Rilancio l’articolo scritto dal magistrato Alfredo Mantovano, consigliere di sezione penale alla Corte di Cassazione, pubblicato sul sito del Centro Studi Livatino, di cui ne è vicepresidente, che spiega bene alcuni particolari della circolare che consente la partecipazione alle celebrazioni del 25 aprile di partigiani e combattenti. Viene messa anche in evidenza la differenza di “trattamento” da parte del Governo tra la celebrazione civile (25 Aprile) e quella religiosa (messe) ai fini della sospensione a causa della pandemia da coronavirus.
Ho trascorso al ministero dell’Interno quasi nove anni, dal 2001 al 2011, con un breve intervallo. Ho apprezzato la dedizione e la competenza di quanti fanno parte di una amministrazione che nella sua articolata struttura è la vera ossatura dello Stato: ne conservo un ricordo grato, perché in questa lunga esperienza ho avuto esempi veri di senso delle istituzioni, di rigore nelle decisioni, di considerazione della complessità dei problemi.
Per la stima che nutro quasi d’istinto verso quel ministero, e verso chi vi lavora, ho pensato che fosse una ‘fake’ la circolare del Gabinetto del Ministro inviata a tutti i Prefetti, recante la data del 22 aprile e l’oggetto del 75° della festa della Liberazione (qui la circolare del Ministero).
Non mi soffermo sul merito: il Viminale, d’intesa con Palazzo Chigi, ritiene che, nonostante l’emergenza, siano consentite le celebrazioni dell’anniversario, e che a esse prendano parte anche le Associazioni partigiane e combattentistiche, col doveroso rispetto delle regole del distanziamento. La Presidenza del Consiglio peraltro, con un comunicato sempre del 22 aprile, rispondendo all’ANPI-ass.partigiani d’Italia, ha voluto rimarcare che dalle cerimonie l’Associazione non è in alcun modo esclusa. Non mi soffermo sul merito, pur se vi sarebbe da osservare che ai cattolici italiani è stata preclusa pochi giorni fa qualsiasi memoria pubblica della loro festa più importante, la Pasqua, senza tentare di conciliare la partecipazione alla Messa col possibile rispetto delle regole di distanziamento e di igiene (per non dire delle celebrazioni interrotte dalle forze di polizia). E che non solo ai cattolici ma a tutti gli italiani è preclusa da due mesi, a norma di decreto legge e di dPCM, di assistere alla cerimonia cui ogni civiltà collega il commiato con un proprio caro: per un funerale non sono permesse neanche dieci persone in una chiesa che ne contenga trecento. È vietato e non si discute!
Mi soffermo su due aspetti non di merito, ma non per questo non marginali del provvedimento.
Il primo. Una circolare di un Ufficio di Gabinetto deroga a due chiarissime norme a essa sovraordinate, che prescrivono il contrario. L’art. 1 comma 2 lett. h) del decreto legge 25 marzo 2020 n. 19 include espressamente fra le misure di contenimento la “sospensione delle cerimonie civili e religiose”. In attuazione di tale disposizione l’art. 1 comma 1 lett. i) ultimo periodo del dPCM 10 aprile 2020 conferma che “sono sospese le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”. La parola chiave è “cerimonie”; non vi è eccezione fra “civili” o “religiose”: sono tutte inderogabilmente “sospese”, al punto che – come è accaduto – se un prete celebra la Messa davanti a 13 persone distanziate metri l’una l’altra intervengono i Carabinieri. La medesima parola chiave “cerimonia” compare nella circolare del Viminale: “si potranno (…) ritenere consentite forme di celebrazione della tradizionale cerimonia di deposizione di corone ecc.”. Quelle “cerimonie”, che un atto avente forza di legge e un dPCM espressamente “sospendono”, una circolare del Gabinetto del ministro dell’Interno consente, con l’avallo della Presidenza del Consiglio.
Secondo aspetto. Riprendo il passaggio appena riportato senza saltare alcun termine: “si potranno, in qualche modo, ritenere consentite forme di celebrazione della tradizionale cerimonia ecc.”. “In qualche modo”? Qual è il senso giuridico dell’espressione “in qualche modo”? Una condotta o è permessa, o è vietata, o è permessa nel rispetto di condizioni che però vanno esplicitate: “in qualche modo” pare rientrare nella terza categoria, ma qual è il “modo”? Ciascun prefetto viene delegato a far svolgere cerimonie vietate da una norma di legge, secondo modalità che – certo col necessario distanziamento – potranno variare per ognuna delle cento province d’Italia.
Si è scritto tanto del caotico e contraddittorio profluvio di disposizioni che da febbraio alluvionano, insieme col Parlamento, l’esistenza degli italiani, comprimendo diritti fondamentali, talora – in nome dell’emergenza – superando confini che avrebbero dovuto ritenersi invalicabili, pur in emergenza. Si discute dello scardinamento di principi in tesi intangibili, di prassi abnormi, come l’abrogazione con decreto legge di norme approvate pochi giorni prima con altro decreto legge, senza che il primo sia ancora convertito in legge, di dPCM che superano i limiti dei D.L. che li autorizzerebbero.
Questo sito da oltre un mese, grazie a contributi quotidiani di giuristi di varia competenza, fa i conti con tale schizofrenica legislazione emergenziale, provando a comprenderne i risvolti e a indicare qualche ipotesi di ragionevole rettifica, e immaginando che cosa resterà della congerie di disposizioni varate senza sosta quando – Dio piacendo – la pandemia cesserà.
Quando si farà un bilancio delle norme pubblicate in queste settimane, questa circolare meriterà una cornice di riguardo. Perché è riuscita in poche righe, nel modo più plastico ed evidente, a demolire ciò che agli studenti di diritto nelle scuole medie viene insegnata essere la gerarchia delle fonti. E per averlo fatto, oltre che col rango del provvedimento adottato – in virtù del quale domani in tutta Italia quanto sancito da un atto amministrativo sovrasterà una norma di legge in vigore – con una formula che potrebbe essere l’occhiello della Gazzetta Ufficiale dell’emergenza: “in qualche modo”.
Di Sabino Paciolla
Bisagno, il partigiano giusto ispirato dal Vangelo
Il occasione del 25 aprile gratis oggi e domani il docufilm di Marco Gandolfo sul comandante della Divisione Chichero Aldo Gastaldi. Rispettato e giusto, vide prima di tutti gli eccessi del nuovo fascismo rappresentato dai partigiani comunisti. Ancora oggi poco celebrato, ma è avviata la causa di beatificazione.
“Viviamo nel provvisorio, nel relativo. Tira a campà! I santi no. Gli eroi no”. Inizia con queste parole della poetessa Elena Bono il docufilm “Bisagno”, che fino al 26 Aprile sarà visibile gratuitamente in streaming su Vimeo. A quasi 70 anni dalla sua morte misteriosa, Aldo Gastaldi (Genova, 17 Settembre 1921 – Desenzano del Garda, 21 Maggio 1945, M.O. al valor militare) , nome di battaglia “Bisagno”, “primo partigiano d’Italia”, resta un esempio cui anche oggi i giovani possono ritrovare i tratti di una vita spesa bene, perché fondata su scelte di Verità e di Libertà, non di menzogna e di schiavitù.
Nel docu-film di Marco Gandolfo, presentato all’Università Cattolica di Milano in prima nazionale il 29 Aprile 2015, e poi riproposto in molti cinema italiani, fino alla pubblicazione del libro e del DVD omonimo, gli ultimi testimoni svelano una Resistenza lontana dalla retorica, perchè illuminata dallo sguardo ancora limpido del loro comandante.
Subito dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, Aldo Gastaldi, ufficiale marconista nel 15° Reggimento Genio nella caserma di Chiavari, decise di non restituire le armi ai tedeschi, ma le nascose e salì in montagna con un ristretto gruppo uomini, nel paese di Cichero, alle pendici del monte Ramaceto, per organizzare la resistenza contro gli ex alleati che ora erano diventati invasori. Nei mesi che seguirono prese vita la Divisione Cichero, di cui Bisagno fu comandante. Impostò la vita partigiana secondo precise regole militari e morali, dando vita a quella che poi sarà chiamata la “scuola di Cichero”.
Tutti lo descrivono come un uomo dalla forte personalità, con straordinarie doti militari e di comando, capace di farsi obbedire ed amare nello stesso tempo, poiché sapeva conquistare la fiducia dei suoi uomini con l’esempio che dava e che chiedeva: è il primo ad esporsi ai pericoli e mangia per ultimo, a lui sono riservati i turni di guardia più pesanti; gli uomini al suo comando non devono toccare le donne e devono rispettare la popolazione, senza appropriarsi di nulla, a meno che non venisse loro offerto, e comunque sempre pagato al prezzo del mercato nero; non bisogna bestemmiare e occorre fare sempre tutto il possibile per salvare la vita degli uomini nelle azioni di guerriglia, anche la vita dei nemici. Emerge dunque nelle montagne, la figura di un capo, dotato di un carisma eccezionale, che trae ispirazione concreta dal Vangelo, per cui capo non è colui che è servito, ma colui che serve, non è colui che domina, ma colui che cerca di rendere l’uomo e il mondo migliori.
La forte personalità e statura morale di Bisagno emergono anche dalle molte lettere che la famiglia Gastaldi conserva e che costituiscono il testamento spirituale di questo giovane italiano, cristiano e partigiano. In una lettera all’amico Gech, scrive: “Ci siamo accorti, Gech, che il metodo fascista nelle nostre file non è morto; ci siamo accorti che il fascismo rivive sotto altri nomi, ci siamo impegnati di condurre a fondo la nostra lotta contro tutto ciò che è falso, che è sgradevole, disonesto, ingiusto. Per combattere il falso, lo sgradevole, il disonesto, l’ingiusto, è necessario essere leali, onesti e giusti”. Bisagno seppe comprendere con sorprendente tempestività e consapevolezza quale fosse la sua personale responsabilità nella storia del suo tempo e comprese di dover fare la sua scelta. In una lettera a suo padre scrive: “Sono riuscito a comprendere che la mia vita non devo viverla solo per me, ma è come quella di un albero che, per diversi anni, ha strappato fatiche al giardiniere. Ora che è il momento del frutto, non è sua facoltà, ma suo dovere fruttare”.
Pur così giovane, seppe esprimere una maturità umana e spirituale straordinaria, servendo la sua Patria con spirito di servizio, combattendo per la vera Libertà che nasce dalla ricerca di Dio e della sua volontà. Quando aveva soli 20 anni scrisse ai suoi genitori: “Non trovai nessuno, sulla terra, che potesse darmi giustizia e pace. Ma trovai l’una e l’altra in Dio. Con Lui ho compreso che la gloria terrena è molto effimera e passeggera, mentre la gloria di Dio è eterna”.
Bisagno fu come un padre per i suoi uomini, che infatti lo consideravano tale e ne riconoscevano l’autorità morale, oltre che di comandante. Persino i nemici ne avevano rispetto e timore nello stesso tempo, ma la sua coscienza limpida, che si rifletteva nel suo sguardo fiero, dritto, disarmante, non poteva essere tollerata da chi faceva scelte opposte. “Provo piacere – scrive Bisagno ai suoi partigiani – nel vedere che in Italia ci sono ancora tanti giovani che sanno vedere la verità e non si lasciano offuscare la vista da subdoli giuochi di gente che nello stesso tempo confessa di lottare per la liberazione dell’Italia e premette che “prima della Patria c’è il partito”. Noi non abbiamo un partito, noi non lottiamo per avere un domani un “careghin” (una “poltrona” ndr). Vogliamo bene alle nostre case, vogliamo bene al suolo nostro e non vogliamo che questo sia calpestato dallo straniero”.
Pur consapevole dei rischi che correva per non essersi voluto adeguare a miserabili logiche mondane di potere, Bisagno volle compiere fino all’ultimo il suo dovere e, per garantire l’incolumità di alcuni suoi partigiani, ex alpini del “Vestone”, originari del Veneto e della Lombardia, cui lui aveva prima salvato la vita e poi convinto a passare nelle sue fila, li accompagnò personalmente a casa su esplicita richiesta del Comandante Paroldo, a Desenzano del Garda. Nel viaggio di ritorno, dopo aver riportato tutti i suoi uomini alle loro famiglie, morì a Bardolino, il 21 Maggio 1945. La relazione ufficiale del commissario politico della divisione, parla di una “caduta accidentale dal tetto del camion utilizzato per il viaggio”. In realtà la dinamica non fu mai chiarita in modo chiaro e convincente.
Al suo funerale, a Genova, partecipò una folla impressionante e la sua fama di santità iniziò a prendere il volo, fino all’apertura della sua causa di beatificazione, il cui annuncio pubblico è stato dato a Rovegno (Genova, Alta Val Trebbia) lo scorso 15 Giugno 2019. Perciò adesso possiamo chiamare Bisagno “Servo di Dio”.
In occasione della proiezione del film in Cattedrale a Genova, lo scorso 29 Gennaio, S.E. il Card. Angelo Bagnasco, ha detto: …”A volte ci sentiamo come in una prigione, nella nostra vita, non perché dobbiamo fare il nostro dovere, non è questa la prigione. Ma è la pochezza, la banalità, la neutralità, la mediocrità con cui l’aria che respiriamo vorrebbe farci vivere. Mentre invece c’è l’impulso, come anche è stato ricordato, verso ben altro. Un ben altro che non ci estranea dalla storia…Una fede forte, una vita intima con il Signore, che si nutre anche di silenzio, di solitudine, grande coraggio, in un mondo rumoroso e distratto, non ci estranea dalla storia. E Aldo ha fatto un pezzo di storia. E ha guardato sempre il cielo…La preghiera porta alla vita, e la vita senza preghiera rischia di rimpicciolirsi, di diventare quasi banale. E allora, più guardiamo a Dio, come Aldo, più riusciamo a vivere la nostra storia. Le piccole cose quotidiane, non in modo meschino, ma in modo grande, cioè in modo straordinario. Anche questa è una grande lezione di cui abbiamo bisogno nei nostri tempi, forse più che in altri tempi. Perché, come dicevo, tutto quanto tende un po’ a schiacciare l’anima, e schiacciando l’anima si schiaccia la vita e la gioia, e tutto diventa noioso, ripetitivo, quasi inutile, pesante, strascicato. Qui siamo in un esempio totalmente contrario”.
“Ricordatevi: in montagna si è vissuto, e si è pregato”, conclude il partigiano “Bisturi” nel film. E Bisagno anche oggi ci dice proprio questo: la vita è scelta, è responsabilità, è fare la storia, pregando.
Stefania Venturino
https://lanuovabq.it/it/bisagno-il-partigiano-giusto-ispirato-dal-vangelo
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.