DDL ZAN, ovvero il lupo travestito da agnello
Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione, interviene sul ddl Zan, riprendendo in parte il contenuto di due suoi precedenti articoli comparsi sul quotidiano La Verità del 25 luglio e dell’11 novembre 2020, per farne emergere la carica liberticida, in ossequio alla massima del Digesto giustinianeo secondo cui “conoscere le leggi non è tenerne a mente le parole, ma lo spirito e la forza”.
L’articolo di Pietro Dubolino è stato pubblicato sul sito del Centro Studi Livatino da cui lo rilanciamo.
Tra garanzie apparenti e pericoli reali
1. Scire leges non est verba earum tenere, sed vim ac potestatem. A quest’antico brocardo latino, presente nel Digesto giustinianeo ed attribuito al giureconsulto Celso, ci si dovrebbe ispirare non solo quando si tratti di interpretare ed applicare leggi vigenti ma anche quando occorra valutare in anticipo quale possa essere la sfera di effettiva operatività e, più in generale, l’impatto sociale di una legge di cui si proponga l’introduzione nell’ordinamento, come, al presente, si verifica con il disegno di legge Zan contro la c.d. “omotransfobia”.
Stando soltanto al testuale tenore di tale disegno, quale approvato dalla Camera dei deputati ed attualmente all’esame del Senato, potrebbe riconoscersi una qualche validità all’assunto dei suoi promotori e sostenitori secondo il quale esso non inciderebbe sulla libertà di espressione di quanti non condividessero le loro visioni in materia di sessualità e famiglia, ma comporterebbe unicamente l’estensione del già esistente divieto di “atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” all’ipotesi che gli stessi atti siano “fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. E per “atti di discriminazione” debbono intendersi, secondo la definizione datane dalla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, recepita in Italia con la legge n. 654 del 1975, quelli costituiti da “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
Deve trattarsi, quindi, in altri termini e più sinteticamente, di un “comportamento” materiale che non solo sia mosso da determinate motivazioni ma abbia anche, come risultato pratico o almeno come riconoscibile finalità, la effettiva compromissione o la concreta possibilità di effettiva compromissione, in danno di taluni soggetti, delle condizioni di parità con gli altri nel godimento o nell’esercizio di diritti spettanti, per definizione, a tutti indistintamente. Di qui la deduzione che semplici espressioni verbali di dissenso, anche radicale, rispetto alla riconoscibilità, ad esempio, del diritto di omosessuali all’adozione di minori o alla pratica della c.d. “maternità surrogata” non potrebbero essere penalmente perseguite, non avendo esse “lo scopo o l’effetto” di distruggere o compromettere il godimento o l’esercizio di “diritti umani” o “libertà fondamentali” dei quali ciascun consociato debba ritenersi automaticamente ed incondizionatamente titolare. E ciò tanto più in quanto l’art. 4 dello stesso disegno di legge stabilisce espressamente che : “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
2. Ma una tale deduzione (a parte quanto si dirà più oltre a proposito del citato art. 4), ancorché plausibile sotto il profilo della mera interpretazione letterale del testo in questione, non potrebbe in alcun modo dirsi esaustiva delle pratiche conseguenze che esso avrebbe, una volta entrato in vigore, sulle scelte comportamentali della generalità dei consociati. Questi infatti, nella stragrande maggioranza, non sono, ovviamente, esperti di diritto e si regolano, quindi, secondo cognizioni generiche ed approssimative di quanto sia da ritenersi consentito o vietato dalla legge, all’insegna, quasi sempre, del principio per cui, nel dubbio, è meglio astenersi da condotte che, per quanto si sa o se ne sente dire, potrebbero dar luogo a denunce, processi o, più genericamente, a conseguenze giudiziarie o a fastidi di qualsivoglia natura.
Ed è appunto su questo meccanismo che i fautori del disegno di legge Zan fanno, in realtà, senza confessarlo, il maggiore affidamento ai fini della realizzazione di quello che, per essi, è il risultato più importante, e cioè che la materia della sessualità e della famiglia diventi, nella comune percezione, una sorta di terreno minato nel quale la più elementare prudenza consigli quindi di non avventurarsi, se non osservando scrupolosamente le precauzioni dettate dagli stessi soggetti dai quali le mine sono state collocate.
3. Si tratterebbe, del resto, dello stesso risultato al quale si è già pervenuti sotto la vigenza dell’attuale art. 604 bis del codice penale (riproduttivo dell’art. 3 della legge n. 654/1975), dal momento che, nel timore di essere anche solo denunciati per vere o presunte violazioni dei divieti da esso previsti, o, comunque, di subire veementi e rabbiosi attacchi mediatici (e, talvolta, anche fisici), non si osa più parlare o scrivere pubblicamente di rapporti tra razze (la parola stessa è, anzi, secondo alcuni, da considerare bandita), etnie, nazionalità o credenze religiose se non in termini rigorosamente in linea con i dogmi del “politicamente corretto”; vale a dire attenendosi ai luoghi comuni secondo cui la storia, le tradizioni, i costumi, la religione dell’Italia e dell’intera Europa non potrebbero mai essere oggetto di legittimo orgoglio e di adeguata difesa, ma dovrebbero essere trattati in chiave di perpetua autocolpevolizzazione nel raffronto con quelli di altre parti del mondo e, in particolare, con quelli del mondo di tradizione islamica.
Basti per tutti, a dimostrarlo, il caso di Oriana Fallaci, a suo tempo sottoposta a procedimento penale (poi conclusosi senza pronuncia di merito a causa della sua morte), solo per aver pubblicamente sostenuto (poco importa se a torto o a ragione) che la religione islamica, soprattutto per la considerazione che in essa si ha della donna, era incompatibile con i principii della nostra civiltà, senza mai affermare o lasciar intendere, peraltro, che i musulmani dovessero per questo subire pregiudizio alcuno nel godimento o nell’esercizio dei diritti a tutti riconosciuti dalla legge.
4. Né a diversa conclusione potrebbe pervenirsi facendo affidamento sul già ricordato art. 4 del disegno di legge in questione. In base ad esso, infatti, come si è visto, “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte” sarebbero salvaguardate solo a condizione che non diano luogo neppure al “concreto pericolo” (e, a maggior ragione, alla effettiva commissione) di atti che, pur senza essere “violenti”, siano tuttavia almeno “discriminatori”. In pratica è come dire che l’esercizio di determinati diritti non potrebbe comportare responsabilità per discriminazione a condizione, però, che non costituisse… ”discriminazione”. Le due proposizioni si annullano a vicenda e rendono, quindi, del tutto inoperante l’apparente garanzia contenuta nella previsione in questione.
5. Sotto questo profilo, l’attuale disegno di legge rappresenta, anzi, addirittura un peggioramento rispetto all’originaria proposta a firma Scalfarotto ed altri, nel testo approvato dalla Camera nel corso della precedente legislatura e, precisamente, il 19 settembre 2013. In esso, infatti, all’art. 1, comma 1, lett. c), si stabiliva che: “Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente ovvero anche se assunte all’interno di organizzazioni che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei princìpi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni”.
Appare evidente, nel raffronto tra questo testo e quello dell’art. 4 del progetto attualmente all’esame del Senato, che il primo, a differenza del secondo, pur lasciando aperti molti ed inquietanti interrogativi circa l’individuazione, in concreto, delle condizioni previste per la sua operatività, garantiva però che, una volta riscontrata comunque l’esistenza di tali condizioni, sarebbe stata automaticamente esclusa la configurabilità di una “discriminazione” o di una “istigazione alla discriminazione” e, quindi, anche la possibilità che si fosse in presenza di una condotta costituente reato.
Tanto per fare un esempio, stando alla formulazione del testo approvato nel 2013, il direttore di una scuola privata avrebbe potuto nutrire il ragionevole convincimento di non commettere reato nel rifiutare l’assunzione, come insegnante, di un soggetto dichiaratamente ed ostentatamente dedito a pratiche omosessuali, ove avesse ritenuto che una tale scelta di vita fosse in contrasto con gli indirizzi educativi della stessa scuola, quali individuati nell’ambito del diritto che l’art. 33, comma terzo, della Costituzione, attribuisce ad enti e privati di “istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato”. Lo stesso non potrebbe dirsi, però, sulla base di quanto ora prevede l’art. 4 del testo licenziato dalla Camera, dal momento che quell’eventuale rifiuto di assunzione, siccome effettivamente costituente, sotto un profilo meramente oggettivo, una “discriminazione”, potrebbe comunque dar luogo, per ciò solo, a responsabilità penale.
6. Rimane solo da dire, a questo punto, che quella che si è in precedenza indicata come la presumibile, principale finalità perseguita dai promotori del disegno di legge Zan rimarrebbe in larga parte frustrata ove, al posto di esso, venisse approvato il disegno di legge alternativo che, stando alle ultime notizie di cronaca, è stato o starebbe per essere presentato da alcuni senatori dei gruppi di centro destra e la cui caratteristica essenziale sarebbe quella di prevedere soltanto come aggravante per i comuni reati di violenza il fatto che questi siano motivati, tra l’altro, dagli orientamenti sessuali delle vittime. Ciò rappresenterebbe senz’altro un vantaggio, a fronte dei segnalati pericoli per la effettiva libertà di manifestazione del pensiero che di fatto inevitabilmente deriverebbero dall’approvazione del disegno di legge Zan. Vi è però da osservare che si tratterebbe comunque dell’implicito riconoscimento di una situazione di allarme prodotta da un abnorme incremento, in realtà inesistente (come sempre sostenuto anche da tutto lo schieramento di centro destra), di atti di violenza in danno di appartenenti al mondo c.d. LGBT.
Ma si tratterebbe anche e soprattutto di un ennesimo passo avanti sulla via della creazione di sempre nuove categorie di persone da considerare in qualche modo “privilegiate” rispetto alla generalità dei consociati, sotto il profilo, in particolare, del livello al quale deve collocarsi il loro diritto alla protezione da parte dello Stato. Un processo, questo, che porta, in ultima analisi, alla sostituzione del moderno concetto di “Stato di diritto” con quello, ad esso antecedente, di “Stato dei diritti”; di uno Stato, cioè, nel quale non esistevano diritti ritenuti in partenza uguali per tutti ma ciascuna categoria (nobili, mercanti, artigiani, contadini, ecclesiastici, etc.) e, frequentemente, anche taluna delle infinite sottocategorie, doveva adoperarsi per acquisire dal titolare della sovranità e poi difendere contro di lui e contro le altre categorie o sottocategorie i propri particolari diritti.
Non a caso, ad esempio, la “magna charta libertatum” ebbe questa denominazione e non quella di “magna charta libertatis”, proprio perché essa non garantiva un generale diritto di libertà per i sudditi del re d’Inghilterra ma garantiva, essenzialmente, soltanto le singole libertà, specificatamente indicate, dei signori feudali nei confronti della corona. Si è generalmente ritenuto, nel corso degli ultimi tre secoli, che il superamento di tale situazione, anche se talvolta realizzato con metodi a dir poco discutibili, costituisse comunque un progresso. Nulla impedisce, però, di pensarla diversamente e di regolarsi di conseguenza, a condizione che si abbia almeno il coraggio e l’onestà intellettuale di ammetterlo.
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