ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 10 agosto 2020

Un terreno di incontro

Pro o contro il Concilio, la Chiesa nel vortice. Linee guida per una pacificazione



(s.m.) Il rigetto dell’intero Concilio Vaticano II, propugnato a fine giugno dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ha riacceso prepotentemente la disputa su quel Concilio, sulla sua ortodossia od eresia.

È sperabile che questa disputa non produca uno scisma ma piuttosto un confronto equanime che metta finalmente in luce la “verità” di quel grande evento?

È ciò che auspica, in un’ampia e argomentata nota inviata a Settimo Cielo, il professor Pietro De Marco (nella foto), filosofo e storico di formazione, già docente di sociologia della religione nell’Università di Firenze e nella Facoltà teologica dell’Italia centrale.

Precedono il testo, per agevolarne la lettura, un “abstract”, un breve sommario della nota stessa, e i rimandi a tutti i post di Settimo Cielo dedicati alla questione, in ordine cronologico.

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ABSTRACT

La disputa, di estensione internazionale, che si è accesa sullo statuto di verità del Concilio Vaticano II, ovvero sui suoi errori, sulla sua costitutiva eresia, va presa sul serio, esaminata, appunto, nella sua verità.

L’autore sostiene la necessità di un accordo preliminare che permetta sia alla maggioranza pro-conciliare (moderata o radicale) che ha assorbito un Concilio parziale o di maniera, sia alle minoranze critiche tradizionali e tradizionalistiche, di trovare il terreno di confronto. Questo accordo richiede:

a) la rinuncia al pregiudizio discontinuista che impedisce (nei tradizionalisti come nei conciliaristi radicali) l’esame del “corpus” conciliare per ciò che esso è, genealogicamente e testualmente, e anzitutto come evento della Tradizione;

b) il riconoscimento di uno o più sottoinsiemi problematici nel “corpus” conciliare, che sembrano legittimare le opposte visioni del Concilio come frattura;

c) il riconoscimento che il lavoro dei Padri e dei periti conciliari intese svolgersi in continuità sostanziale con l’ordine cattolico, istituzionale e dogmatico, ricostruito dopo la crisi modernistica;

d) la realtà, spesso diagnosticata dai critici tradizionali, di culture teologiche neo-modernistiche responsabili del travisamento dei testi conciliari, nelle diverse fasi del post-Concilio.

L’esame oggettivo della “intentio auctorum” potrà evitare quella sopravvalutazione, in direzioni opposte, dell’evento-Concilio, che ha condotto novatori e utopisti ad abbandonarlo per realizzarlo, e tradizionalisti a cristallizzarlo per condannarlo “in toto”.

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I PRECEDENTI POST SUL TEMA

> L'arcivescovo Viganò sull’orlo dello scisma. La lezione inascoltata di Benedetto XVI (29.6.2020)

> Sul Concilio una lettera di Viganò e una lezione di Brandmüller. Chi ha ragione e chi no (6.7.2020)

> Ecco perché tra Viganò e Brandmüller ha ragione il cardinale. Una lettera (9.7.2020)

> Le “fake news” di Viganò e soci, smascherate da un cardinal
e (13.7.2020)

> Un vescovo e teologo rompe il silenzio contro le “banalità” di Viganò e soci (20.7.2020)

> Sempre più accesa la disputa sul Vaticano II. Le lettere di un teologo e di un arcivescovo (27.7.2020)

Ai post di Settimo Cielo può essere utilmente aggiunto anche questo commento di John Cavadini, docente di teologia alla University of Notre Dame e membro della Commissione Teologica Internazionale dal 2009 al 2014, specialista dei Padri della Chiesa. Il commento è apparso il 28 luglio su “Inside the Vatican”:

> Was Vatican II really the “seed of error”? Or was it “a truth only half received?”

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NEL MAELSTRÖM

di Pietro De Marco

Caro Magister, sto seguendo con una certa attesa la discussione in corso, in diverse sedi tra le quali Settimo Cielo, sull’ermeneutica del Vaticano II. Proprio perché i termini sono spesso crudi ed espliciti (verrebbe da dire, finalmente) essa non manca di verità. La questione del Concilio, del suo significato ultimo, della sua autorità, della sua attualità (che si pose molto presto: a tanti apparve “superato” già nelle sue ultime sessioni) ha accompagnato la nostra vita.

“Nostra” perché lei ed io siamo della stessa generazione. La frequentazione dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna (allora col suo nome dossettiano di Centro di Documentazione), tra il 1965 e i primi anni Settanta, ha legato in termini rigorosi la mia formazione cattolica a quei problemi. Il passaggio dalla sottovalutazione del Concilio, nel progressismo della mia Firenze, al serio lavoro sui testi praticato a Bologna, fu importante. È poi mutata la mia visione delle cose ma niente mi sono gettato dietro le spalle, come invece molti compagni di strada. La discussione ci riguarda e possiamo per questo vederla in una prospettiva di meno astratta competizione tra estremi, quale si presenta oggi. I promemoria recenti di Francesco Arzillo e dell’arcivescovo Agostino Marchetto sono esempi di come procedere utilmente.

Dico subito che l’alternativa alla contrapposizione drammatica tra critici (conservatori, tradizionali, tradizionalisti) e promotori-superatori del Vaticano II, nuovamente esplicita sotto l’attuale pontificato, non sarà una via mediana tra tesi della continuità e tesi della discontinuità. Tra i critici come tra gli apologeti vi sono continuisti e discontinuisti, ovvero sia sostenitori che negatori della continuità del Concilio con la storia vivente della Chiesa, ma con implicazioni opposte.

Non è una rappresentazione monodimensionale e bipolare delle cose che aiuta. L’armonizzazione ratzingeriana, a dominante continuista, tra le due concezioni (nel memorabile discorso del 22 dicembre 2005) si poneva a un livello semantico e teologico diverso da quello implicito allora e oggi in molti negatori o celebratori della verità conciliare. Noto, in proposito, con Brunero Gherardini che “‘conciliare’ ha oggi un significato pressoché assoluto, o almeno antonomastico, perché ha nel Vaticano II, da oltre mezzo secolo, il suo unico riferimento” (“Quod et tradidi vobis”, 2010, p.155). Un lessico così spontaneamente discontinuista da solo varrebbe come guida critica, come “caveat”, nella nostra riflessione.

Infatti è fuori di discussione che nella Chiesa ogni Concilio regolarmente indetto, condotto e promulgato, sussiste nella continuità, ovvero entro le “traditiones” che esso conferma ed esplicita (è qui l’essenza dello sviluppo dogmatico) divenendone parte. La serie di preziosi interventi del cardinale Walter Brandmüller è apparsa indispensabile.

Ma “che il Concilio rappresenti un problema” (come sostiene Carlo Maria Viganò) resta vero, nei limiti che cercherò di chiarire. Se non è così, o non si ritiene questo, la partita è già chiusa e la vittoria assegnata a tavolino a una parte, quella che assume il Vaticano II come Concilio-novità che risolve in sé e supera, come creazione o come eresia, la tradizione, ogni tradizione.

Mi si perdoni il lessico hegeliano, peraltro qui illuminante. Ci resterebbe da discernere, tra i discontinuisti progressisti, chi ne trae conseguenze “moderate” (un Vaticano II canone di ogni presente e futura versione “umana” e solidale della fede, posto “pastoralmente” nell’oblio il “carico” della tradizione) e chi ne deriva corollari eversivi: una nuova Chiesa, un nuovo cristianesimo. Comunque niente da mediare.

Per la versione pro-conciliare, subito diffusa nelle élites di “entusiasti” degli anni Sessanta e oggi operante ovunque nella Chiesa allo stato liquido di banalità indiscussa, non esiste un altro polo che faccia da “balance”: chi ha visioni diverse, o riserve, è un nostalgico, un residuato. Il paradosso che, trattandosi di estremi, essi si tocchino è scontato. Anche molti critici radicali del Concilio ritengono che esso sia “novità assoluta”, quindi da rigettare come eretica. Vale in loro un’analoga disposizione a-dialettica. Chi sostiene, ad esempio, la indistinguibilità tra l’eresia post-conciliare e il Concilio stesso, non può ammettere alcun confronto significativo al di fuori di sé.

Potrei suggerire uno schema, che incrocia due assi di opposti: tra critici e promotori l’uno, tra continuità e discontinuità l’altro.

Come i critici radicali possono essere dei continuisti “sui generis” (secondo i quali la Chiesa e la teologia del Novecento ricaverebbero dalla stagione modernistica le premesse dell’eresia conciliare) o discontinuisti (secondo i quali il Concilio semplicemente rompe con la Tradizione), così gli apologeti del Concilio irreversibile e fondante possono essere continuisti (il Concilio sviluppo-novità che “dà senso” alla Tradizione) o discontinuisti (il Concilio che si pone oltre la Chiesa controriformista o costantiniana, come assoluta nuova partenza).

In particolare, i sostenitori, di diversa radicalità, dell’evento Concilio come nucleo generatore di novità, si trovano – alla pari, sul fronte opposto, dei negatori tradizionalisti della verità conciliare – al di fuori del perimetro di una discussione sui contenuti di fede positiva del Concilio e sulla sua congruità con la tradizione della Chiesa.

La delineazione di un terreno di confronto – all’altezza delle tensioni e negazioni – non potrà essere né tattica né moderata. A mio avviso essa obbliga piuttosto ad assumere:

A. il Concilio non fu rottura né nuova partenza in sede dogmatica, quindi nemmeno in sede di una pastorale che non voglia sostituirsi alla retta fede. Il primo passo è la rinuncia sia alla tesi dell’eresia intrinseca al Concilio sia a quella della “nuova Pentecoste” (bella immagine, ma nell’economia della Redenzione non si dà alcuna innovazione su quanto è irreversibilmente e compiutamente accaduto “in illo tempore”) o ‘nuova rivelazione’, cui spesso rinvia copertamente la retorica della nuova evangelizzazione.

B. nei testi conciliari vi sono elementi che hanno favorito il postconcilio eversivo, nettamente segnato da eresie antropologiche e cristologiche (precoce fu l’analisi del gesuita Jean Galot), da cui procedono quasi tutte le derive in corso. Su questo punto, relativo ad alcuni enunciati del “corpus” conciliare, e in questi limiti, i critici (penso alle profonde letture di Brunero Gherardini) hanno forti ragioni, che i moderati sottovalutano o non vedono.

Allora, il problema ermeneutico posto dal Concilio e il suo esito vincolante per la Chiesa, per i teologi e per le prassi, è nel rapporto sostanziale tra un circoscritto “corpus” di enunciati rischiosi (dispersi in vari documenti ma specialmente in alcuni, dalla “Dei Verbum” alla “Gaudium et spes”, passando per “Nostra aetate” e “Dignitatis humanae”) e il “corpus” conciliare nella sua interezza.

In modi diversi talora questo lo si ammette. Ma le opposte ermeneutiche estreme (il Concilio eresia, o il Concilio evento nel senso di Christophe Theobald più che della “scuola di Bologna”) si sottraggono al compito di affrontare come problema quel rapporto parte-tutto.

Ora, la dialettica stessa della tesi di un Concilio come superamento della Tradizione, in verità come negazione dell’intera storia della Chiesa postapostolica, annienta anche tutto ciò che nel Concilio è dogma e tradizione, formale e sostanziale. Infatti, da un lato:

a) il “corpus” conciliare cosiddetto essenziale e traente è sottratto all’insieme sincronico e diacronico del Concilio; e dall’altro lato

b) se il Concilio è “evento”, esso è per definizione solo il suo futuro. Da ciò la deriva degli innovatori, sperimentata a partire dagli anni Sessanta, verso l’utopia e l’inconsistenza teologica. Difficile, anzi teoreticamente impossibile, è infatti ragionare del Concilio come Chiesa istituita in Cristo se esso è pura soglia o, se si preferisce, fine della storia cattolica e sua trasfigurazione. Qui il superamento è negazione.

Per parte loro i moderati di area filo-conciliare suppongono che il problema non esista e che sessant’anni di lavoro demolitorio contro le “traditiones” in nome del Concilio siano stati forse eccessivi ma ormai irreversibili. Postulano che si sia conservato un messaggio essenziale e perenne, ma non hanno la forza teologica di definirlo con rigore teoretico contro il conciliarismo radicale e decenni di teologie neo modernistiche. La “koiné” moderata finisce con l’accettare l’estrapolazione pratica di “enunciati forti”, che spesso coincidono con i punti critici, errando, perché così facendo essi stessi li isolano dalle “traditiones” e li rendono disponibili ad ogni sviluppo possibile, ad un “sequitur quodlibet” che certo non è il soffio dello Spirito.

“Sed contra”, a mio avviso, il “corpus” testuale conciliare, come “corpus” legittimamente istituente, se non “costituente”, è segnato:

a) da una continuità organica con la dogmatica cattolica, col “credendum” millenario; una continuità che include novità (cioè nuove esplicitazioni dell'unico patrimonio rivelato)  consapevoli e a maggioranza approvate.

b) da innesti, voluti con accanimento da minoranze, ma anche circoscritti e ordinati a un tutto nel lavoro delle diverse sottocommissioni. Innesti già allora controversi, eppure accolti con molti accorgimenti entro la organica tradizione conciliare: dato, questo, che non può essere ignorato come problema, cruciale in molte e opposte direzioni. Certo è che l’assunzione di questo sottotesto conciliare come “corpus” rappresentativo del Concilio è un falso, che continua ad operare distruttivamente, con la pretesa assolutamente arbitraria di contenere l’autentico “spirito del Concilio”. In effetti accantonandolo, poiché il Vaticano II appartiene alla storia dei Concili, alla lettera: né più né meno (Brandmüller).

Come configurare allora l’intero conciliare, tra autorità e problematicità? Come attrezzare il necessario continuismo ermeneutico con la non meno necessaria intelligenza critica di dettati conciliari che si siano mostrati e si mostrino instabili e insidiosi?

Ho una mia proposta, intanto, per la diacronia. Se è vero che i tradizionalisti rischiano una “regressio ad infinitum” alla ricerca di un paradigma di ortodossia, quanto a me ritengo sufficiente assumere come paradigmatico l'ordine cattolico, intellettuale e spirituale, di prestigio mondiale, raggiunto dalla Chiesa e dalla teologia dogmatica tra le due guerre mondiali. Un ordine perfezionato, non negato, dal Vaticano II effettuale.

Il Vaticano II va letto come integrazione teologica e moderazione pastorale della stagione di ricostruzione, antimodernistica e postmodernistica. Questo la maggioranza conciliare volle che il Concilio fosse, e in certo modo questo fu ottenuto, ma con lasciti controvertibili. I lavori del Vaticano II integrarono, infatti, il sistema cattolico sí di scuola romana ma anche recettivo del lavoro tedesco e francofono e delle altre ricchezze teologiche presenti nel Novecento. Accolse le tensioni teologiche come ricchezza, le trattò come rischio. Non potrei accogliere la tesi che agli schemi preparatori, pur sostituiti con un “colpo di mano”, sia subentrato tout court un “coacervo di errori abilmente dissimulati entro discorsi prolissi e volutamente equivoci” (Viganò). Per quanto di storico e di filologo c’è in me, non accetterei questa generalizzazione, anche se ricordo bene, e depreco, la pratica della prolissa retorica, deliberatamente equivoca, di quegli anni.

Inoltre, rispetto a Viganò e a molti altri, difendo ancora come tesi scientifica, dimostrabile, quella del “travisamento indebito, della forzatura arbitraria” operati ogni giorno, nel peri-Concilio, presso opinione pubblica, cleri, laicati, dall’intelligencija teologica, col consenso di alcuni episcopati. (si veda in proposito il mio saggio “Teologie cattoliche e intelligencija europea dagli anni Trenta al pontificato di Giovanni Paolo II”, in P. De Marco (a cura di), “La Pira, don Milani, padre Balducci. Il laboratorio Firenze nelle scelte pubbliche dei cattolici dal fascismo a fine Novecento”, Roma, Magna Carta, 2009, pp. 93-152).

Per queste dinamiche è vero: il Concilio, o meglio la stagione conciliare, rappresentano un problema non eludibile, per la veracità della Chiesa cattolica.

Integrerei quindi i termini A. e B., sempre in vista di un nuovo confronto cattolico, con due proposte di metodo:

C. una ricerca è urgente, quella che ricostruisca gli equilibri dottrinali raggiunti nelle commissioni e ratificati in assemblea e ne tenga conto ermeneuticamente. Questa ricerca sulla genesi intenzionale e fattuale del testo, di cui esistono ottimi esempi (Alexandra von Teuffenbach) si oppone alla visione del “corpus” conciliare come massa inerte.

La massa testuale del Vaticano II, immessa nell'impianto della Tradizione, come avviene nell’improbabile “nuovo Denzinger” di Peter Hünermann, diluisce, disordina, soffoca forse deliberatamente la stessa “ratio” dogmatica. La lettera del Concilio, riaperta alla “intentio auctorum”, deve essere vagliata, compendiata e gerarchizzata, in analogia ai processi classici di codificazione. Linee importanti di tale “codificazione” sono costituite dal magistero postconciliare stesso, da Paolo VI a Benedetto XVI, specialmente dal nuovo Codice di diritto canonico del 1983 e dal Catechismo della Chiesa cattolica del 1997, prima stesura 1992, atti del magistero costituente di Giovanni Paolo II. Nulla di impossibile, dunque, ma da fare. Senza ignorare che il movimento dell’intelletto cattolico dal Concilio ad oggi è stato l'opposto: cancellare la complessità e le tensioni del “continuum” fra Tradizione e Concilio in evasioni discorsive presentate come nuova teologia o aggiornata predicazione e catechesi; tagliare il nodo della continuità. Per ciò l’obiezione non rara: “A che scopo tornare ai testi, visto che la realtà della Chiesa è andata molto oltre?” non ha fondamento. Questo “molto oltre” ha usato il Concilio non come canone per il proprio percorso, ma come fulcro per ottenere “altro”, ovvero per abusare del Concilio stesso. Il nostro attuale “molto oltre” ecclesiale cattolico non è canone di alcunché, è in larga parte disorientamento e disordine.

D. l’accoglimento di un’altra tesi critico-conservatrice: cioè l’esistenza di componenti neomodernistiche nell’età conciliare. Non presente nel Concilio, la costante neocristiana e antidogmatica sul modello protestante-liberale è come riemersa negli anni Sessanta, con l'indebolimento di quella cultura e di quella istituzione che l'avevano fermata: la centralità romana in dottrina e disciplina. Questa evidenza mi ha fatto correggere, negli ultimi anni, una convinzione (l’irreversibilità del superamento romano del modernismo tra le due guerre) che esprimevo nel mio saggio del 2000 “Modernità di Roma. Per un saggio sulla forma cattolica 1848-1962”, in “Vivens Homo. Rivista di Teologia e Scienze Religiose”, Firenze, luglio-dicembre 2000, pp.481-508. In effetti che differenza di fondo c'è tra il biblismo adogmatico di Alfred Loisy e l’insegnamento scritturistico di una comune facoltà teologica, oggi? O tra la filosofia della religione di Ernst Troeltsch, influente tra i cattolici novatori del primo Novecento, e gli indirizzi “teologici” attuali diagnosticati da Antonio Livi? Bisogna ritenere che la corrente del modernismo fosse, tra le due guerre mondiali, diventata carsica, entro il corpo stesso della Chiesa stessa.

Per sottrarci all’odierna diffusa follia di cattolici oggettivamente e spesso deliberatamente anticattolici è anche necessario, dunque, disegnare un terreno di incontro estraneo a condizionamenti neomodernistici, quali sono in sostanza le legittimazioni della Modernità ideologica, come paradigma di valore per la Chiesa.

L’ordine teologico ed ecclesiastico, tra l’enciclica di Pio X “Pascendi” e la fine del Vaticano II, dunque quello della cultura teologica e cattolica in cui si erano formati i padri conciliari, è l'ordine paradigmatico della Chiesa moderna, nella sua sincronia e diacronia. Con questo dato fermo, si possono ponderare sia le novità del magistero conciliare, sia le indubbie intrusioni modernistiche durante e dopo il Concilio. Aprendo gli occhi sul vortice storico e spirituale che ha investito l’ecclesiosfera dagli anni Sessanta, per cui essa sembra trovarsi da allora nel Maelström, senza preoccuparsene.

Settimo Cielo

di Sandro Magister 10 ago

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/08/10/pro-o-contro-il-concilio-la-chiesa-nel-vortice-linee-guida-per-una-pacificazione/

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