a Milano si parla di chiudere Venegono, lo storico seminario ambrosiano. Certo, preti scelti come erano quelli di decenni fa non ce ne possono più essere. Ma questa mancanza, questa deficienza, seppure data dai tempi e non da colpe particolari della chiesa, obbliga la stessa chiesa a un ripensamento che ancora non è avvenuto. Questa carenza numerica, insomma, incide anche sulla qualità di coloro che lavorano in Vaticano. Ecco perché il ritorno a San Giovanni avrebbe un senso. Perché sarebbe un ridimensionamento legittimo. E’ una questione di realismo: la chiesa di Pio XI e di Pio XII, la chiesa delle grandi masse popolari, non esiste più. La Spagna cattolica, l’Austria cattolica, il Québec cattolico, dove sono finiti? Spariti, volatilizzati. Un Vaticano tutto ‘ministeri’ e personale addetto non ha nessun senso. Non c’è nessun bisogno di tutta questa burocrazia, di tutti questi uffici, di tutta questa manovalanza. Meglio il ritorno al Laterano, il ridimensionamento. Occorrerebbe in questo senso guardare di più al cardinale John Henry Newman. Egli pensava che alle virtù cardinali occorresse aggiungerne due: lo humor e il realismo. Humor e realismo potrebbero convincere chi di dovere che il tempo è maturo: tutti al Laterano”.
Il Papa capo della chiesa, dunque, ma anzitutto vescovo di Roma, anche se non italiano. Anche perché, tra l’altro, chi pensava valesse soltanto l’esatto contrario, chi pensava cioè che il vescovo di Roma dovesse essere per forza di cose solo e soltanto un italiano, si è contraddetto alla prova dei fatti. Il cardinale Stefan Wyszynski, primate polacco, disse in occasione del primo Conclave del 1978: “Personalmente ritengo che il vescovo di Roma, e quindi il primate d’Italia, può essere solamente un italiano. Ciò è conforme al diritto naturale”. Ma nelle settimane successive, dopo la morte di Luciani, lavorò strenuamente per la nomina di un non italiano, appunto Karol Wojtyla. E poi Joseph Ratzinger. Gli chiesero prima dell’elezione di Wojtyla se ritenesse che, dopo Paolo VI, sarebbe stato eletto un Papa non italiano. Rispose: “Diciamo che in linea di massima potrebbe accadere. In passato è già avvenuto. Personalmente non sarei molto a favore”, perché “occorre ricordare che il Papa è il vescovo di Roma. Egli non riveste soltanto una carica al di sopra di altre cariche, ma è il vescovo di una chiesa locale, in questo caso quella di Roma. Nella sua veste di vescovo di Roma, è contemporaneamente responsabile per la chiesa nel mondo. A mio avviso è necessario ribadire questa impronta locale della carica papale. Vale a dire: egli è prima di tutto vescovo di una città, e questo va ribadito”. Già, egli è anzitutto vescovo locale, di Roma, e può esserlo anche se tedesco, come la sua elezione al soglio di Pietro dimostra.
Non è necessario essere giornalisti per lanciare l’idea di un ritorno al Laterano e non rischiare d’incappare in scomuniche dall’ex Sant’Uffizio. Anche un teologo domenicano di fama mondiale fece la medesima operazione nel 1982 e sostanzialmente nessuno lo contestò. L’idea di padre Jean-Marie Tillard, infatti, figura chiave del cattolicesimo nel dialogo tra le diverse confessioni cristiane, è – secondo quanto scrisse nel fortunato saggio “Il vescovo di Roma” – una: la messa in discussione del primato giuridico del Papa, ostacolo principale per la riconciliazione tra le chiese separate. Il suo modello ecumenico è l’autonomia di giurisdizione delle chiese locali, riunite da relazioni privilegiate con il vescovo di Roma. Il suo, insomma, non è un semplice ritorno ai tempi dei papi residenti al Laterano. E’ di più, è un ritorno che scavalca il primato, un ritorno che insiste sull’essere vescovo di Roma del Papa più che sul suo essere capo della chiesa in quanto “monarca” del Vaticano.
Il ritorno a una chiesa “meno istituzione” è un tema che Carlo Maria Martini ha fatto più volte proprio. E che nei giorni della sua morte è tornato attuale. Del resto, ne ha parlato sostanzialmente lui stesso nell’intervista che ha rilasciato a Federica Radice Fossati e al gesuita padre Georg Sporschill dedicata al futuro della chiesa cattolica. Un’intervista pubblicata postuma dal Corriere della Sera con il titolo: chiesa indietro di 200 anni.
Martini ricorda Karl Rahner, che “usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere”. E aggiunge: “Io vedo nella chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque”. Dodici persone fuori dalle righe. Dodici e non di più. Qui, più che un ritorno a San Giovanni, c’è un ritorno agli apostoli, ai tempi evangelici, come se la chiesa attuale non sapesse più essere quella di un tempo. È forse questo desiderio di purezza che anche il mondo cosiddetto laico apprezza in Martini.
Una purezza auspicata, ad esempio, dal cantante Franco Battiato, che ha detto a un giornalista del Fatto quotidiano nelle ore seguenti il trapasso di Martini: “Prenda le esequie del cardinal Martini. Ratzinger, in un momento simile, sarebbe dovuto andare a Milano a piedi”. Perché? Perché Martini, nell’idea di Battiato, è l’immagine della purezza, del cattolicesimo inteso come biancore abbagliante Dice in proposito ancora Messori: “Qui faccio un passo indietro. Questa purezza è un mito e come tale non può esistere. Come mitologica è l’immagine che in molti si sono fatti del cardinale Martini. Egli non voleva un ritorno a San Giovanni – continuiamo pure a chiamarlo così – contro il Vaticano o il primato di Pietro. Egli voleva un ritorno a San Giovanni nel senso di un ritorno a una fede senza storia. Una fede in Cristo e non in Gesù storico. Credere in Gesù significa credere nella chiesa, anche nell’istituzione come necessaria. Ma lui, come molti biblisti avvezzi a scandagliare con il metodo storico critico la scrittura fino ad arrendersi all’evidenza che il testo sacro può essere tagliuzzato in mille modi e portare anche a ritenere che Gesù non è mai esistito, in fondo non credeva. Almeno questa è la convinzione che mi sono fatta da decine di incontri che ho avuto con lui. O meglio, egli credeva al Cristo della fede ma non a Gesù come persona realmente esistita. Per lui il Cristo dei vangeli non era assolutamente il Cristo reale. In questo senso egli è stato eroico. Ha vissuto una vita esemplare senza credere nella persona di Gesù. E, infatti, quando divenne biblista e iniziò a studiare, voleva lasciare la Compagnia di Gesù. Voleva fare un passo indietro, tanto fu lo scandalo che il suo cuore subì. Come Martini la pensavano anche Karl Barth e Rudolf Karl Bultmann. Ma più che a loro, quando penso a Martini mi viene in mente il teologo luterano tedesco Albert Schweitzer. Questi, nell’impossibilità di ricostruire storicamente e in modo compiuto la vita di Gesù, fece una scelta puramente etica che lo ha condotto a recarsi come missionario in Africa, dove si è dedicato al lebbrosario di Lambaréné. Una vita dedicata a Gesù quale modello di eticità più che una vita spesa per Gesù in quanto Figlio di Dio realmente esistito. Una scelta opinabile ma comunque senz’altro eroica”.
Non solo per Martini, ma per molti insieme a lui la chiesa è oggi vecchia e stanca, logora anche nei suoi paramenti. A quando un ritorno all’essenziale? Pietro De Marco, docente all’Università di Firenze e alla facoltà teologica dell’Italia centrale, scrive in una nota pubblicata sull’Occidentale e poi in forma più sintetica su www.chiesa.it, che “l’idea delle dodici persone al governo della chiesa, vicine ai poveri e circondate da giovani, ‘in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque’, sa di utopismo visionario. La letteratura del Novecento europeo (penso al Maximin di Stefan George) è ricca di giovani che aprono la storia ‘nuova’ con il passo leggero e lo sguardo puro di chi non è gravato di passato. Ma nella vitalità di una tradizione religiosa non è la condizione giovane come tale che conta. Giovanni Battista non è profeta perché giovane”.
Che sia utopismo visionario o che non lo sia, un dato è certo. Palazzo e basilica del Laterano sono pronti. I segni dei tempi che furono sono ancora rimasti intatti. C’è ancora l’antica incisione lungo l’architrave del nobile portico che indica la basilica come “Madre di tutte le chiese”. Basilica anteposta anche alla basilica di San Pietro, così ancora oggi, benché dopo il ritorno dei papi da Avignone abbia perso la sua importanza. Sulla balaustra della facciata le statue raffigurano il Cristo, i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista e i dottori della chiesa. All’interno la pianta è a croce latina con cinque navate. Il soffitto è sontuoso, e alle pareti si schierano i profeti, i santi e gli apostoli voluti dal Borromini, ma eseguiti nel XVIII secolo dai suoi seguaci. Ricchissima di opere, affreschi, sculture e sepolcri, questa basilica è un autentico tesoro per l’architettura italiana. E pure per il Vaticano. Non è un mistero per nessuno che Giovanni XXIII pensasse di tornare in Laterano, non definitivamente, ma almeno per qualche giorno durante l’anno. Per lui era un modo per ridare importanza alla cattedra papale. Ma insieme, chissà, anche un modo per ridimensionare l’enorme struttura vaticana.
Dopo di lui Paolo VI, che molto insistette sul ruolo del Papa come vescovo di Roma, chiedendo alla diocesi di Roma di “non intraprendere alcunché di importante prima di averlo riferito a noi”. Paolo VI teneva molto al Laterano, basilica e palazzo. In un discorso del 1975 ricordò quando era piccolo e vide per la prima volta il palazzo decadente e disabitato. Disse: “Io mi ricordo che la prima volta che venni a Roma (avevo otto anni e mezzo) si fece con la mia famiglia una escursione fino a San Giovanni in Laterano; ricordo ancora benissimo il senso di desolazione che mi sorprese in quella grande casa, tetra, chiusa, abbandonata d’intorno… e mi dissero: questa è la ‘Mater et caput…’. Ricordo poi tutte le volte che, venuto a Roma, giovane studente, appena detta la santa messa, avevo occasione di passare davanti a quell’edificio, bello ma cadente: lo si vedeva dalle finestre e dalle porte chiuse, dall’impossibilità d’entrare. Ricordo il senso di disagio che mi metteva la stessa basilica di San Giovanni: la sera era come penetrare in una caverna, senza luce; cinque navate buie e paurose a chi osava inoltrarsi. E sempre, fino da allora, i ragazzi e i giovani sognano: da qui bisogna ridare vita alla chiesa romana”.
Certo, il ritorno al Laterano comporterebbe anche una riforma drastica di quella curia romana che Ratzinger non è riuscito a fare. Già, perché il suo pontificato sarebbe andato senz’altro diversamente se la macchina del governo, appunto la curia romana, fosse stata riformata come da molte parti se ne rileva la necessità. Ai tempi di Giovanni Paolo II governare la curia romana era difficile almeno tanto quanto oggi. Il duo Ratzinger-Bertone (appunto il suo segretario di stato) era sulla carta parecchio affiatato. Per molto tempo avevano lavorato assieme quando Ratzinger era prefetto della congregazione per la Dottrina della fede e Bertone ne era il segretario. Eppure i problemi non sono mancati. Eppure, evidenti problemi di governo sono emersi. Ed è principalmente a motivo di un governo non pienamente efficiente, prima che per colpe di altro tipo, che la chiesa è dovuta sbandare più volte e in modo pericoloso, fino alla deriva degli ultimi mesi.
Di chi è la colpa? La tesi che oggi la maggior parte degli storici vaticani difficilmente confuterebbe è che il problema di governo è anzitutto ascrivibile alla segreteria di stato, il “ministero” più importante del Vaticano perché chiamato a gestire a stretto giro tutti i dossier papali interni e verso gli Stati esteri. Al di là delle incompetenze degli uomini, è questo “ministero” ad avere problemi strutturali in sé, difficoltà che molto hanno contribuito a trascinare il pontificato di Ratzinger verso la fine.
Occorre partire da Sisto V. Papa Felice Peretti, alla fine del 1500, ebbe la brillante intuizione di impostare una gestione del governo della curia romana altamente democratica, diciamo orizzontale. La segreteria di stato non era, come invece è oggi, un “super ministero”. Ogni capo dicastero rendeva direttamente conto del proprio operato al Papa e tutti erano di pari grado. E così fino a Papa Giovanni XXIII. Paolo VI, invece, forte di svariati anni trascorsi a lavorare in segreteria di stato prima di divenire arcivescovo di Milano (ultima tappa prima dell’elezione), una volta salito al soglio di Pietro decise che era opportuno, per una maggiore praticità, interrompere questo sistema di governo e far sì che alla segreteria di stato venisse concesso maggiore potere e, in particolare, far sì che essa fungesse da collo di bottiglia per le richieste che i vari capi dicastero della curia volevano fargli giungere. In questo modo una nuova modalità di governo della curia romana venne introdotta, e ha portato il cardinale segretario di stato a guadagnare sempre maggiore peso e potere.
Oggi è questo peso e questo potere che Bertone ha patito. Perché un conto era essere segretario di stato trenta anni fa, quando il mondo era diverso e le problematiche che la chiesa aveva da affrontare non dovevano essere risolte con la velocità e la prontezza che è richiesta ora. Un conto, ancora, era essere segretario di stato nell’ultimo decennio del pontificato di Wojtyla quando tutto quello che il Papa aveva fatto e tutto quello che stava vivendo mettevano in secondo piano eventuali errori di governo. Altra cosa è essere il primo collaboratore del Papa oggi, durante un pontificato perennemente sotto gli occhi dei media, come anche di quei settori della chiesa che non hanno mai smesso di vedere nell’ancoraggio di Benedetto XVI al primato della verità una volontà di chiusura e di ritorno al passato.

Il testo pubblicato in questa pagina, “Il ritorno in Laterano”, è il terzo capitolo dell’ultimo libro di Paolo Rodari, “La chiesa ferita - Papa Francesco e la sfida del futuro” (Giunti, 128 pp., 10 euro) in libreria dal 22 marzo scorso. Giornalista per il quotidiano Repubblica, Rodari ha scritto il libro “di getto, nelle notti insonni intercorse fra la rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco”. Si tratta di un volume che cerca di entrare nei motivi che hanno spinto Ratzinger alla rinuncia tratteggiando al contempo un quadro delle “sfide enormi” che ha di fronte Bergoglio. Dove andrà la chiesa dopo gli anni travolgenti di Giovanni Paolo II e quelli più rigorosi di Benedetto XVI?. Cosa inizia con l’arrivo di un Papa che per la prima volta nella storia decide di chiamarsi Francesco e dice a tutti di essere il vescovo di Roma? Quale svolta epocale è in atto nella storia della chiesa?
di Paolo Rodari

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